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lunedì 30 settembre 2013

Luciano Gallino: «Cambiamo i trattati UE»


di Luciano Gallino

Poco prima delle elezioni, una nota rivista tedesca di studi politici ha pubblicato un articolo intitolato "Quattro anni di Merkel, quattro anni di crisi europea". L'autore, Andreas Fisahn, non si riferiva affatto al rinnovo ch'era ormai certo del mandato alla Cancelliera, bensì al precedente periodo 2010-2013, in cui l'austerità imposta da Berlino tramite Angela Merkel ha rovinato i paesi Ue. Ma la sua diagnosi ci porta a dire che la riconferma di quest'ultima assicura che senza mutamenti di rilievo nelle politiche dell'Unione il prossimo quadriennio potrebbe essere anche peggio.
Sui guasti pan-europei delle politiche di austerità come ricetta per risolvere la crisi, in nome della stabilità dei bilanci pubblici, non ci possono essere dubbi. I disoccupati nella Ue hanno superato i 25 milioni, di cui oltre 19 nella sola zona euro, e 4 in Italia. La compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori ha creato decine di milioni di lavoratori poveri, a cominciare dalla Germania dove i salari reali, caso unico in Europa, sono oggi inferiori a quelli del 2000.
Quasi ovunque sono stati brutalmente tagliati i trattamenti pensionistici - da noi ne sanno qualcosa gli esodati, ma non soltanto loro - insieme con i fondi per l'istruzione, la sanità, i trasporti pubblici. Paesi quali la Grecia e il Portogallo sono stati letteralmente strangolati dalle prescrizioni della troika venuta dal Nord, senza che esse abbiano minimamente giovato ai loro bilanci. In tutta la Ue i comuni devono fronteggiare difficoltà di bilancio mai viste per continuare ad assicurare i servizi locali ai residenti.
Codesti risultati delle politiche di austerità, imposte alla fine dalla Germania, dovrebbero bastare per concludere che è necessario cambiare strada. Per contro i governi europei insistono sul sentiero battuto, a riprova del fatto che gli dèi fanno prima uscire di senno coloro che vogliono abbattere. La loro persistenza nell'errore ha preso sempre più forma di misure autoritarie, ideate e avallate da Berlino, Francoforte e Bruxelles. Hanno stanziato quattromila miliardi per salvare le banche, di cui oltre duemila impiegati soltanto nel 2008-2010, ma se i cittadini provano a dire che con 500 euro di pensione o 800 di cassa integrazione non si vive li mettono a tacere con cipiglio affermando che i tagli è l'Europa a chiederli.
Come si legge in un altro articolo della stessa rivista citata sopra (firmato da H.-J. Urban), l'autoritarismo dei governi Ue trova un solido alimento nella retorica in tema di sorveglianza e disciplina finanziaria della Bce. La quale parla, nei suoi documenti ufficiali, di"processi di comando permanente""regole rigorose e vincolanti di disciplina politico-fiscale""credibilità ottenuta tramite sanzioni""sorveglianza rafforzata sui bilanci pubblici", nonché di "robusti meccanismi di correzione" (leggasi pesanti sanzioni) che dovrebbero scattare in modo automatico. Giusto quelli che nei giorni scorsi han messo in fibrillazione il nostro governo, perché forse il bilancio dello Stato ha superato il fatidico limite del 3 per cento sul Pil di un decimo di punto percentuale.
Allo scopo di contrastare sia le politiche dissennate che pretendono di curare la crisi ricorrendo alle stesse dottrine che l'hanno causata, sia il crescente autoritarismo con cui i governi Ue le impongono sotto la sferza costruita da Berlino ma brandita ogni giorno dalla troika di Bruxelles (che in realtà è un quartetto, poiché molte delle sue più aspre prescrizioni sono elaborate dal Consiglio europeo, di cui fanno parte i capi di Stato e di governo dei paesi Ue), esiste una sola strada: la riforma dei trattati Ue, ovvero dei trattati di Maastricht, Lisbona ecc. oggi ricompresi nella versione consolidata che comprende le norme di funzionamento dell'Unione.
I trattati particolari che ne sono discesi, fino all'ultimo dissennato "Patto fiscale", che se fosse mai rispettato assicurerebbe all'Italia una o due generazioni di miseria, hanno come base il Trattato Ue, per cui da questo bisognerebbe partire.
Tra le revisioni principali da apportare al Trattato (alcune delle quali sono prospettate anche da Fisahn, l'autore citato all'inizio: ma articoli e libri che avanzano proposte a tale scopo, in quel tanto di pensiero critico che sopravvive in Europa, sono dozzine) la prima sarebbe diattribuire al Parlamento Europeo dei poteri reali, laddove oggi chi elabora i veri atti di governo è un organo del tutto irresponsabile, non eletto da nessuno, quale è la Commissione europea.
Lo statuto della Bce dovrebbe includere la facoltà, sia pure a certe condizioni, di prestare denaro direttamente ai governi, rimuovendo l'assurdità per cui è l'unica banca centrale del mondo cui è vietato di farlo. Inoltre, esso dovrebbe porre accanto alla stabilità dei prezzi, quale finalità primaria delle sue azioni, un vincolo miope imposto a suo tempo dalla Germania che non ha ancora elaborato il lutto per l'inflazione del 1923, lo scopo di promuovere la piena occupazione.
Dovrebbe altresì prevedere, la revisione del Trattato Ue, una graduale riforma radicale del sistema finanziario europeo volta a ridurre i suoi difetti strutturali, cioè l'eccesso di dimensioni, complessità, opacità (il sistema bancario ombra pesa nella Ue quanto il totale degli attivi delle banche), di facoltà di creare denaro dal nulla mediante il debito; laddove nella versione attuale il Trattato si preoccupa soprattutto di liberalizzare ogni aspetto del sistema stesso, con i risultati disastrosi che si sono visti dal 2008 in avanti: in special modo in Germania.
A fronte di tale indispensabile riforma, gli interventi in atto o in gestazione, tipo il Servizio europeo di vigilanza bancaria o l'unione bancaria, sono palliativi da commedia di Molière. Infine l'intero trattato dovrebbe essere riveduto in modo da prevedere modalità concrete di partecipazione democratica dei cittadini a diversi livelli di decisione, dai comuni ai massimi organi di governo dell'Unione. Come diceva Hannah Arendt, senza tale partecipazione la democrazia non è niente.
So bene che a questo punto chi legge sta pensando che tutto ciò è impossibile. Stante la situazione politica attuale, nel nostro paese come in altri e specialmente in Germania, non ho dubbi al riguardo. Ma forse si potrebbe cominciare a discuterne. Ci sarebbe un politico italiano volonteroso e capace di avviare simile discussione? Anche perché l'alternativa è quella di continuare a discutere per altri venti o trent'anni, intanto che il paese crolla, di come fare a ridurre il deficit di un decimo dell'un per cento. 

