A due anni dal referendum, disatteso il voto di 26 milioni di italiani. E i profitti dei privati sui servizi idrici sono tornati. Ostacolati da pochi sindaci e dalla rivolta dei comitati. Mentre il Pd si spacca
di Michele Sasso e Francesca Sironi, da L'Espresso, 7 giugno 2013
Quanto valgono 26 milioni di voti in Italia? Niente. E non servono nemmeno sit-in, proteste, denunce. Sono passati esattamente due anni dal referendum sull'acqua pubblica con cui più di metà degli elettori ha chiesto di togliere il profitto dai servizi idrici, e poco o nulla è cambiato. Anzi, politici e tecnici non fanno che approvare decreti controcorrente.
Altro che buttare fuori i privati: a Ferrara il comune, per far cassa, sta vendendo un pacchetto di azioni Hera, la società che riscuote le bollette di buona parte dell'Emilia Romagna e del Nord, da 8 milioni di euro. In Campania la giunta regionale si prepara a scontare di 157 milioni di euro il debito accumulato nei suoi confronti da Gori, un'azienda del gruppo Acea: un regalo. E da Roma arrivano provvedimenti ancora meno in linea. L'Autorità per l'energia elettrica e il gas ha imposto un nuovo modello per le tariffe con il quale, denunciano i comitati, ai gestori saranno garantiti i proventi di un tempo, calcolati come prima ma nascosti sotto un altro nome. E l'impegno a sottrarre spazi ai privati, riportando l'acqua in mani pubbliche, sbandierato all'indomani dello storico risultato? Lettera morta. Lo hanno fatto solo quattro sindaci su 8 mila: a Napoli, l'esempio più citato, Vicenza, Palermo e Reggio Emilia. Nel resto del Paese tutto è come prima. Tra faide politiche, bilanci disastrosi e trasparenza zero.
VOTO TRADITO
La beffa, per gli italiani che sono andati a votare a giugno del 2011, è arrivata due mesi dopo i festeggiamenti. A Ferragosto infatti il governo Berlusconi, con la Finanziaria bis, riammise i privati nella gestione dei servizi locali. Poco dopo anche Mario Monti manovrò in direzione contraria al "fronte dei sì" nel decreto sulle liberalizzazioni. Ma a luglio dell'anno scorso la Corte Costituzionale ha bocciato entrambe le iniziative. E con il niet della Consulta la situazione è tornata a vent'anni fa, ovvero a prima della legge Galli, con cui nel 1994 era iniziata la compravendita delle risorse naturali come beni di mercato. Oggi gli enti locali non possono che applicare le uniche norme disponibili: quelle europee. Visto che una legge post referendum ancora non c'è, nessuno obbliga gli ambiti territoriali (municipi raggruppati a seconda del bacino idrico) a cambiare qualcosa e, in tutta Italia, i gestori sono rimasti gli stessi di prima: «Scegliere se seguire l'esito della consultazione o no dipende ora dai politici», spiega Paolo Carsetti, del Forum acqua bene comune.
BOLLETTE D'ORO
Il vero schiaffo ai referendari però non è arrivato dai politici, quanto da un organo tecnico incaricato nel 2011 del controllo sui servizi idrici del Paese: l'Autorità per l'energia elettrica e il gas. Il voto aveva sancito infatti l'abolizione definitiva della «adeguata remunerazione del capitale investito» dei gestori. Chiedeva cioè di eliminare i profitti: con le bollette si sarebbero dovuti coprire i costi, non distribuire dividendi. Il 28 dicembre del 2012 però l'Autorità ha pubblicato un nuovo modello tariffario, in cui è previsto il rimborso degli "oneri finanziari". Una cifra che finisce, ovviamente, nelle bollette. Secondo i comitati si tratta di una «truffa», che fa rientrare dalla finestra gli utili per i gestori. L'Autorità replica: «Il metodo si basa sul criterio europeo del pieno riconoscimento dei costi. Perché se vogliamo che l'acqua sia effettivamente un bene pubblico i costi devono essere coperti».
