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martedì 28 gennaio 2014

LA CRISI DELL'EUROZONA E' STATA INDOTTA DALLA POLITICA ECONOMICA TEDESCA, I RIMEDI: UNA PATRIMONIALE SULLE RICCHEZZE PRIVATE DEI CITTADINI.

Ecco perche’ stando nell’Euro, l’impoverimento e’ inevitabile.

Abbiamo parlato tantissime volte della CRISI dell’EURO. C’e’ una correlazione incredibile tra l’andamento di tutte le variabili macroeconomiche, a partire dalla Produzione Industriale, e l’andamento del CLUP (Costo del Lavoro per Unita’ di Prodotto).
In estrema sintesi, coi cambi fissi, vince chi svaluta il COSTO DEL LAVORO.
Vediamo l’andamento di Germania, Italia e Spagna.
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In Germania vi fu un imponente svalutazione del CLUP, in particolare tra il 2004 ed il 2008. E’ in quegli anni che la Germania e’ passata dall’essere il “GRANDE MALATO D’EUROPA” all’essere locomotiva. La Compressione del CLUP avvenne attraverso le riforme Hartz IV, creando un enorme esercito di sottopagati (circa 7 milioni). L’operazione costo’ 3-4 anni di sforamento del Deficit sul parametro del 3%, amplio’ i margini aziendali, e le aziende tedesche simultaneamente ridussero gli investimenti: il tutto si tradusse in una compressione della domanda interna, ed un ampliamento epocale dell’attivo della Bilancia dei Pagamenti, essenzialmente a spese degli altri paesi europei. In pratica fecero una sorta di “Svalutazione Competitiva“.
La Crisi dell’Eurozona fu indotta da una crisi esterna, ma fu fortemente alimentata dalla politica Tedesca degli anni precedenti: l’abbiamo ampiamente spiegato e non ci torneremo su.

La Spagna tra il 2008 ed il 2013 ha reagito alla crisi, e l’ha fatto attuando una politica similare. In 5 anni ha dimezzato il differenziale di CLUP con la Germania. L’operazione e’ stata possibile grazie al fatto che la Spagna ha un Mercato del Lavoro abbastanza flessibile, ed aveva un Debito Pubblico non elevatissimo. In sintesi la Spagna ha espulso dal mercato del Lavoro 3,5 milioni di persone. Cio’ ha consentito di contenere il CLUP. Tale politica (in parte voluta, in parte causata dagli eventi) ha causato una forte compressione della Domanda interna, ed i Conti Pubblici si sono fortemente deteriorati (e lo sono tutt’ora). Qualche minimo segnale di ripresa dell’export lo si e’ intravisto solo di recente, ma la situazione resta drammatica su tutti i fronti dell’economia reale (la disoccupazione e’ al 26%), ma l’inflazione e’ stata imbrigliata, e la bilancia commerciale ha avuto netti miglioramenti.

Ma se, in un SISTEMA A CAMBI FISSI, la CHIAVE per una politica di ripresa e’ LA RIDUZIONE DEL CLUP, come e’ possibile ridurre il Costo del Lavoro per Unita’ di Prodotto?
Ovviamente in un sistema a cambi variabili, basta svalutare. Ma nell’Ipotesi di restare nell’Euro, serve ridurre il divario di CLUP con la Germania (il gap cumulato e’ del 22-23%). Come? Ci sono 3 modi:
A) RIDURRE IL NUMERO DI LAVORATORI sia nel sistema pubblico, che privato (per l’Italia, per colmare il Gap, significa ridurre di 5 milioni il numero di lavoratori, passando da 22,5 a 17,5 milioni)
B) RIDURRE I SALARI sia nel sistema pubblico, che privato (per l’Italia, per colmare il Gap, significa ridurre del 22-23% i salari)
C) RIDURRE DRASTICAMENTE IL CUNEO FISCALE (per l’Italia, per colmare il Gap, significa ridurre gli oneri sulle Imprese per 150-170 miliardi; in sintesi concentrare le riduzioni fiscali e contributive su IRAP, tassazione Utili aziendali, oneri a carico delle Imprese, in primis contributivi)
E’ del tutto evidente, che ciascuna di queste 3 soluzioni e’ semplicemente IMPRATICABILE, per una serie di ragioni; ne citiamo alcune:
- Tutte e 3 le soluzioni implicherebbero (esattamente come accaduto in Germania nei primi anni 2000, ed in Spagna nel 2008-13) un deterioramento dei Conti Pubblici, cosa che una nazione con Debito al 134% non puo’ fare.
- Crollerebbe la Domanda Interna
- L’Economia Reale sprofonderebbe per qualche anno
- Dopo 15 anni di declino economico, una soluzione tra le 3 sopra indicate, che troverebbe effetto dopo 3-5 anni di cura, sarebbe insostenibile politicamente
L’Italia, negli ultimi anni (specie dal 2012) ha ridotto l’occupazione, ed in parte ha contenuto i salari, ma cio’ non ha comunque permesso neanche di iniziare a colmare il GAP competitivo con la Germania.