Crisi governo: crolla il capolavoro del Peggiorista.



di Pino Cabras.

La crisi di governo si incrocia da subito con una profonda crisi istituzionale. Beppe Grillo sta già chiedendo perfino le dimissioni diGiorgio Napolitano. Quando il PD e il PDL rielessero il Peggiorista del Quirinale, parlammo di «Vilipendio al Popolo Italiano». Ci risultava ben chiaro che Napolitano Due avrebbe dato vita a un governo peggiore di quello - già disastroso - di Rigor Montis (il minor economista della nostra epoca, che Napolitano Uno aveva fatto senatore a vita per poi indirizzarlo a Palazzo Chigi). Peccavamo però di ottimismo. Nemmeno certi governi balneari di Giovanni Leone o di Amintore Fanfani al suo crepuscolo avevano congelato in modo tanto miserabile la funzione di governo quanto il governo di Enrico Letta, ora al capolinea.

Perciò la crisi rivela bene quanto siano cadute in basso le cupole delle "larghe intese". Al minimo di azione di governo (un minimo sotto zero), è corrisposto il massimo di fuga in avanti per stravolgere l'assetto della Repubblica. Nonostante la paralisi lettiana, gli "strateghi" del PD e del PDL, rifugiati sotto le vecchie ali del Peggiorista, pensavano infatti di cambiare metà della Costituzione, cioè distruggerla, proprio come piace a JP Morgan. Hanno preso il piede di porco (anzi, un piede di porcellum) e hanno iniziato a scardinare l'articolo 138, cioè la saracinesca che protegge la Carta dalle manomissioni improvvisate. Tra le cose buone della crisi c'è questa: forse il processo di revisione che insidia la Costituzione si interrompe. Magari l'assalto alla saracinesca muore lì, e quei "saggi" che fanno da palo potranno allegramente trovarsi una diversa collocazione per il piede di porco. Qualche suggerimento in proposito glielo possiamo comunque dare, il 12 ottobre.

Il PD ha già messo in fuga due terzi dei suoi iscritti, eppure i suoi dirigenti non se ne curano. Anche se sapevano che il Caimandrillo era vicino a subire inevitabili condanne nei suoi processi, lo hanno abbracciato, con una pulsione conservatrice che si è rivelata una pulsione suicida. Me lo ricordo bene il TG3 del 20 aprile 2013, quando Giorgio Napolitano era stato appena rieletto. Si vedeva il Caimandrillo felice. Più che rettile, era erettile. Ma non era l'unico. Enrico Letta parlava con un'insolita spavalderia, e dichiarava che per il PD era il «momento di ricostruire», mentre commentava sui dissensi con un «faremo pulizia», cioè epurazioni. Letta era ormai il premier in pectore, e pensava di durare, di poter sopportare qualsiasi prezzo. Calcolo infondato.

Molti critici insistono dicendo: "hanno sbagliato tutto". Ma questi non sono soltanto sbagli di calcolo e di prospettiva. Il fatto è che PD e PDL sono i prodotti finali della cosiddetta Seconda Repubblica, un composto bipartitico instabile e degenerato, che ammette una competizione per contendere le cariche, ma che in realtà non affronta mai l'ingombro delinquenziale dei ricatti e degli scambi. La Seconda Repubblica è nata infatti ammazzando Falcone e Borsellino, e ha vegetato nascondendone con ogni mezzo il perché. Sotto la copertura della trattativa tra lo "Stato profondo" e la mafia, tante altre negoziazioni hanno trasformato le classi dirigenti italiane in unceto affaristico-politico criminale fra i più avidi e parassitari del pianeta: un sistema senza progetto, se non quello di arraffare, e durare fra le zuffe. Il garante costituzionale di tutta questa poltiglia non può più tenerla insieme. Ci vorrebbe un progetto, ma Napolitano non ha altro progetto che conservarla. Solo che ormai questa poltiglia è polvere da sparo.

C'era un'altra cosa che teneva insieme gli ingredienti dell'ultimoesperimento del dott. Napolitanstein: era la situazione internazionale, cioè quel che i giornaloni italiani trascurano sempre di considerare. Fino alle elezioni tedesche del 22 settembre occorreva un po' di formaldeide che imbalsamasse l'Italia e lo spread senza far scatenare prima di allora una crisi incontrollabile. E fino a pochi giorni fa la i comandanti atlantici della Portaerei Italia non gradivano scazzi fra i suoi ufficiali perché c'era una guerra da fare subito, quella allaSiria. Prima della guerra del Kossovo, intorno al governo erano riusciti a mettere insieme perfino Cossiga e Cossutta, e prima dell'aggressione alla Libia avevano beneficiato dell'improvviso rientro di quasi tutti i fuoriusciti dalla maggioranza di Berlusconi. Quel minimo di stabilità atlantista serviva anche stavolta, ma poi l'attacco aereo USA alla Siria ha avuto lo stop che sappiamo. Sono cambiati gli equilibri, dopo che son cambiati i papi, e i BRICS. Nella Portaerei Italia si può riprendere a disfare i governi.