La delibera dell'Authority guidata da Guido Bortoni, super manager pubblico con uno stipendio da 298 mila euro all'anno (400 mila fino al 2011), ha sollevato altri vespai. L'associazione nazionale degli enti d'ambito (Anea) ha calcolato, in un rapporto appena presentato, che per effetto del nuovo modello potremmo subire aumenti del prezzo dell'acqua del 10 per cento, con picchi superiori al 40. Non solo. Grazie a un cavillo inserito nella delibera i gestori potranno mettere a bilancio, oltre ai loro investimenti, anche quelli finanziati con fondi pubblici. Ovvero: lo Stato paga dei lavori e il gestore se li mette fra le spese. E visto che tutti i costi ricadono poi sulla bolletta, gli italiani si troveranno così a pagare lo stesso intervento (dalla tubatura rotta al nuovo depuratore) due volte: con le tasse e con la tariffa. «Siamo stati contrari, fin da subito», dice Luciano Baggiani, presidente dell'Anea: «Per altri aspetti ci hanno ascoltato. Su questo no». Invece per l'Authority non è che «una proposta innovativa per gli interventi a vantaggio della collettività: risorse vincolate alla realizzazione delle opere necessarie».
LA PROTESTA
Contro la nuova tariffa il Forum ha fatto ricorso al Tar in Lombardia. L'Autorità si dice tranquilla del risultato: «Attendiamo con serenità che si stabilisca se siamo stati rispettosi dell'esito referendario, come abbiamo sempre voluto essere». In attesa dei giudici c'è però chi ha deciso di non perdere tempo. È nata così una campagna di "Obbedienza civile": più di 12 mila persone, da Padova alla Puglia, hanno iniziato ad autoridursi la bolletta. La protesta funziona come "un'istanza di rimborso", una richiesta scritta ai gestori per farsi restituire la quota illegittima di profitti versata dopo il referendum. L'epicentro dei bollettini fai-da-te è Arezzo, dove i cittadini si sono auto-scontati l'acqua del 13 per cento. «In oltre 3 mila hanno aderito alla campagna», racconta Stefano Mencucci del comitato locale: «Ogni famiglia ha risparmiato più di 50 euro». Qui la battaglia ha macinato in pochi mesi centinaia di sostenitori. I 300 mila abitanti della bassa Toscana d'altronde sono stati i primi nella Penisola a passare sotto il controllo dei privati, alla fine degli anni Novanta, e a pagarne le conseguenze. «I costi sono cresciuti del 40 per cento in 15 anni», continua Mencucci: «Di fronte all'autoriduzione l'unica cosa che ha saputo fare il gestore è stato minacciare di staccarci i contatori».
PARTITO SPACCATO
La rivolta contro le tariffe è passata ora alle istituzioni. Il 19 aprile 40 comuni toscani tra Firenze e il Mugello hanno bocciato un aumento di più del 10 per cento delle bollette. «Ci sembrava una scelta opaca», commenta Virginia Lombardi, allora assessore all'Ambiente di Pistoia: «Per questo l'abbiamo respinta. Non possiamo continuare a negare il referendum». In risposta alla loro decisione Publiacqua, la società che serve un milione e 277 mila toscani, ha inviato ai sindaci una lettera in cui minaccia il blocco degli investimenti se la nuova tariffa non verrà approvata. E per la sua battaglia la Lombardi ha perso la poltrona: il sindaco, democratico, l'ha sospesa dall'incarico. «Questi temi mettono in difficoltà il Pd», commenta. Nel partito del premier Enrico Letta l'acqua è un tema che divide. Tra i sindaci toscani l'unico favorevole all'aumento è stato Matteo Renzi, da sempre contrario alla ri-pubblicizzazione dei servizi idrici: «Con la vittoria del sì al referendum saltano gli investimenti contro gli sprechi», aveva dichiarato a suo tempo. Su posizioni opposte è un esponente di spicco della stessa corrente, Graziano Delrio, che da sindaco di Reggio Emilia ha sostenuto l'addio del suo comune al colosso Iren. «Abbiamo iniziato il percorso insieme al consiglio comunale», spiega a "l'Espresso" l'attuale ministro per gli Affari regionali: «E ci hanno seguito i comuni della provincia, per arrivare all'affidamento del servizio a una società totalmente pubblica. È un percorso ponderato, non demagogico, condizionato al requisito di mantenere una gestione efficiente e una qualità come quelle attuali. Vogliamo essere certi che il tasso di investimenti sul territorio resti lo stesso».
A Torino la maggioranza di centrosinistra guidata da Piero Fassino è in difficoltà: migliaia di abitanti hanno firmato per trasformare la spa locale in un'azienda no profit. Il primo cittadino prende tempo, ma i comitati ricordano gli impegni annunciati in campagna elettorale: «Se diventerò sindaco, mi impegnerò a garantire che il servizio di gestione dell'acqua resti pubblico». E in questi giorni a Roma si presenterà un gruppo interparlamentare con l'obiettivo di portare avanti una legge che dia finalmente attuazione al referendum. Hanno aderito parlamentari grillini e di Sel. I democratici? Pochi, e a titolo personale.