Avendo l’Italia vincoli di Debito Pubblico, se volesse solamente dimezzare il differenziale di CLUP cumulato con la Germania, dovrebbe fare una MANOVRA in 3-5 anni, con un MIX delle 3 azioni di cui sopra; in sintesi riducendo gli occupati (diciamo di 1 milione di unita’), i salari reali (diciamo di un 3-5%) e con un’azione sul Cuneo Fiscale (per la sola componente a vantaggio delle Imprese) di 30-50 miliardi, dimezzerebbe il differenziale di CLUP. Cio’ implicherebbe una riduzione della Spesa Pubblica consistente, per finanziare sia la riduzione del Cuneo Fiscale, sia gli ammortizzatori per la crescente disoccupazione, nonche’ una RIFORMA DEL MERCATO DEL LAVORO molto consistente.
In sintesi, se l’Italia partisse con tale politica OGGI, nel 2017-18, inizierebbe a vedere degli effetti sulla propria competitivita’ e sulla sostenibilita’ della propria economia reale. Il problema e’ che nel frattempo la disoccupazione sarebbe esplosa ulteriormente, i conti pubblici continuerebbero a deteriorarsi a ritmi consistenti, la Domanda interna e la Ricchezza Nazionale avrebbero un’ulteriore netta flessione.
E’ bene che chi sostiene l’EURO dica queste cose. Quanto sopra s’e’ gia’ visto bene in GRECIA e da noi s’e’ visto solo l’antipasto.
La nostra permanenza dell’EURO dipende da queste misure e non da altre, visto che la Germania continua e continuera’ con una politica di contenimento della propria domanda interna, del proprio Costo del Lavoro e senza nessuna mutualizzazione (Eurobond, Trasferimenti, etc).
A Parte il fatto che nessuno in Italia ha la forza (e forse le idee chiare) per fare la politica sopra decritta, una politica del genere, fatta a valle di 15 anni di impoverimenti (di cui 5 anni di crisi nera) e’ sostanzialmente insostenibile, perlomeno nella misura sopra riportata.
Ecco perche’ l’Italia nei prossimi anni non riuscira’ a colmare il GAP di CLUP con la Germania, se non in minima parte, e cio’ significa inevitabilemente un ulteriore impoverimento del paese, con aggravamento della situazione e di tutti i parametri.
In caso di forte ripresa internazionale, ovviamente, il processo di cui sopra, sarebbe attenuato nella sua drammaticita’, ma comunque prima o poi i NODI VERRANNO AL PETTINE.

A questo punto e’ bene porsi una domanda: CHE FUTURO CI ATTENDE?
La premessa e’ che l’Italia perde da 17 anni ininterrottamente l’1% di PIL pro-capite all’anno sulla media Europea, e quasi il 2% di Produzione Industriale. Abbiamo visto che questa tendenza e’ destinata a proseguire nel medio termine, stante i cambi fissi.
Anche la persona piu’ sprovveduta al mondo, guardando il grafico della “Performance relativa della produzione industriale italiana rispetto a quella tedesca”, potrebbe dire quale sara’ la tendenza nel 2014, 2015, 2016…..
Produzioneind

Se il nostro futuro e’ l’Impoverimento e la deindustrializzazioneCOSA ACCADRA’?
In questo articolo sul Sole 24 Ore, la Bundesbank ci anticipa la soluzione:
Lo Bundesbank, poi, propone che se uno Stato è a rischio default sul proprio debito sovrano non dovrebbe ricorrere ai soldi dei contribuenti europei né guardare alla Bce, quanto piuttosto imporre una patrimoniale sulle ricchezze private dei propri cittadini. La banca centrale tedesca non fa esempi di Paesi, tuttavia, si può presumere che ci si volesse riferire a Grecia, Italia e Spagna, i cui cittadini, secondo i dati diffusi dalla Bce, dispongono di patrimoni privati pro capite superiori a quello dei tedeschi. Una patrimoniale una tantum «risponde al principio della responsabilità nazionale, secondo la quale i contribuenti sono responsabili degli obblighi assunti dai propri Governi prima di poter reclamare solidarietà da altri Paesi», si legge nel Bollettino. Nel contesto dell’attuale crisi finanziaria, si legge ancora, «balza agli occhi come la fiducia nel servizio del debito da parte di alcuni Paesi sia scesa anche se a questo debito pubblico corrispondono patrimonio pubblici e privati molto ampi» e che «in percentuale rispetto al pil sono più elevati di quelli nei Paesi creditori». La proposta, comunque, appare di difficile e rischiosa attuazione, scrive la Bundesbank, aggiungendo che, quindi, dovrebbe essere riservata a situazioni eccezionali, e cioé nel rischio concreto di un default sovrano. Importante sarebbe, soprattutto, chiarire ai mercati che si tratterebbe di un’iniziativa una tantum, destinata a non essere ripetuta nel tempo, perché altrimenti investimenti e capitale lascerebbero subito il Paese in questione.

Chiaro? Dopo averci “cotto” a puntino, sottratto fette di economia produttiva, suggerito politiche di austerity (il tutto col consenso delle nostre inette classi dirigenti), se i conti pubblici saltassero (cosa inevitabile in un costesto di impoverimento progressivo di lungo periodo), bisognerebbe garantire i “Creditori” e fare una bella “Patrimoniale”, che altro non e’ che uno spostamento di ricchezze accumulate dal settore privato Italiano al settore pubblico Italiano, e da questo ai Creditori esteri.
Che tradotto significa: “prima ti tolgo il lavoro, e poi ti tolgo la casa”.
Alzi la mano chi crede che realmente non andra’ cosi’, e se lo fa, ci spieghi il perche’.