Grillo chiede le dimissioni del Peggiorista, ma chiede anche leelezioni politiche subito. Istituzionalmente, però, non può funzionare così. Se le dimissioni ci fossero, il collegio dei grandi elettori richiederebbe i suoi tempi per ricostituirsi, e poi per eleggere - con altri tempi imprevedibili - il nuovo Presidente della Repubblica. E anche se il nuovo inquilino del Quirinale decidesse di sciogliere le Camere, il processo appena descritto non sarebbe da "elezioni subito".
I padroni dello spread nel frattempo ci tratterebero da puntaspilli.
Il fondatore del Movimento Cinque Stelle coglie tuttavia il fatto che quella di adesso non è una crisi di governo come le tante altre fin qui conosciute. La crisi politica si salda con la crisi economica e sociale più vasta, e segna un punto di non ritorno per la Seconda Repubblica. «Rien ne va plus», avverte Grillo.

Il blocco raccolto da Napolitano per salvare il ceto politico-affaristico è dunque crollato. Potrebbe ricostruirsi solo snaturando più a fondo i riferimenti costituzionali e i valori delle sue componenti. È un'opera superiore alle forze dell'anziano protettore, ma non a quelle di esponenti più giovani e spregiudicati di quel ceto. Renzi è il punto di convergenza naturale, ma non gli sarà facile fare il Tony Blair di un paese in bancarotta.

Beppe Grillo ora non può ripetere la stessa identica campagna che pure ha portato grandi numeri al M5S. A suo tempo chiese consigli e da qui ne partì uno:
Diventa cruciale, nel brevissimo tempo che rimane da qui alle elezioni, presentare liste migliori di quelle varate con la consultazione infra-partitica delle «parlamentarie». Non c'è tempo per fare una grande selezione di massa. C'è tempo invece per guardarsi intorno fra «rappresentanti di tante liste civiche, movimenti di gente perbene. Ragazzi, professori, esperti» (riuso le parole di Beppe). I Cinquestelle li conoscono già: «I No-Tav, quelli dell'acqua pubblica, dei beni comuni, gli altri referendari.» Scelga Grillo alcune decine di «saggi» indipendenti da presentare in vista delle elezioni in aggiunta al quadro delle liste attuali: alcuni da candidare come parlamentari, altri come possibili ministri, altri come autorevoli garanti. L'esposizione di Grillo sarebbe calibrata e cesserebbe di essere una sovraesposizione. La presenza di parlamentari indipendenti e non trasformisti sarebbe il seme di una nuova democrazia. Diventerebbe il punto di confluenza di una forza popolare in grado di dirigere e riformare profondamente la Repubblica. Troverebbe un'Italia disposta a una reale alternativa. Darebbe una prospettiva a milioni di elettori altrimenti portati ad astenersi.

Grillo scelse diversamente. Il M5S ottenne un risultato impressionante, ma certo non lo proiettava in una dimensione pronta al governo. Ultimamente invece il problema del governo possibile Grillo se lo pone, eccome. Dopo il governo fantasma di Letta, Beppe Grillo può delineare un governo ombra: troverebbe poi la luce alle elezioni.


Salvare l'Italia: dimentichiamo Letta, Renzi e B.



di Giorgio Cattaneo.

La parola d'ordine è una sola: vincere. Così Mussolini dal fatale balcone, tanti anni fa. Oggi che il Duce non c'è più, resta comunque una parola d'ordine - un'altra: sopravvivere - ed è sempre l'indizio di un gioco truccato.
Chi parla per proclami, oggi più di ieri, sta barando: sa benissimo che la verità è lontana anni luce dalle parole. Non solo non si può "vincere", ma non si può più nemmeno sopravvivere. È matematico, pallottoliere alla mano: se non hai più moneta da creare e quindi da spendere, e se ormai è lo straniero a gestire addirittura la tua borsa, le speranze di continuare a galleggiare - lavoro, consumi, servizi - sono ridotte a zero.
La beffa suprema è che la verità seguita e restare fuori dalla porta, oscurata con zelo dai mattatori della disinformazione, oscuri manovali e pallidi eredi del Solista del Balcone. Agli ordini delle grandi lobby che dominano le comparse della democrazia - cartelli elettorali e semi-leader, sindacati e ras industriali complici della finanza - giornali e televisioni parlano di Letta, Napolitano e Berlusconi come di autorità politiche in grado di gestire davvero la crisi italiana, senza mai neppure domandarsi da dove venga, questa maledetta crisi.

La parola tabù, mai pronunciata nei momenti che contano, è sempre la stessa: moneta. Ci è stata sottratta, la moneta, con un gioco di prestigio che aveva in palio un grandioso traguardo civile, l'unità storica del continente che insieme a Galileo, Leonardo e Voltaire seppe partorire lo schiavismo e il colonialismo, le guerre di religione, il nazifascismo, la Shoah e due conflitti mondiali. Risultato: all'inizio degli anni '90 abbiamo applaudito, mentre ci sfilavano di tasca il portafogli. Ancora non lo sapevamo, ma i padroni della Terra avevano già capito che la breve festa del dopoguerra - lo sviluppo, il progresso, il benessere, i diritti - era praticamente finita. Era terminata, la ricreazione, anche nella critica trincea italiana, il paese del "miracolo" che - grazie al debito pubblico dosato in modo strategico - aveva raggiunto risultati straordinari in brevissimo tempo, nonostante la forte corruzione della classe politica, tollerata perché indispensabile a cementare il sistema atlantico in funzione anti-Urss.

Così, sorridemmo sollevati alla caduta del Muro di Berlino, anche perché l'alba della nuova era sembrava sorvegliata dalla presenza rassicurante di un grande della storia come Mikhail Gorbaciov. Appena qualche anno dopo saltarono in aria Falcone e Borsellino, mentre i reggenti della transizione avevano appena ceduto lo scalpo dell'Italia - cioè il nostro - all'assise di Maastricht. Oggi, vent'anni dopo, del panfilo Britannia con a bordo Mario Draghi e gli squali della finanza parassitaria anglosassone parlano liberamente, in seconda serata, Gianluigi Paragone e Loretta Napoleoni, mentre - nel giorno del crac della larghe intese - Lucia Annunziata chiede invano al preoccupato Enrico Mentana che si racconti finalmente tutta la storia degliIlluminati, il grande retroscena dei veri clan onnipotenti, la filiera delle svendite e delle cessioni-fantasma che si snocciola ininterrotta fino ai nostri giorni con le vicende Telecom e Alitalia, infrastrutture nazionali finanziate con glorioso ed efficiente debito pubblico per fare dell'Italia un paese moderno, una delle prime 7 economie mondiali.