DODICI ANNI SPESI MALE
La difficoltà del Pd è comprensibile. Il voto di due anni fa è andato a colpire un suo storico bacino di consensi. Hera, fondata a Bologna; l'emiliana Iren, che si espande verso Nord; il monopolio di Acea nel Centro-Sud: sono tutti fortini nati democratici e poi passati al colore di turno seguendo lo spoil system. «Regole disattese, abusivismo incontrollato, favori e lavori impropri, dai lampioni stradali ai muretti dei cimiteri», denuncia Roberto Passino, ex presidente del Comitato di vigilanza sui servizi idrici del ministero dell'Ambiente, soppresso due anni fa: «La gestione dell'acqua, con la sua presenza capillare, è usata per scopi elettorali dai poteri locali».
La confusione tra controllati e controllori genera mostri. Come nel caso di Gori, che dal 2002 a oggi ha accumulato debiti per 185 milioni di euro nei confronti della Regione Campania. Per anni ha messo in bilancio crediti praticamente inesistenti, dovuti a un piano tariffario che i sindaci non avevano mai visto, secondo il quale la società avrebbe incassato bollette molto più alte del reale.
Ad approvarlo in sordina nel 2007, da presidente dell'Ambito territoriale, era stato Alberto Irace, che dopo la mossa pro-Gori (sanzionata allora dal comitato ministeriale) è passato in Acea e oggi è amministratore delegato della toscana Publiacqua. Il suo ultimo libro è scritto con Erasmo D'Angelis, renziano di ferro, promosso dalla presidenza della utility fiorentina a sottosegretario alle Infrastrutture.
Anche in Abruzzo il commissario straordinario Pierluigi Caputi ha scoperchiato una situazione disastrosa: 300 milioni di debiti accumulati dai gestori delle reti. Come è potuto succedere? Attività opache e inefficienti, sostiene. «Da tempo segnalavamo affidamenti fuori norma e consulenze dubbie, ma nessuno ci ha mai dato risposta», racconta Renato di Nicola del Forum abruzzese. A Latina non sono bastate decine di sentenze del Tar a togliere gli acquedotti dalle mani di Acqualatina, il cui socio privato è la multinazionale francese Veolia. Il comune di Aprilia da tempo protesta contro il contratto stipulato con la società: sarebbe stato modificato per garantire ricavi sicuri. «L'unica risposta che abbiamo avuto sono stati investimenti bloccati nel nostro territorio, una rappresaglia», racconta Alberto de Monaco del comitato locale.
TRASPARENZA? NO GRAZIE
I servizi idrici, d'altronde, sono un "monopolio naturale": dalle fonti ai rubinetti non ci può esser concorrenza. Per questo il controllo delle istituzioni è fondamentale, quanto scarso: le tariffe sono aumentate costantemente dal 2002 (vedi grafico a pagina 51), senza dare risultati concreti sugli investimenti. L'anno scorso la Commissione europea ha minacciato nuove sanzioni: se non verrà risolto il problema della depurazione, soprattutto al Sud, dovremo pagare multe da decine di milioni di euro e rischiamo di perdere futuri fondi Ue. L'associazione di categoria dei gestori, Federutility, sostiene che i soldi per le infrastrutture ora li dovrebbe mettere il governo, perché gli introiti delle bollette non bastano. «Dopo che per anni ci è stato ripetuto che la tariffa serve a finanziare gli investimenti», replica Corrado Oddi della Cgil: «Ora lo Stato deve intervenire perché il settore è preoccupato di non guadagnare abbastanza. Dove sono finiti i milioni intascati finora?».
Difficile rispondere, anche perché «avere informazioni sull'attività svolta è praticamente impossibile», racconta Passino, che con il Comitato di sorveglianza ministeriale ha combattuto per ottenere un database ora abbandonato dalla nuova Autorità. Per questo, dicono i comitati, si dovrebbe applicare una nuova idea di "pubblico", lontana dai vecchi carrozzoni lottizzati: «Se fosse garantita la trasparenza e la partecipazione dei cittadini», dichiara Marco Bersani di Attac Italia, «il servizio non potrebbe che essere migliore». Le strade, alcune semplici, altre più tortuose, per passare da gestioni private a un controllo no profit dell'acqua ci sono. Basterebbe solo seguire la corrente del referendum.