By GPG Imperatrice
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giovedì 23 gennaio 2014

F.M.I. IL MERCATO DEL LAVORO TROPPO RIGIDO E COSTOSO, IPOTESI PATRIMONIALE

Fmi, ipotesi patrimoniale per l’Italia

di 
Per l'istituto americano si possono rimodulare esenzioni Iva, spese mediche e interessi sui mutui per 61,2 miliardi. Cioè il 6,4% del Pil.
fondo-monetario-internazionaleIl Fondo monetario internazionale ha dato un altro colpo alla stabilità dell’esecutivo: secondo le sue stime quest’anno l’Italia crescerà soltanto dello 0,6 per cento. Un dato lontano anni luce dall’1 per cento di Pil in più inserito a settembre nell’aggiornamento al Def (qui l’articolo). Ma a Palazzo Chigi, più delle ipotesi dell’organismo di Washington – di stanza nel Belpaese fino all’anno scorso, quando eravamo sotto procedura d’infrazione – lascia interdetti l’ultimo rapporto sulla fiscalità italiana.
Quello presentato 24 ore prima, con il quale si chiede di rivedere gli incentivi, di ritoccare gli estimi catastali, di aumentare le aliquote sui redditi più alti, ventilando l’idea di una patrimoniale.
Tecnicamente quello del Fmi è un “working paper”, un’ipotesi di lavoro. Ma piove su Roma mentre la maggioranza si sta spaccando in Senato sulla delega fiscale.
Così a Palazzo Chigi già s’intravedono le prime pressioni dagli organismi internazionali per riformare un sistema fiscale – la sola pressione sulle imprese è pari al 65,8 per cento dei profitti – oppressivo tanto da colpire i soggetti più dinamici.
MERCATO DEL LAVORO TROPPO RIGIDO E COSTOSO. All’estero il ragionamento che si fa sull’Italia è semplice: il Paese è bloccato da un mercato del lavoro con regole troppo restrittive e un sistema fiscale, che premia le rendite e non avvantaggia chi investe nell’innovazione.
Proprio per questo il team del Fmi guidato da Justin Tyson mette nel mirino soprattutto le detrazioni fiscali. Come evidenziato nel 2010 da una commissione guidata dall’ex sottosegretario Vieri Ceriani sono quegli sconti che ammontano a 160 miliardi di euro e che per i tecnici di Washington, oltre a essere elevati, «creano distorsioni e sono usate per obiettivi politici».
Non a caso nel report si legge: «I passi che potrebbero essere considerati dal governo italiano per migliorare il sistema dovrebbero includere la «revisione regolare e sistematica di tutte le detrazioni, come accade per le normali spese del governo». A ben guardare in questo mare magnum ci sono le detrazioni alle famiglie come i finanziamenti a fondo perduto alle imprese. Per la cronaca, ha calcolato il Fmi, circa 83 miliardi sono le agevolazioni a valere su Irpef, 33 miliardi quelle legate alle aziende mentre per l’Iva si arriva a circa 40 miliardi. Eppure, a differenza di quanto evidenziato dalla commissione Ceriani (per lui si potevano tagliare non più di 6 o 7 miliardi di euro) i tecnici americani dicono che si possono rimodulare esenzioni Iva, spese mediche e interessi sui mutui per 61,2 miliardi. Cioè il 6,4 per cento del Pil.
LE CLAUSOLE DI SCADENZA. L’obiettivo è trasformare questi soldi in benzina per lo sviluppo. Non a caso il Fondo suggerisce al legislatore italiano anche di introdurre «clausole di scadenza» per le detrazioni che vanno a beneficio di gruppi o categorie. Anche perché «ogni estensione delle esistenti detrazioni, o l’introduzione di nuove, dovrebbe essere possibile solo nell’ambito del processo annuale di budget».
Da Washington si guarda anche a un’ulteriore stretta sui redditi da capitale. Anche il leader del Pd Matteo Renzi chiede di alzare l’aliquota oggi intorno al 20 per cento su Bot e azioni per recuperare le risorse necessarie per abbassare il cuneo fisco. Da completare poi anche la riforma degli estimi catastali, anch’essa prevista nella delega fiscale.
PATRIMONIALE PER ABBATTERE IL DEBITO. Farà discutere poi la possibilità di rafforzare la tassazione della ricchezza in Italia. Scrive Tyson nel report: «Ciò potrebbe rafforzare la solidarietà sociale spiegano al Fondo e condividere in modo più equo l’onere di consolidamento fiscale». Difficile credere che a Washington non sappiano che per i prossimi tre anni i titolari di pensioni 14 volte sopra il minimo pagheranno un contributo straordinario del 6 per cento, che sale al 12 per cento per gli assegni 20 volte il minimo, fino ad arrivare a un’aliquota ulteriore del 18 per cento per chi incassa oltre 193mila euro. Allora quello del Fondo monetario finisce per apparire come un invito a introdurre un patrimoniale per abbattere il debito.