Tutto finito, da tempo: non solo perché Slovenia e Croazia non sono più nemiche dell'America, ma anche perché potrebbe diventare atlanticamente inaffidabile persino la docile Italia, così come la Grecia e le altre vittime sacrificali dell'Eurozona, se solo diventasse un po' più amica della Russia, cioè del maggior forziere energetico di tutta la latitudine eurasiatica. Meglio tenerla al guinzaglio, l'Europa, magari premiando l'immancabile kapò tedesco - ovviamente a insaputa dei tedeschi stessi, a cui provvede la relativa disinformacija, quella che racconta loro, mentendo, che il Sud Europa è un continente di irresponsabili scrocconi. Vedono lungo, i signori della Terra: una sfera orbitante che ormai ospita sette miliardi di esseri umani non può più essere il paese della cuccagna per il "miliardo d'oro", anche perché l'impero occidentale declina, i BRICS reclamano la loro parte e all'orizzonte c'è un subcontinente sterminato che si chiama Cina.

Acqua e cibo, clima e terra. I limiti dello sviluppo smentiscono la fiaba della crescita infinita, su cui si basa l'ottuso credo bugiardo di tutti gli addetti alla narrazione ufficiale, quelli che hanno sempre sparso nebbia sulla scienza dell'economia, come fosse un'arte magica per iniziati, incomprensibile e fuori dalla portata dei comuni mortali. Il loro capolavoro: farci credere che il debito dello Stato sia paragonabile a quello di famiglie e aziende - che, a differenza dello Stato, il denaro non possono crearlo dal nulla, ma solo guadagnarlo.
I dominus sono abilissimi nell'arte della prevenzione: hanno annientato le vecchie barricate, smantellato le opposizioni, accecato e comprato gli avversari, plastificato l'immaginario collettivo, desertificato le coscienze pubbliche. Oggi sono in grado di presentare la cosiddetta crisi come un evento ciclico, una calamità naturale inevitabile e rimediabile solo con la sottomissione, la tolleranza illimitata del disagio crescente. Fino all'estrema depravazione italiana: prima il brutale gauleiter Monti, poi le larghe intese fangose tra gli ultimi boss di una sotto-casta di affannati camerieri, tra i quali già si fa largo il sorriso impaziente dell'ultimo erede dinastico, Matteo Renzi.

Mentre il regime del pensiero unico presidia ancora saldamente la comunicazione, è proprio l'urto della crisi economica a spalancare nuovi crateri nel tessuto sociale, seminando innanzitutto paura. Il frangente è feroce e richiede parole adeguate, ferme e inequivocabili: le trova coraggiosamente un uomo soltanto, il Papa di Roma. Verità dolorose, pronunciate in solitudine da Jorge Mario Bergoglio, di fronte all'indecente silenzio di partiti e ministri, politici e sindacalisti. Tutti gli altri, gli attivisti estranei al circuito, i potenziali costruttori dell'alternativa - italiana e necessariamente internazionale, almeno europea - appaiono ancora isolati e dispersi, ognuno concentrato su singoli aspetti della catastrofe incombente: le malefatte delinquenziali del piccolo clan nazionale di potere, la grande tragedia della carenza di energia e materie prime, la relativa geopolitica della guerra, il disastro ambientale dietro l'angolo: secondo l'Onu, entro cent'anni il clima impazzito solleverà i mari fino a sommergere le città rivierasche.

Al centro della scena, naturalmente, resta l'aspetto più pratico e immediato della sciagura, la piaga della disoccupazione che rivela la gravità della cosiddetta crisi economico-finanziaria dell'Occidente: da una parte l'Eurozona, con gli Stati privati della loro moneta e quindi costretti a tosare i cittadini spingendoli in una spirale recessiva senza fine, e dall'altra Londra e Washington, che invece il denaro continuano giustamente a fabbricarlo. Peccato però che quello stesso denaro venga usato dalla finanza per taglieggiare gli sventurati che la sorgente istituzionale del denaro l'hanno perduta. Solo a noi, i paesi dell'Eurozona, si impongono inaudite tangenti su un debito pubblico non più sovrano ma comprato e venduto a tasso di usura, con la piena collaborazione della BCE (quella di Mario Draghi, l'uomo del Britannia) che in virtù del trattato-capestro di Maastricht continua a negare alle nostre repubbliche il legittimo accesso alla moneta, ovvero l'ossigeno necessario a produrre investimenti, lavoro, consumi, benessere.

Di fronte a questo, la prima alternativa imprescindibile, per evitare che la situazione precipiti definitivamente nella disperazione, è quella dellaparola: servono narrazioni oneste, spiegazioni chiare e sincere. Solo oggi emerge appieno il ruolo-chiave delle élite nelle nostre recenti disavventure, in realtà frutto di una oscura e accurata premeditazione almeno trentennale. E il peggio, dice uno storico dell'economia comeGiulio Sapelli, non è neppure lo strapotere occulto dei grandi clan mondiali: il peggio è che persino loro hanno ormai smarrito la bussola, e quindi ci aspettano turbolenze mai viste. Quelle, peraltro, a cui stiamo cominciando regolarmente ad assistere. In condizioni di crescente pericolo, in cui la pace sociale potrebbe rapidamente crollare anche in Italia al livello greco, servirebbe quindi uno sforzo straordinario per unire forze e costruire alleanze attorno a un'intelligenza collettiva democratica, in grado di affrontare l'emergenza nella quale stiamo sprofondando.