(7 giugno 2013)
di Michele Sasso e Francesca Sironi, da L'Espresso, 7 giugno 2013
Quanto valgono 26 milioni di voti in Italia? Niente. E non servono nemmeno sit-in, proteste, denunce. Sono passati esattamente due anni dal referendum sull'acqua pubblica con cui più di metà degli elettori ha chiesto di togliere il profitto dai servizi idrici, e poco o nulla è cambiato. Anzi, politici e tecnici non fanno che approvare decreti controcorrente.
Altro che buttare fuori i privati: a Ferrara il comune, per far cassa, sta vendendo un pacchetto di azioni Hera, la società che riscuote le bollette di buona parte dell'Emilia Romagna e del Nord, da 8 milioni di euro. In Campania la giunta regionale si prepara a scontare di 157 milioni di euro il debito accumulato nei suoi confronti da Gori, un'azienda del gruppo Acea: un regalo. E da Roma arrivano provvedimenti ancora meno in linea. L'Autorità per l'energia elettrica e il gas ha imposto un nuovo modello per le tariffe con il quale, denunciano i comitati, ai gestori saranno garantiti i proventi di un tempo, calcolati come prima ma nascosti sotto un altro nome. E l'impegno a sottrarre spazi ai privati, riportando l'acqua in mani pubbliche, sbandierato all'indomani dello storico risultato? Lettera morta. Lo hanno fatto solo quattro sindaci su 8 mila: a Napoli, l'esempio più citato, Vicenza, Palermo e Reggio Emilia. Nel resto del Paese tutto è come prima. Tra faide politiche, bilanci disastrosi e trasparenza zero.
VOTO TRADITO
La beffa, per gli italiani che sono andati a votare a giugno del 2011, è arrivata due mesi dopo i festeggiamenti. A Ferragosto infatti il governo Berlusconi, con la Finanziaria bis, riammise i privati nella gestione dei servizi locali. Poco dopo anche Mario Monti manovrò in direzione contraria al "fronte dei sì" nel decreto sulle liberalizzazioni. Ma a luglio dell'anno scorso la Corte Costituzionale ha bocciato entrambe le iniziative. E con il niet della Consulta la situazione è tornata a vent'anni fa, ovvero a prima della legge Galli, con cui nel 1994 era iniziata la compravendita delle risorse naturali come beni di mercato. Oggi gli enti locali non possono che applicare le uniche norme disponibili: quelle europee. Visto che una legge post referendum ancora non c'è, nessuno obbliga gli ambiti territoriali (municipi raggruppati a seconda del bacino idrico) a cambiare qualcosa e, in tutta Italia, i gestori sono rimasti gli stessi di prima: «Scegliere se seguire l'esito della consultazione o no dipende ora dai politici», spiega Paolo Carsetti, del Forum acqua bene comune.
BOLLETTE D'ORO
Il vero schiaffo ai referendari però non è arrivato dai politici, quanto da un organo tecnico incaricato nel 2011 del controllo sui servizi idrici del Paese: l'Autorità per l'energia elettrica e il gas. Il voto aveva sancito infatti l'abolizione definitiva della «adeguata remunerazione del capitale investito» dei gestori. Chiedeva cioè di eliminare i profitti: con le bollette si sarebbero dovuti coprire i costi, non distribuire dividendi. Il 28 dicembre del 2012 però l'Autorità ha pubblicato un nuovo modello tariffario, in cui è previsto il rimborso degli "oneri finanziari". Una cifra che finisce, ovviamente, nelle bollette. Secondo i comitati si tratta di una «truffa», che fa rientrare dalla finestra gli utili per i gestori. L'Autorità replica: «Il metodo si basa sul criterio europeo del pieno riconoscimento dei costi. Perché se vogliamo che l'acqua sia effettivamente un bene pubblico i costi devono essere coperti».