http://www.economiaweb.it/fmi-ipotesi-patrimoniale-per-litalia/

LA GERMANIA SI SPACCA SULLA RIFORMA DELLA TASSAZIONE IMMOBILIARE

Imu, la Germania si spacca sul mattone

di 
Comuni, Regioni e Stato litigano su come dividersi il tesoretto. Il mercato immobiliare nel 2013 è cresciuto del 21% a quota 30,8 miliardi.
berlinoNessuno sa bene quanto e quando si dovrà pagare. I proprietari di casa temono il crollo dei prezzi degli immobili, gli inquilini un rincaro degli affitti. Comuni, Regioni e Stato litigano su come dividersi il tesoretto. Se non bastasse, il sistema fiscale ha aliquote di suo già alte e alquanto obsolete. Sembra l’Italia, ma stiamo parlando della Germania, che come il Belpaese si accinge a intervenire sulla tassazione della casa.
I TEDESCHI ARRIVANO CON UN ANNO DI RITARDO.Berlino sta rivivendo con un anno di ritardo quello che ha già vissuto Roma. E identiche tra i due Paesi sono anche le ripercussioni sulla stabilità della grossa coalizione.
Lo psicodramma sta creando non poco imbarazzo in Cdu e Spd. Tutto ha avuto inizio quando i due partiti, nel contratto di coalizione, hanno inserito la riforma della tassazione immobiliare. Anche perché in Germania i cittadini pagano tantissimo, ma gli incassi spesso si perdono in miliardi di rivoli, quanti sono i livelli istituzionali tra i quali si divide il gettito.
OPERAZIONE DI RAZIONALIZZAZIONE. I tedeschi da tempo chiedono un’opera di razionalizzazione. Infatti la normativa è abbastanza farraginosa. A livello locale ogni länder ha una sua tassazione, diversa dal vicino. Ed è abbastanza difficile da calcolare. Il pilastro principale è composto da una tassa fondiaria molto simile alla nostra Imu e che viene computata in base a specifici moltiplicatori. Il principale è la rendita catastale (circa il 60 per cento del valore di mercato dell’immobile), che ogni anno deve essere comunicata da ogni Bundesland. Ma a sua volta questo parametro viene moltiplicato per indici differenti a seconda delle province (in media intorno allo 0,35 per cento) e della città.
TASSE SUL REDDITO DA LOCAZIONE. Accanto alla parte fondiaria – non ci sono tasse patrimoniali sugli immobili – i tedeschi pagano anche un’imposta sul reddito da locazione, ad aliquota marginale. La quale, però, subisce forti deduzioni in base alle spese effettivamente sostenute.
Va da sé che questo sistema mette a dura prova la pazienza dei tedeschi. I quali, anche se la macchina statale funziona, hanno poco da invidiare a italiani e francesi per numero di passaggi burocratici .
PROPRIETARI DI CASE TARTASSATI. Se non bastasse il proprietario tedesco paga, con in media circa 8.600 euro, di tassa fondiaria e di cedolare sugli affitti il doppio di quello che versa un cittadino italiano. Il governo federale vuole aumentare la capacità dei comuni di alzare le aliquote locali (anche qui come in Italia è il balzello sulla casa la principale via di finanziamento della periferia). Poi preme sui Länder per equiparare i regolamenti di applicazione della legge sul territorio nazionale. Anche perché la Corte Costituzionale potrebbe a breve intervenire viste le palesi diseguaglianze tra una zona e l’altra del Paese.
VALORI CATASTALI DA AGGIORNARE. Di per sé l’intento del governo è chiaro: rendere le tasse sulla cassa più eque, aggiornare i valori catastali equiparandoli alle correnti quotazioni immobiliari. Ma gli effetti sono stati opposti: i presidenti dei Länder non vogliono perdere i vantaggi concessi attraverso le loro legislazioni regionali o pezzi di gettito; dal canto loro i Borgomastri temono di scontentare i loro elettori e non amano passare per quelli che aumentano le imposte sulla casa. Tasse che va da sé, potrebbero diminuire i margini dei proprietari e alzare gli affitti degli inquilini.
MERCATO IMMOBILIARE IN RIALZO DEL 21%. Intanto il mercato sta a guardare perché la Germania, insieme con la Gran Bretagna, sta tirando la volata al mercato del real estate europeo. Per Berlino il 2013 è stato un anno d’oro: il settore, soltanto nell’ultimo trimestre dell’anno ha visto salire a quota 11,8 miliardi di euro gli investimenti, portando il volume delle transazioni annuali a un totale di 30,8 miliardi. Cioè in rialzo del 21 per cento sul 2012.

fonte http://www.economiaweb.it/

Draghi: "Chiudere banche Ue deboli"

Draghi: “Con l’esame della Bce le banche deboli dovranno chiudere”

Il presidente dell'Eurotower assicura che il denaro dei contribuenti sarà usato "solo come ultima risorsa". E si dice "cauto su un eccessivo ottimismo" per quanto riguarda la ripresa nell'area euro: "Ancora debole e incostante, nonostante alcuni segnali incoraggianti"