Punto primo: pervenire finalmente a una lettura univoca e condivisa della grande crisiche è la somma di più crisi. Da sola, la riconquista di una sovranità politico-monetaria non può risolvere il dramma storico della grande recessione, la fine della crescita occidentale.
Per contro, senza potere di spesa pubblica non è neppure lontanamente pensabile nessun programma nazionale di investimento capace di costruire futuro. Verissimo: senza gli F-35 e la linea Tav Torino-Lione si potrebbero aprire centinaia di migliaia di posti di lavoro. Ma i disoccupati sono milioni. Per il loro futuro, cioè il nostro, serve una riconversione generale dell'economia: lavoro utile e pulito, nei settori chiave dell'energia rinnovabile, dell'edilizia verde, dei servizi alla persona e delle filiere corte. Una riconversione efficace, sostenuta da uno Stato sovrano funzionante e democraticamente governato, con pieno potere di spesa. Tutto si può fare, ma servono soldi: i nostri, quelli che ci hanno sottratto a Maastricht, a tradimento. Ovviamente, in televisione non se ne parlerà neppure stavolta. Ma sarà bene che qualcuno cominci a farlo: qui si tratta di salvare l'Italia, non il destino di Letta, l'avvenire di Renzi o la vecchiaia di Berlusconi.

domenica 29 settembre 2013

Cala il sipario sulla poltiglia chiamata Seconda Repubblica

La crisi di governo si incrocia da subito con una profonda crisi istituzionale. Beppe Grillo sta già chiedendo perfino le dimissioni di Giorgio Napolitano. Quando il Pd e il Pdl rielessero il Peggiorista del Quirinale, parlammo di “vilipendio al popolo italiano”. Ci risultava ben chiaro che Napolitano Due avrebbe dato vita a un governo peggiore di quello – già disastroso – di Rigor Montis (il minor economista della nostra epoca, che Napolitano Uno aveva fatto senatore a vita per poi indirizzarlo a Palazzo Chigi). Peccavamo però di ottimismo. Nemmeno certi governi balneari di Giovanni Leone o di Amintore Fanfani al suo crepuscolo avevano congelato in modo tanto miserabile la funzione di governo quanto il governo di Enrico Letta, ora al capolinea. Perciò la crisi rivela bene quanto siano cadute in basso le cupole delle “larghe intese”. Al minimo di azione di governo (un minimo sotto zero), è corrisposto il massimo di fuga in avanti per stravolgere l’assetto della Repubblica.
Nonostante la paralisi lettiana, gli “strateghi” del Pd e del Pdl, rifugiati sotto le vecchie ali del Peggiorista, pensavano infatti di cambiare metà della Letta e NapolitanoCostituzione, cioè distruggerla, proprio come piace a Jp Morgan. Hanno preso il piede di porco (anzi, un piede di porcellum) e hanno iniziato a scardinare l’articolo 138, cioè la saracinesca che protegge la Carta dalle manomissioni improvvisate. Tra le cose buone della crisi c’è questa: forse il processo di revisione che insidia la Costituzione si interrompe. Magari l’assalto alla saracinesca muore lì, e quei “saggi” che fanno da palo potranno allegramente trovarsi una diversa collocazione per il piede di porco. Qualche suggerimento in proposito glielo possiamo comunque dare, il 12 ottobre. Il Pd ha già messo in fuga due terzi dei suoi iscritti, eppure i suoi dirigenti non se ne curano. Anche se sapevano che il Caimandrillo era vicino a subire inevitabili condanne nei suoi processi, lo hanno abbracciato, con una pulsione conservatrice che si è rivelata una pulsione suicida.
Me lo ricordo bene il Tg3 del 20 aprile 2013, quando Giorgio Napolitano era stato appena rieletto. Si vedeva il Caimandrillo felice. Più che rettile, era erettile. Ma non era l’unico. Enrico Letta parlava con un’insolita spavalderia, e dichiarava che per il Pd era il «momento di ricostruire», mentre commentava sui dissensi con un «faremo pulizia», cioè epurazioni. Letta era ormai il premier in pectore, e pensava di durare, di poter sopportare qualsiasi prezzo. Calcolo infondato. Molti critici insistono dicendo: «Hanno sbagliato tutto». Ma questi non sono soltanto sbagli di calcolo e di prospettiva. Il fatto è che Pd e Pdl sono i prodotti finali della cosiddetta Seconda Repubblica, un composto bipartitico instabile e degenerato, che ammette una competizione per contendere le cariche, ma che in realtà non Berlusconiaffronta mai l’ingombro delinquenziale dei ricatti e degli scambi.