La delibera dell'Authority guidata da Guido Bortoni, super manager pubblico con uno stipendio da 298 mila euro all'anno (400 mila fino al 2011), ha sollevato altri vespai. L'associazione nazionale degli enti d'ambito (Anea) ha calcolato, in un rapporto appena presentato, che per effetto del nuovo modello potremmo subire aumenti del prezzo dell'acqua del 10 per cento, con picchi superiori al 40. Non solo. Grazie a un cavillo inserito nella delibera i gestori potranno mettere a bilancio, oltre ai loro investimenti, anche quelli finanziati con fondi pubblici. Ovvero: lo Stato paga dei lavori e il gestore se li mette fra le spese. E visto che tutti i costi ricadono poi sulla bolletta, gli italiani si troveranno così a pagare lo stesso intervento (dalla tubatura rotta al nuovo depuratore) due volte: con le tasse e con la tariffa. «Siamo stati contrari, fin da subito», dice Luciano Baggiani, presidente dell'Anea: «Per altri aspetti ci hanno ascoltato. Su questo no». Invece per l'Authority non è che «una proposta innovativa per gli interventi a vantaggio della collettività: risorse vincolate alla realizzazione delle opere necessarie».
LA PROTESTA
Contro la nuova tariffa il Forum ha fatto ricorso al Tar in Lombardia. L'Autorità si dice tranquilla del risultato: «Attendiamo con serenità che si stabilisca se siamo stati rispettosi dell'esito referendario, come abbiamo sempre voluto essere». In attesa dei giudici c'è però chi ha deciso di non perdere tempo. È nata così una campagna di "Obbedienza civile": più di 12 mila persone, da Padova alla Puglia, hanno iniziato ad autoridursi la bolletta. La protesta funziona come "un'istanza di rimborso", una richiesta scritta ai gestori per farsi restituire la quota illegittima di profitti versata dopo il referendum. L'epicentro dei bollettini fai-da-te è Arezzo, dove i cittadini si sono auto-scontati l'acqua del 13 per cento. «In oltre 3 mila hanno aderito alla campagna», racconta Stefano Mencucci del comitato locale: «Ogni famiglia ha risparmiato più di 50 euro». Qui la battaglia ha macinato in pochi mesi centinaia di sostenitori. I 300 mila abitanti della bassa Toscana d'altronde sono stati i primi nella Penisola a passare sotto il controllo dei privati, alla fine degli anni Novanta, e a pagarne le conseguenze. «I costi sono cresciuti del 40 per cento in 15 anni», continua Mencucci: «Di fronte all'autoriduzione l'unica cosa che ha saputo fare il gestore è stato minacciare di staccarci i contatori».
PARTITO SPACCATO
La rivolta contro le tariffe è passata ora alle istituzioni. Il 19 aprile 40 comuni toscani tra Firenze e il Mugello hanno bocciato un aumento di più del 10 per cento delle bollette. «Ci sembrava una scelta opaca», commenta Virginia Lombardi, allora assessore all'Ambiente di Pistoia: «Per questo l'abbiamo respinta. Non possiamo continuare a negare il referendum». In risposta alla loro decisione Publiacqua, la società che serve un milione e 277 mila toscani, ha inviato ai sindaci una lettera in cui minaccia il blocco degli investimenti se la nuova tariffa non verrà approvata. E per la sua battaglia la Lombardi ha perso la poltrona: il sindaco, democratico, l'ha sospesa dall'incarico. «Questi temi mettono in difficoltà il Pd», commenta. Nel partito del premier Enrico Letta l'acqua è un tema che divide. Tra i sindaci toscani l'unico favorevole all'aumento è stato Matteo Renzi, da sempre contrario alla ri-pubblicizzazione dei servizi idrici: «Con la vittoria del sì al referendum saltano gli investimenti contro gli sprechi», aveva dichiarato a suo tempo. Su posizioni opposte è un esponente di spicco della stessa corrente, Graziano Delrio, che da sindaco di Reggio Emilia ha sostenuto l'addio del suo comune al colosso Iren. «Abbiamo iniziato il percorso insieme al consiglio comunale», spiega a "l'Espresso" l'attuale ministro per gli Affari regionali: «E ci hanno seguito i comuni della provincia, per arrivare all'affidamento del servizio a una società totalmente pubblica. È un percorso ponderato, non demagogico, condizionato al requisito di mantenere una gestione efficiente e una qualità come quelle attuali. Vogliamo essere certi che il tasso di investimenti sul territorio resti lo stesso».
A Torino la maggioranza di centrosinistra guidata da Piero Fassino è in difficoltà: migliaia di abitanti hanno firmato per trasformare la spa locale in un'azienda no profit. Il primo cittadino prende tempo, ma i comitati ricordano gli impegni annunciati in campagna elettorale: «Se diventerò sindaco, mi impegnerò a garantire che il servizio di gestione dell'acqua resti pubblico». E in questi giorni a Roma si presenterà un gruppo interparlamentare con l'obiettivo di portare avanti una legge che dia finalmente attuazione al referendum. Hanno aderito parlamentari grillini e di Sel. I democratici? Pochi, e a titolo personale.