Mario Draghi
“Negli Stati Uniti le banche che hanno chiuso sono state dieci volte di più rispetto all’Europa, dove quelle deboli dovrebbero uscire dal mercato“. E’ quanto ha dichiarato il presidente della BceMario Draghi, al quotidiano svizzero Neue Zuercher, spiegando come questo è quello intorno a cui ruota la valutazione degli istituti in atto. “Stiamo prendendo la cosa molto seriamente”, aggiunge, “nel caso in cui ci fossero debolezze, le metteremmo in luce e prenderemmo le appropriate contromisure”.
Il numero uno dell’Eurotower assicura che il denaro dei contribuenti ”sarà utilizzato solo come ultima risorsa” nel caso di fallimenti delle banche. E rileva che “non si tratta di ottimismo: le nuove regole europee, che non esistevano quando la crisi è scoppiata, prevedono questo tipo di meccanismo. C’è un impegno a livello di ministri delle Finanze e di capi di Stato che prevede il coinvolgimento dei creditori delle banche”. Secondo Draghi i mercati e gli investitori devono infatti “sapere esattamente lo stato delle banche europee: vogliamo la massima trasparenza, dal momento che solo così gli investitori saranno pronti a fornire ulteriori capitali al sistema bancario”.
Quello del presidente della Bce non è il primo allarme sullo stato di salute degli istituti di credito, soprattutto italiani. L’agenzia di rating Standard & Poor’s ha fatto sapere nei giorni scorsi che la ripresa delle banche nostrane è ancora lontana, puntando i riflettori su “utili bassi, modesta capitalizzazione e aumento delle sofferenze”. E proprio le sofferenze bancarie, ovvero i crediti di difficile riscossione, a novembre 2013 – secondo un’analisi del Centro studi di Unimpresa - sono aumentate del 22,7% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, arrivando a sfiorare i 150 miliardi di euro.
Il numero uno dell’Eurotower ha poi affrontato il tema della ripresa dell’Eurozona. Draghi si dice “cauto su un eccessivo ottimismo” e fa sapere che “vediamo alcuni segnali incoraggianti, ma la ripresa nell’area euro è ancora debole e incostante“, sottolineando che i rischi di deflazione per l’Eurozona sono “limitati” e per l’inflazione “le aspettative sono saldamente ancorate nel medio termine agli obiettivi della banca centrale”.
Sul fronte della politica monetaria, infine, il presidente della Bce apre alla possibilità di usare “tassi negativi sui depositi se la situazione dovesse richiederlo”. E sottolinea la disponibilità di risorse per l’Eurotower “il cui uso dipende dallo scenario: ad esempio se i mercati del denaro dovessero fermarsi reagiremmo in maniera completamente diversa che se ci fosse un rallentamento della situazione economica”.

fonte: ilfattoquotidiano.it

lunedì 20 gennaio 2014

Crisi, Goldman Sachs: “L’Italia è il rischio maggiore per l’economia europea”

Crisi, Goldman Sachs: “L’Italia è il rischio maggiore per l’economia europea”

Il capo economista della regina di Wall Street dichiara che la Grecia e la Spagna stanno facendo passi avanti, mentre il nostro Paese "rappresenta i pericoli più grandi". Il maggiore punto debole? "La particolare storia politica"

Crisi, Goldman Sachs: “L’Italia è il rischio maggiore per l’economia europea”
Il maggiore punto debole dell’Italia secondo l’economista sarebbe la “particolare storia politica” del Paese, dove “non si può mai sapere come e quando le compagini governative possano cambiare”. Un’incognita che potrebbe pesare sulla lotta alla crisi, con passi indietro imprevedibili e potenzialmente pericolosi per il futuro dell’euro. “Non sono pessimista sull’Italia”, chiarisce Hatzius, “ma al momento non si può escludere un nuovo scenario di instabilità”. E mentre gli Stati Uniti tornano a crescere grazie soprattutto alle politiche monetarie fortemente espansive della Federal Reserve, l’Europa migliora ma rimane sotto osservazione. Un’analisi condivisa anche dal think tank economico europeo Bruegel, presieduto da Jean-Claude Trichet, ex presidente della Bce. “Molti fattori suggeriscono che il 2014 sarà un anno più accidentato per l’Europa”, ha scritto Nicolas Véron, analista di Bruegel. “L’asset quality review (revisione della qualità dell’attivo) a cui saranno sottoposte le banche europee in vista dell’unione bancaria metterà in luce debolezze inattese in alcune banche e probabilmente richiederà interventi pubblici di ristrutturazione accompagnati da tensioni politiche”.
Le politiche di austerità contribuirebbero inoltre ad aggravare lo scenario, assieme alla chiusura della Bce di fronte alla possibilità di adottare politiche monetarie non convenzionali, come hanno invece già fatto la Federal Reserve e le banche centrali britannica e giapponese. “La crescita europea – continua Véron – potrebbe essere poi frenata dall’incapacità di Italia, Francia e altri Paesi nell’intraprendere riforme strutturali“. Italia dietro la lavagna, quindi, per la lentezza nell’approvare riforme e l’instabilità politica sempre dietro l’angolo. Ma i fattori sono anche altri, meno collegati all’efficienza dell’attuale classe politica e più legati a problemi strutturali del sistema economico e finanziario. A partire dall’enorme debito pubblico, sia dal punto di vista relativo (il 133% del Pil contro il 106% registrato nel 2008) sia in valore assoluto (oltre 2mila miliardi secondo le ultime rilevazioni Eurostat), due grandezze che evidenziano un’instabilità crescente e ampi margini di speculazione, visto che una crescita del debito implica un aumento delle obbligazioni circolanti sul mercato. Inevitabile, quindi, che l’Italia possa essere ancora uno dei principali obiettivi nel caso di eventuali ondate speculative.
A preoccupare gli osservatori internazionali c’è però anche un altro fantasma: quello della deflazione, ovvero del calo generale dei prezzi. A prima vista sembra una buona prospettiva, una sorta di rimedio naturale anticiclico con annessi benefici per i consumatori. Ma la realtà è ben diversa. “Ci sono molti timori che la debolezza della domanda in alcuni Paesi tra cui l’Italia possa determinare un aumento del peso del debito facendo ritardare gli investimenti e i consumi delle famiglie“, rilevava il Financial Timesevidenziando i due aspetti chiave del problema e cioè, in primo luogo, che la deflazione comporta un peso maggiore del debito sul Pil (visto che porta a una diminuzione del Pil nominale, a causa dell’abbassamento dei prezzi) e che, come se non bastasse, la deflazione stessa si manifesta tipicamente come una vera e propria trappola.
A dimostrarlo la celebre esperienza del Giappone che a partire dagli anni ’90 piombò proprio in questa palude ribassista. Il problema, in una situazione del genere, è che la prospettiva di un calo dei prezzi induce chiunque a ridurre i consumi in attesa di ulteriori ribassi (ci si aspetta di poter comprare la stessa cosa a prezzi inferiori in futuro), alimentando una recessione che favorisce a sua volta la stessa deflazione. La classica profezia che si auto-avvera, insomma. A Tokyo e dintorni hanno dovuto farci i conti per vent’anni prima di tentare l’unica soluzione possibile: la creazione artificiale di inflazione. Come? Con un massiccioquantitative easing (creazione di moneta acquistando titoli di stato) da 270 trilioni di yen (cioè 2.600 miliardi di dollari ovvero il 60% del Pil nipponico). Proprio il tipo di strategia a cui la Bce ha dimostrato di essere completamente allergica.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/01/20/crisi-goldman-sachs-litalia-e-il-rischio-maggiore-per-leconomia-europea/850809/