La Seconda Repubblica è nata infatti ammazzando Falcone e Borsellino, e ha vegetato nascondendone con ogni mezzo il perché. Sotto la copertura della trattativa tra lo “Stato profondo” e la mafia, tante altre negoziazioni hanno trasformato le classi dirigenti italiane in un ceto affaristico-politico criminale fra i più avidi e parassitari del pianeta: un sistema senza progetto, se non quello di arraffare, e durare fra le zuffe. Il garante costituzionale di tutta questa poltiglia non può più tenerla insieme. Ci vorrebbe un progetto, ma Napolitano non ha altro progetto che conservarla. Solo che ormai questa poltiglia è polvere da sparo.
C’era un’altra cosa che teneva insieme gli ingredienti dell’ultimo esperimento del dott. Napolitanstein: era la situazione internazionale, cioè quel che i giornaloni italiani trascurano sempre di considerare. Fino alle elezioni tedesche del 22 settembre occorreva un po’ di formaldeide che imbalsamasse l’Italia e lo spread senza far scatenare prima di allora una crisi incontrollabile. E fino a pochi giorni fa la i comandanti atlantici della Portaerei Italia non gradivano scazzi fra i suoi ufficiali perché c’era una guerra da fare subito, quella alla Siria. Prima della guerra del Kossovo, intorno al governo erano riusciti a mettere insieme perfino Cossiga e Cossutta, e prima dell’aggressione alla Libia avevano beneficiato dell’improvviso rientro di quasi tutti i fuoriusciti dalla maggioranza di Berlusconi. Quel minimo di stabilità atlantista serviva anche stavolta, ma poi l’attacco aereo Usa alla Siria ha avuto lo stop che sappiamo. Sono cambiati gli equilibri, dopo che son cambiati i papi, e i Brics. Nella Portaerei Italia si può riprendere a disfare i governi.
Grillo chiede le dimissioni del Peggiorista, ma chiede anche le elezioni politiche subito. Istituzionalmente, però, non può funzionare così. Se le dimissioni ci fossero, il collegio dei grandi elettori richiederebbe i suoi tempi per ricostituirsi, e poi per eleggere – con altri tempi imprevedibili – il nuovo presidente della Repubblica. E anche se il nuovo inquilino del Quirinale decidesse di sciogliere le Camere, il processo appena descritto non sarebbe da “elezioni subito”. I padroni dello spread nel frattempo ci tratterebbero da puntaspilli. Il fondatore del Movimento Cinque Stelle coglie tuttavia il fatto che quella di adesso non è una crisi di governo come le tante altre fin qui conosciute. La crisi politica si salda con la crisi economica e sociale più vasta, e segna un punto di non ritorno per la Seconda Repubblica. «Rien ne Beppe Grillova plus», avverte Grillo.
Il blocco raccolto da Napolitano per salvare il ceto politico-affaristico è dunque crollato. Potrebbe ricostruirsi solo snaturando più a fondo i riferimenti costituzionali e i valori delle sue componenti. È un’opera superiore alle forze dell’anziano protettore, ma non a quelle di esponenti più giovani e spregiudicati di quel ceto. Renzi è il punto di convergenza naturale, ma non gli sarà facile fare il Tony Blair di un paese in bancarotta. Beppe Grillo ora non può ripetere la stessa identica campagna che pure ha portato grandi numeri al M5S. A suo tempo chiese consigli e da qui ne partì uno: «Diventa cruciale, nel brevissimo tempo che rimane da qui alle elezioni, presentare liste migliori di quelle varate con la consultazione infra-partitica delle “parlamentarie”. Non c’è tempo per fare una grande selezione di massa. C’è tempo invece per guardarsi intorno fra “rappresentanti di tante liste civiche, movimenti di gente perbene. Ragazzi, professori, esperti” (riuso le parole di Beppe). I Cinquestelle li conoscono già: “I No-Tav, quelli dell’acqua pubblica, dei beni comuni, gli altri referendari”».
Scelga Grillo alcune decine di “saggi” indipendenti da presentare in vista delle elezioni in aggiunta al quadro delle liste attuali: alcuni da candidare come parlamentari, altri come possibili ministri, altri come autorevoli garanti. L’esposizione di Grillo sarebbe calibrata e cesserebbe di essere una sovraesposizione. La presenza di parlamentari indipendenti e non trasformisti sarebbe il seme di una nuova democrazia. Diventerebbe il punto di confluenza di una forza popolare in grado di dirigere e riformare profondamente la Repubblica. Troverebbe un’Italia disposta a una reale alternativa. Darebbe una prospettiva a milioni di elettori altrimenti portati ad astenersi. Grillo scelse diversamente. Il M5S ottenne un risultato impressionante, ma certo non lo proiettava in una dimensione pronta al governo. Ultimamente invece il problema del governo possibile Grillo se lo pone, eccome. Dopo il governo fantasma di Letta, Beppe Grillo può delineare un governo ombra: troverebbe poi la luce alle elezioni.
(Pino Cabras, “Crisi governo: crolla il capolavoro del Peggiorista. E ora?”, da “Megachip” del 29 settembre 2013).