DODICI ANNI SPESI MALE
La difficoltà del Pd è comprensibile. Il voto di due anni fa è andato a colpire un suo storico bacino di consensi. Hera, fondata a Bologna; l'emiliana Iren, che si espande verso Nord; il monopolio di Acea nel Centro-Sud: sono tutti fortini nati democratici e poi passati al colore di turno seguendo lo spoil system. «Regole disattese, abusivismo incontrollato, favori e lavori impropri, dai lampioni stradali ai muretti dei cimiteri», denuncia Roberto Passino, ex presidente del Comitato di vigilanza sui servizi idrici del ministero dell'Ambiente, soppresso due anni fa: «La gestione dell'acqua, con la sua presenza capillare, è usata per scopi elettorali dai poteri locali».
La confusione tra controllati e controllori genera mostri. Come nel caso di Gori, che dal 2002 a oggi ha accumulato debiti per 185 milioni di euro nei confronti della Regione Campania. Per anni ha messo in bilancio crediti praticamente inesistenti, dovuti a un piano tariffario che i sindaci non avevano mai visto, secondo il quale la società avrebbe incassato bollette molto più alte del reale.
Ad approvarlo in sordina nel 2007, da presidente dell'Ambito territoriale, era stato Alberto Irace, che dopo la mossa pro-Gori (sanzionata allora dal comitato ministeriale) è passato in Acea e oggi è amministratore delegato della toscana Publiacqua. Il suo ultimo libro è scritto con Erasmo D'Angelis, renziano di ferro, promosso dalla presidenza della utility fiorentina a sottosegretario alle Infrastrutture.
Anche in Abruzzo il commissario straordinario Pierluigi Caputi ha scoperchiato una situazione disastrosa: 300 milioni di debiti accumulati dai gestori delle reti. Come è potuto succedere? Attività opache e inefficienti, sostiene. «Da tempo segnalavamo affidamenti fuori norma e consulenze dubbie, ma nessuno ci ha mai dato risposta», racconta Renato di Nicola del Forum abruzzese. A Latina non sono bastate decine di sentenze del Tar a togliere gli acquedotti dalle mani di Acqualatina, il cui socio privato è la multinazionale francese Veolia. Il comune di Aprilia da tempo protesta contro il contratto stipulato con la società: sarebbe stato modificato per garantire ricavi sicuri. «L'unica risposta che abbiamo avuto sono stati investimenti bloccati nel nostro territorio, una rappresaglia», racconta Alberto de Monaco del comitato locale.
TRASPARENZA? NO GRAZIE
I servizi idrici, d'altronde, sono un "monopolio naturale": dalle fonti ai rubinetti non ci può esser concorrenza. Per questo il controllo delle istituzioni è fondamentale, quanto scarso: le tariffe sono aumentate costantemente dal 2002 (vedi grafico a pagina 51), senza dare risultati concreti sugli investimenti. L'anno scorso la Commissione europea ha minacciato nuove sanzioni: se non verrà risolto il problema della depurazione, soprattutto al Sud, dovremo pagare multe da decine di milioni di euro e rischiamo di perdere futuri fondi Ue. L'associazione di categoria dei gestori, Federutility, sostiene che i soldi per le infrastrutture ora li dovrebbe mettere il governo, perché gli introiti delle bollette non bastano. «Dopo che per anni ci è stato ripetuto che la tariffa serve a finanziare gli investimenti», replica Corrado Oddi della Cgil: «Ora lo Stato deve intervenire perché il settore è preoccupato di non guadagnare abbastanza. Dove sono finiti i milioni intascati finora?».
Difficile rispondere, anche perché «avere informazioni sull'attività svolta è praticamente impossibile», racconta Passino, che con il Comitato di sorveglianza ministeriale ha combattuto per ottenere un database ora abbandonato dalla nuova Autorità. Per questo, dicono i comitati, si dovrebbe applicare una nuova idea di "pubblico", lontana dai vecchi carrozzoni lottizzati: «Se fosse garantita la trasparenza e la partecipazione dei cittadini», dichiara Marco Bersani di Attac Italia, «il servizio non potrebbe che essere migliore». Le strade, alcune semplici, altre più tortuose, per passare da gestioni private a un controllo no profit dell'acqua ci sono. Basterebbe solo seguire la corrente del referendum.
(7 giugno 2013)
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