domenica 19 gennaio 2014

POSTE ITALIANE PRIVATIZZA IL 30-40% DEL TITOLO SUL MERCATO

Perché la privatizzazione all’italiana di Poste va elogiata

19 - 01 - 2014Edoardo Narduzzi
Perché la privatizzazione all'italiana di Poste va elogiata
Il commento dell'imprenditore ed editorialista, Edoardo Narduzzi, sul percorso di dismissione di quote del gruppo Poste Italiane delineato dal governo Letta
Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo il commento di Edoardo Narduzzi apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.
I governi inglese e svedese proprio di recente si sono cimentati nelle privatizzazioni postali, mentre negli Usa il Postal Service è ancora tutto pubblico e perde a rotta di collo. I tedeschi, invece, privatizzando bene e per tempo la conglomerata postale hanno incassato tra il 2000 e il 2007 circa 20 miliardi e oggi ben il 21,2% delle azioni è detenuto da investitori americani.
Ora il governo Letta pare si sia deciso a collocare sul mercato tra il 30 e il 40% delle Poste italiane, un conglomerato perfino più diversificato di quello germanico che fattura oltre 24 miliardi e nel quale i servizi tradizionalmente postali contribuiscono solo per il 15%. Si tratta, dunque, di una privatizzazione all’apparenza postale ma nella sostanza conglomerale, perché le attività svolte dal gruppo statale sono molto diversificate. Le assicurazioni, ad esempio, nel primo semestre hanno prodotto il 61% dei ricavi delle Poste, più del doppio dei tradizionali servizi del BancoPosta, servizi ai quali si aggiungono quelli in materia di e-commerce, di logistica, di telecomunicazioni e così via.
Un conglomerato abbastanza originale nel panorama postale internazionale che può candidarsi a sfruttare anche alcune opportunità in materia di digitalizzazione del business: Postel, ad esempio, rinnovata nell’ultimo biennio è ottimamente posizionata per essere leader nel mercato della dematerializzazione dei documenti cartacei; in materia di sicurezza informatica il ruolo di Poste può essere altrettanto importante. Come hanno dimostrato tanti decenni fa i Nobel Modigliani e Miller i gruppi conglomerali non creano ricchezza per gli azionisti che possono sempre replicare in piena autonomia la diversificazione di portafoglio.
Ma nel caso di Poste la quotazione in borsa potrebbe essere un formidabile strumento di sollecitazione al miglioramento della creazione di valore, perché gli azionisti privati diventerebbero i più diretti interessati a far sì che il conto economico dei business più redditizi non sia costretto a sussidiare quello postale tradizionale. Se non c’è più posta fisica da consegnare, 35 mila postini non si giustificano più e la loro riorganizzazione è bene che sia «imposta» nei tempi dagli investitori piuttosto che lasciata alla trattativa tra politica e sindacati (la Cisl rappresenta il 51,5% dei dipendenti).
Il conglomerato postale quotato sarà più veloce nel far crescere i business che rendono e a ristrutturare quelli che perdono. Magari più sensibile a internazionalizzarsi e anche a sfruttare ancora meglio il canale di distribuzione fisico che possiede, capillare, e che ha dimostrato di essere in grado di vendere di tutto con costi contatto ipercompetitivi. Queste reti nel mondo disintermediato di internet valgono moltissimo, occorre solo sapersele far pagare il giusto.
http://www.formiche.net/2014/01/19/perche-la-privatizzazione-allitaliana-poste-va-elogiata/

GLI ANTI-EURO NON SONO CONSIDERATI PIU' DEI PAZZI.