Scienza, dogmi ed economia: il problema è il metodo



di Francesco Sylos Labini.
 Mi fa piacere sapere che Fabio Scacciavillani trovi il tempo per "assaporare con gusto" i miei commenti. Il confronto delle idee è delle poche attività in cui, scambiandosi qualche cosa, ci si arricchisce entrambi. Scacciavillani ha ragione a sostenere che l'economia non sia una scienza e che anche gli scienziati prendono cantonate, anche se gli argomenti che usa sono ingenui e irrilevanti e mostrano una certa confusione nella comprensione del metodo scientifico. Tuttavia, tra i temi che ha sollevato c'è un punto che vorrei chiarire da subito: l'unico riflesso condizionato che conosco è quello di valutare gli argomenti e di discuterli.
Chiarito questo, non entrerò in un'inutile polemica sulle mie più o meno illustri discendenze, sulla mia carriera e su altre amene presunte attività che scaldano la fantasia del nostro chief economist, ma che sono inutili per i suoi argomenti e soprattutto lesive alla sua intelligenza.
Passiamo ora al primo punto: anche in fisica si prendono cantonate. Vero, anche se la traiettoria della cometa di Halley è stata prevista accuratamente dagli astronomi; lo specchio del telescopio Hubble l'hanno costruito gli ottici e l'errore di realizzazione, da addebitare alla negligenza della ditta costruttrice, la multinazionale Perkin Elmernon c'entra nulla con la scientificità;  la fusione fredda non è stata una "bufala" ma un problema che doveva esser chiarito dopo i primi esperimenti. I risultati ottenuti da Fleischmann e Pons andavano verificati giacché il metodo scientifico si basa sul fatto che gli esperimenti devono essere riproducibili dato che le leggi di natura sono universali, cioè sono le stesse in ogni luogo e tempo. Possiamo fare la stessa affermazione sull'economia? Ovviamente no, e questo è il motivo per cui l'economia non è una scienza esatta.
Scacciavillani concorda su questo punto: anzi rilancia affermando che "nessun economista serio asserisce che l'economia sia una scienza". Prima di assegnare patenti di serietà a destra e a manca, si dovrebbe però ricordare che Milton Friedman sosteneva che l'unica cosa che contava nell'economia era il suo potere predittivo proprio come la fisica. Economista non serio? Possibile. Senza andare troppo lontano, Scacciavillani si potrebbe fare due chiacchiere con il suo collega ed ex compagno di partito, Luigi Zingales, che scrive nel suoManifesto Capitalista: "La storia della fisica nella prima metà del XX secolo è stata una straordinaria avventura intellettuale: dall'intuizione di Einstein del 1905 sull'equivalenza tra massa e energia alla prima reazione nucleare controllata del 1942. Lo sviluppo della finanza nella seconda metà del Novecento ha caratteristiche simili". La finanza come la teoria relatività, la meccanica quantistica e la fisica nucleare! Ma allora neppure Zingales è un serio economista? Di sicuro la finanza ha prodotto catastrofi.
 Molti fisici che studiano i sistemi complessi e applicano questi concetti all'economia, hanno un'opinione piuttosto diversa e il punto non è tanto se l'economia sia o meno una scienza esatta, e non lo è, ma riguarda il fatto che la teoria economica dominante (e non l'economia tout court) è basata su ipotesi talmente forti da essere diventate assunzioni: la razionalità degli agenti economici, la mano invisibile e l'efficienza del mercato, ecc., concetti ritenuti tanto importanti da sostituirsi a qualunque osservazione empirica. E il punto è: sono verificati nella realtà o no? Ad esempio, la deregolamentazione avvenuta negli ultimi venti anni è stata basata sull'argomento che qualsiasi tipo di limite impedisce ai mercati di raggiungere il loro supposto stato di equilibrio perfetto ed efficiente. Secondo molti questi sono semplicemente dei dogmi ai quali è stato fornito un aspetto scientifico: in quest'apparente scientificità si trova l'aspetto più deleterio della veste tecnico-matematica dell'economia.
Da notare che la biologia, che anche non è una scienza esatta, ha fatto progressi enormi negli ultimi anni grazie ad un serrato studio di esperimenti e dati, avanzando in maniera pragmatica e non facendosi guidare da indubitabili assunzioni ideologiche. Dunque, il problema non è nel fatto che si tratta o no di una scienza quanto piuttosto di un problema metodologico.
Tornando alla fusione fredda, una volta assodato che i risultati non erano riproducibili, Fleischmann e Pons, come tutti gli autori di teorie non verificate o esperimenti non riproducibili, sono finiti nel dimenticatoio: né influenzano la ricerca di intere generazioni, né scrivono editoriali per orientare l'opinione pubblica e non sono neppure consulenti di governi, centri studi, ecc. Di contro, ad esempio, Reinhart e Rogoff, dopo una figura imbarazzante sono già stati dimenticati? Il problema in questo caso è che la discussione accademica è viziata da contiguità e ingerenza da parte di poteri politici ed economici: chi ha successo nell'accademia diventa spesso consigliere del principe. Ma che credibilità può avere di fronte all'opinione pubblica chi ha sbagliato in modo così eclatante e coloro hanno preso sul serio questo risultato e lo hanno usato per implementare politiche economiche di intere nazioni?
Scacciavillani mi chiede quante tasse vorrei pagare: la risposta è ovvia perché chiunque vorrebbe pagare il meno possibile. E chi non vorrebbe più efficienza e meno sprechi nella vita pubblica? La ricetta economica della destra è semplice: tagliare la spesa pubblica, abbassare le tasse e privatizzare al massimo i servizi oggi offerti dalwelfare state. Una discussione seria su questi argomenti non può però prescindere dal considerare che lo sviluppo economico non si ottiene  tagliando i diritti dei lavoratori, le tasse e la spesa pubblica, ma investendo in ricerca e innovazione. E, per buona pace del nostro chief economist e dei suoi colleghi e compagni di partito, nella patria del capitalismo è lo Stato che si fa carico di questo investimento.

Fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it

Subito al Voto

Governo, Grillo: “Subito al voto. Colpa dello sfacelo è di Napolitano”

Il leader Cinque Stelle è convinto che andando alle urne il movimento trionferebbe. La parola d'ordine è "no a fregature studiate apposta per metterci fuori gioco". Ma nel partito c'è chi si oppone. Il deputato Luigi Di Maio: "Sfatiamo il mito che serve un governo a tutti i costi per fare la legge elettorale"

Beppe Grillo and Gianroberto Casaleggio
“Subito al voto con il Porcellum. La colpa dello sfacelo? Colpa di Napolitano e ora deve rassegnare le dimissioni”. E’ questa la linea dettata da Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, in continuo contatto con Gianroberto Casaleggio. E ribadiscono il loro no alla riforma dell’attuale legge elettorale “per evitare un super-Porcellum“. In sintesi, “no a fregature studiate apposta per metterci fuori gioco”. “Vedrete, dureranno poco”, ripeteva Grillo ai suoi in questi giorni. Poi la mossa di Berlusconi e i ministri del Pdl che rassegnano in blocco le dimissioni. Ai vertici dei 5 Stelle c’è tuttavia la convinzione che non si tornerà alle urne da qui a breve. “Troveranno il modo per vivacchiare”, si dicono convinti Grillo e Casaleggio, “perché se tornassimo alle urne il M5S trionferebbe e loro non possono permettere che la presidenza del semestre europeo sia affidata ai 5 Stelle”.
La linea dei leader non è però condivisa da tutti all’interno del partito. Per questo, le ultime uscite di Grillo e Casaleggio sembrano una risposta a quanti hanno manifestato dubbi sull’ipotesi di andare al voto con il Porcellum.  ”Sfatiamo il mito che serve un governo a tutti i costi per fare la legge elettorale“, scrive sulla sua pagina Facebook Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera delM5S. “L’unico motivo per cui serve un governo a tutti i costi è per fargli fare i loro porci comodi per altro tempo. La legge elettorale, se solo si volesse (ma è chiaro che non vogliono) si potrebbe… “.
Intanto al Senato lunedì pomeriggio ci sarà la resa dei conti. Secondo indiscrezioni, sarebbero infatti ben 14 i senatori grillini pronti a lasciarsi alle spalle il Movimento e appoggiare un governo di scopo. O ad aprire il dialogo con il Pd, tassativamente vietato dallo Statuto del Movimento. Nella giornata di venerdì, il senatore Luis Alberto Orellana aveva aperto alla possibilità di un Letta bis. “Dovrei pensarci – aveva detto l’esponente M5S – Letta è molto caratterizzato politicamente, ma la priorità è cambiare il Porcellum”. E aveva aggiunto: “Dobbiamo dialogare con il Pd, con Sel, con chi ci vuole stare. Rimanere nell’attesa degli eventi ci riporterà solo alla situazione in cui siamo ora”