EURO  

Le lievissime contraddizioni della propaganda europeista


Ormai quotidianamente leggiamo o ascoltiamo dibattiti tra europeisti ed anti-europeisti ed inevitabilmente tra pro-Euro ed anti-Euro.
Fate caso ad una cosa: fino a qualche mese fa i pro Euro, sentendosi in una botte di ferro, si limitavano a deridere i “somari” che si dichiaravano favorevoli al ritorno ad una moneta nazionale e nonostante gli anti-Euro portassero a supporto delle proprie tesi dati economici inconfutabili, i pro-Euro avevano facilmente la meglio, soprattutto nei talk show delle grandi Tv. La tecnica del “ho la pubblicità tassativa” oppure del cambio di inquadratura con silenziamento del microfono erano applicate nel 100% dei casi. Il messaggio che passava era più o meno che i “somari” anti-Euro potevano parlare qualche secondo, al massimo novanta (perché siamo in democrazia), ma poi, nel rispetto della propaganda, veniva il momento delle cose serie e andavano zittiti come i bambini.
Oggi la situazione è un po’ diversa e grazie ad esempio ad alcuni autorevoli economisti come Bagnai, Borghi o Rinaldi, che hanno la competenza di spiegare le cose come stanno, con dati economici a supporto, gli anti-Euro non vengono più considerati pazzi nè tantomeno somari, anzi, qualcuno inizia a riconoscere che l’Euro qualche problemino lo ha creato. E allora, visto che non è più possibile semplicemente schernire l’interlocutore di turno come avveniva nel recente passato, si sono inventati il nuovo mantra che recita più o meno così: “Cari Anti-Euro, tornare alla moneta nazionale sarebbe un disastro”…frase da pronunciare rigorosamente con sorrisetto sarcastico. E se si viene incalzati arriva la spiegazione : “…uscire dall’euro sarebbe un disastro perché la nuova moneta perderebbe immediatamente il 30% del suo valore”…facendo intendere che una persona cha attualmente guadagna 2000 euro al mese, con una nuova lira non potrebbe neanche comprare il pane e il latte. Potere della propaganda ! La verità è che ciò che chi guida questo sistema di burocrati persegue è la depauperazione della ricchezza privata degli stati più deboli attraverso un’unione europea che è nata sotto l’egida di una moneta unica criminale, che svantaggia alcune nazioni a favore di altre perchè è stata creata costringendo tutti gli stati a un cambio fisso pur mantenendo politiche fiscali differenti, legislazioni interne differenti, lingue e culture differenti. Una mela ha non ha lo stesso costo a Milano e ad Agrigento, come si può pensare che utilizzare la stessa moneta in 27 paesi non penalizzi qualcuno a vantaggio di qualcun altro ? Dare un’occhiata allo spread dei tassi finanziamento del debito pubblico tra il centro e la periferia prego.
Una cosa importante da notare è come coloro che si dichiarano europeisti convinti, cadano in evidente contraddizione: nel momento in cui affermano che fuori dalla moneta unica la nuova moneta nazionale si svaluterebbe subito tra il 20 e il 30%, ammettono implicitamente che noi, adottando l’euro, abbiamo accettato un cambio sopravvalutato del 30%. Ragionamento troppo semplice per essere corretto ? Niente affatto, meditate.
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Volevo fare presente che personalmente dal 2011 scrivo sulla questione Euro.
Ho analizzato le contestazioni tipiche dell’Eurista medio nel dettaglio: Fact Checking alle argomentazioni PRO-EURO: smontate una per una
Posso testimoniare con tranquillita’ che le argomentazioni di fondo portate avanti da chi supporta l’Euro, nel 100% dei casi sono “fuffa disinformativa”, a tutti i livelli, non solo mainstream.
Rintracciare qualcuno che si pone sulla questione analiticamente o che ha studiato bene la questione ha le stesse probabilita’ di vincere al superenalotto. Le argomentazioni sono generalmente “morali” ed impostate al “terrorismo” ed all’irrisione, e sostanzialmente mai analitiche, storiche e numeriche. Le rarissime volte che ho visto argomentare con “numeri” e “dati” ho visto leggerissimi “fantozziani” svarioni.
Quello che m’ha realmente colpito, e’ che in 3 anni, nessuno degli euristi, ha mai posto in modo serio ed analitico, le questioni che realmente potrebbero creare qualche difficolta’ a chi argomenta contro la valura unica, quali 3 questioni specifiche: 1) la questione dei “Debiti Privati” e della legge da applicare,  2) le “tecnicalities operative” connesse ad un’effettiva uscita dall’euro dell’Italia e degli altri paesi europei  3)… questa non ve la dico….
 Gpg Imperatrice

L’Italia ha perso circa 320 miliardi

Le crisi 2008-13 sono costate all’Italia 320 miliardi di mancato PIL

Abbiamo simultato l’andamento del PIL in assenza della crisi dei Subprimes del 2008-09 e della crisi dell’euro del 2011-13.
L’Italia ha perso circa 320 miliardi l’anno di mancato PIL a causa delle due crisi, pari al 20% del PIL, di cui 180 miliardi  miliardi l’anno di mancato PIL legati alla crisi dei subprimes, e 140 miliardi l’anno per la crisi dell’Euro.
Da notare che negli ultimi 6 anni il PIL nominale e’ sostanzialmente piatto e non accenna piu’ alcuna crescita: cio’ significa che il PIL reale, depurato dall’inflazione, ha perso quasi il 10% dal picco del 2008.
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By GPG Imperatrice

A DAVOS NON SI PARLERA' DELL'ECONOMIA ITALIANA, ORAMAI AGONIZZANTE

World Economic Forum 2014: Davos, Renzi e l’indifferenza dei potenti per l’Italia



Una domanda che vale la pena porsi è perché Renzi non va a Davos, dove ogni anno nella seconda metà di gennaio si radunano i potenti della terra. In fondo, è probabile che tra poco sarà lui a guidare l’Italia ed a far da ponte tra noi e l’élite del denaro. Per rispondere bisogna prenderla alla larga.
A Davos questa settimana non si parlerà dell’asset inflation, il fenomeno che fa gravitare i prezzi delle azioni in borsa e che aumenta il valore monetario dei beni immobili, e di cui tutti sono ormai coscienti. Il motivo? Porta male. La filosofia più popolare è infatti quella dell’oblio: godiamoci questa manna dal cielo, una pioggia di soldi distribuiti dal Quantitative Easing, e poco importa se sono solo carta straccia, per ora rappresentano il metro più importante della ricchezza del villaggio globale.
A Davos non si parlerà neppure del comportamento irrazionale degli investitori, che spingono le quotazioni in borsa di alcune imprese verso vette sempre più alte. Anche questo è un argomento ben noto in finanza tanto che il Financial Times ha messo in serio dubbio la logica che ha portato all’aumento esponenziale – di gran lunga superiore a quello previsto dagli analisti – del valore delle azioni di Twitter, definito semplicemente un sistema di messaggistica in tempo reale. Tutti sanno, ma pochi ne parlano apertamente, che dalle presse americane ed europee i soldi letteralmente volano verso centinaia di migliaia di fortunate imprese senza una motivazione commerciale o finanziaria valida.
Sempre il Financial Times ha criticato la decisione di Google di acquistare per la bellezza di 3,2 miliardi di dollari Nest, una start-up che ha appena compiuto 4 anni specializzata in congegni elettronici per la casa, come ad esempio il termostato controllato dal Wi-Fi. Il fondatore è Tony Fadell, ex Apple e personaggio leggendario a Silicon Valley perché ha contribuito alla creazione dell’iPod. Basta questo per investire una cifra tanto elevata? Quanto fatturato dovrà produrre Nest per giustificare un tale prezzo di vendita? Ecco le domande razionali che il Financial Times presenta al lettore.
A Davos non si parlerà neppure dell’economia italiana, ormai agonizzante nonostante i messaggi rassicuranti della stampa e dei politici nostrani. Non per scaramanzia ma per indifferenza. Neppure un dollaro del fiume di denaro che  dal 2008 scorre verso le imprese straniere come Twitter, Facebook o Nest, è arrivato a casa nostra. Unica eccezione la Moncler, il cui valore di mercato è salito del 44 per cento da quanto è stata quotata in borsa a Milano. Dal 2005 al 2012 gli italiani hanno ricevuto complessivamente da investitori stranieri appena 16 miliardi di dollari mentre i francesi ne hanno attirati 25 e gli inglesi 62. Raccogliamo le briciole.
Ormai è chiaro che per l’economia italiana attrarre i capitali esteri è un’impresa impossibile per una serie di motivi tra cui il sistema fiscale che impone alle imprese una tassazione proibitiva, l’eccesiva burocratizzazione e la lentezza del processo giudiziario e giuridico.  E questo spiega perché dal 2005 al 2010, in media gli investimenti stranieri sono stati pari all’1,4 per cento del PIL contro la media europea del 3,3 per cento.
All’estero nessuno si fida di governi che da una parte cercano di attrarre e dall’altra bloccano l’ingresso del capitale straniero, è successo con la Siemens tedesca e la Doosan coreana che volevano acquistare l’Ansaldo Energia. Stesso discorso vale per laproposta di acquisto francese dell’Alitalia.
Dal 2011 l’Italia ha sempre meno peso in Europa e nel mondo, una verità che a noi italiani non piace affatto ma che giustifica l’indifferenza dei potenti della terra nei nostri confronti. Con il Quantitative Easing all’europea Draghi ha sicuramente salvato l’euro, ma non ha salvato il suo paese natale, al contrario ne ha accelerato il processo di decadenza costringendoci ad accettare una politica di austerità demenziale.
Secondo l’OCSE dal 2008 il costo del lavoro in Italia ha continuato a salire a causa delle tasse. Dal 2000 questo è aumentato del 36,2 per cento contro 11,4 per cento della Germania ed il 25,2 per cento della Spagna. Perché la pressione fiscale è tanto alta? Perché il debito pubblico è fuori controllo e l’austerità invece di diminuirlo lo ha fatto crescere redendo più dura la recessione, ormai siamo al di sopra del 130 per cento, un cane, insomma, che si morde la coda.
Inutile citare altri dati come la disoccupazione giovanile, che si è più che raddoppiata dall’inizio della crisi e che ormai è ai massimi storici post-bellici (40 per cento) mentre quella nazionale è ai massimi degli ultimi trent’anni (12,7). Tanto per capire la gravità di questi valori basta menzionare che negli Stati Uniti, la disoccupazione è  intorno al 7 per cento. Inutile parlare di produttività del lavoro, la nostra è di gran lunga sotto al media europea.
A Davos nessuno crede che Matteo Renzi possa cambiare questo scenario con riforme ad hoc, molti non sanno neppure chi sia, e nessuno pensa che il miracolo economico spagnolo di cui tutti ormai parlanoavverrà anche nel nostro paese. Nei confronti dell’Italia gli stranieri provano un  senso di profonda incertezza politica. Negli ultimi due anni abbiamo avuto tre primi ministri e nonostante Letta dichiari di voler rimanere fino al 2015, Matteo Renzi non fa che lanciare messaggi diametralmente opposti. Ma chi può oltralpe mettere la mano sul fuoco che la leadership di Renzi sarà diversa da quella di Letta o di Monti? Una domanda che Renzi dovrebbe porre ai delegati di Davos, se mai decidesse di andarci.