Tutto come Previsto

B. apre la crisi: ministri Pdl lasciano. Letta: ‘Gesto folle per coprire i suoi guai’

L'annuncio del vicepremier arriva pochi minuti dopo una nota del Cavaliere: "Aumento dell'Iva è violazione dei patti". Ma la questione centrale è la decadenza dell'ex premier. Letta su Twitter: "Gli italiani non abbocchino a B". Epifani: "Ulteriore azione di sfascio per l’azione del governo". Cicchitto si sfila: "Potevamo discuterne"

B. apre la crisi: ministri Pdl lasciano. Letta: ‘Gesto folle per coprire i suoi guai’

Fine del governo Letta. Berlusconi chiede che i “suoi” ministri si dimettano, Alfano “obbedisce” e a stretto giro conferma che tutti hanno fatto il passo indietro. Il motivo? Per il leader del Pdl tutto è dovuto all’aumento dell’Iva, ma dietro le dichiarazioni c’è ancora la questione della sua decadenza da senatore, a seguito della sentenza della Cassazione che ha confermato la condanna a quattro anni per frode fiscale. Tra gli ultimi tentativi per salvare l’ex premier la proposta di Alfano, che aveva chiesto a Enrico Letta un decreto interpretativo sulla legge Severino. Proposta che non è andata a buon fine.
Ma a smentire l’ex premier interviene con parole durissime lo stesso presidente del Consiglio che invita gli italiani a “non abboccare”. Non solo: “Berlusconi – spiega un comunicato di Palazzo Chigi– per cercare di giustificare il gesto folle e irresponsabile di oggi, tutto finalizzato esclusivamente a coprire le sue vicende personali, tenta di rovesciare la frittata utilizzando l’alibi dell’Iva. La responsabilità dell’aumento dell’Iva invece – prosegue la nota – invece proprio di Berlusconi e della sua decisione di far dimettere i propri parlamentari mercoledì, fatto senza precedenti, che priva il Parlamento e la maggioranza della certezza necessaria per assumere provvedimenti che vanno poi convertiti”.
La rottura tra i ministri Pdl e il governo si consuma dopo una nota di Silvio Berlusconi diramata nel pomeriggio, lo strappo definitivo dopo la richiesta del Cavaliere di ricusare i componenti dellaGiunta che si erano già espressi a suo sfavore sulla decadenza da senatore. L’ex premier chiede ai ministri del Pdl di “valutare l’opportunità di presentare immediatamente le proprie dimissioni per non rendersi complici, e per non rendere complice il Popolo della Libertà, di una ulteriore odiosa vessazione imposta dalla sinistra agli italiani”. Pochi minuti dopo il ministro dell’Interno e vicepremier Angelino Alfano esegue: l’invito è stato accolto. “I ministri del Pdl – ha comunicato la portavoce del segretario Pdl dicendo di parlare a nome di tutta la delegazione del Popolo della Libertà - rassegnano le proprie dimissioni“. Dalla compagine di centrodestra presente nell’esecutivo viene così condivisa la proposta del capogruppo alla Camera Renato Brunetta che aveva chiesto ai colleghi di partito di dimettersi in massa. E viene disatteso anche l’invito di Giorgio Napolitano di garantire continuità e non una “campagna elettorale permanente”. E ora? Tra gli scenari possibili si fa strada l’ipotesi di Letta bis per fare la legge di stabilità e cambiare la legge elettorale.
La nota dei ministri Pdl – Per parte loro, i ministri di centrodestra Angelino Alfano, Nunzia De Girolamo, Beatrice Lorenzin, Maurizio Lupi e Gaetano Quagliariello confermano in una nota congiunta: “Non ci sono condizioni per restare”. Il motivo? Sono le “conclusioni alle quali il consiglio dei ministri di ieri è giunto sui temi della giustizia e del fisco“, proprio come ha scritto il Cavaliere. “La decisione assunta ieri dal Presidente del Consiglio dei ministri Enrico Letta, di congelare l’attività di governo, determinando in questo modo l’aumento dell’Iva - prosegue Berlusconi – è una grave violazione dei patti su cui si fonda questo governo, contraddice il programma presentato alle Camere dallo stesso premier e ci costringerebbe a violare gli impegni presi con i nostri elettori durante la campagna elettorale e al momento in cui votammo la fiducia a questo esecutivo da noi fortemente voluto”. Per l’ex premier, dunque, “per queste ragioni, l’ultimatum lanciato dal premier e dal Partito Democratico agli alleati di governo sulla pelle degli italiani, appare irricevibile e inaccettabile”. 
Letta: “Italiani non abbocchino a Berlusconi” – Ma il presidente del Consiglio Enrico Letta risponde a stretto giro: la colpa dell’aumento dell’imposta è dovuta alle dimissioni del Pdl e chiede un “chiarimento in Parlamento, davanti al Paese“. Concetto che ribadisce su Twitter, dove scrive: “La colpa è della dimissione dei parlamentari che ha provocato la crisi e reso impossibile continuare. Berlusconi rovescia la frittata, gli italiani non abbocchino!”. E non c’è solo il messaggio via Twitter, perché da Palazzo Chigi arrivano parole durissime: “Per questo, ieri si era deciso di andare al chiarimento parlamentare e si era concordemente stabilito di postporre a dopo il voto in Parlamento i provvedimenti economici necessari. Gli italiani – conclude il presidente del Consiglio – sapranno rimandare al mittente una bugia così macroscopica e un simile tentativo di totale stravolgimento della realtà. In Parlamento ognuno si assumerà le proprie responsabilità dinnanzi al Paese”. 
Interviene sul passo indietro dei ministri di centrodestra anche il segretario del Partito democratico Guglielmo Epifani secondo cui le dimissioni “sono una ulteriore azione di sfascio per l’azione del governo” e aprono “formalmente nei fatti una crisi”. Ora, prosegue il leader democratico, “dovremo valutare esattamente le conseguenze di questo. L’irresponsabilità sta salendo a livelli che non erano razionalmente valutabili”.