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giovedì 16 gennaio 2014

Lagarde (Fmi), allarme deflazione.


Lagarde (Fmi), allarme deflazione, rischio disastro per ripresa

Lagarde Fmi  allarme deflazione  rischio disastro per ripresa
20:18 15 GEN 2014

(AGI) - Washington, 15 gen. - Il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale ha messo in guardia contro i rischi di deflazione, che potrebbero rivelarsi "disastrosi" per l'economia globale. "Assistiamo a crescenti rischi di deflazione che potrebbero rivelarsi disastrosi per la ripresa", ha dichiarato Lagarde intervenendo al National Press Club, "la deflazione e' il mostro che deve essere combattuto in modo deciso". Lagarde ha dichiarato che La Federal Reserve deve gestire con cautela la riduzione degli stimoli monetari (il cosiddetto 'tapering'), mentre la Bce deve fare di piu' per sostenere la ripresa dell'Eurozona. Secondo Lagarde, al 'tapering' sono legati rischi di "turbolenze sui mercati finanziari" e "flussi di capitale volatili". Sebbene la riduzione degli acquisti di titoli sia avvenuta in modo "calmo" finora, la banca centrale Usa potrebbe ritrovarsi presto in "acque difficili". E' quindi "cruciale", secondo il numero uno del Fmi, che la Fed "eviti un prematuro ritiro degli stimoli monetari". Quanto all'Eurotower, afferma Lagarde, "potrebbe fare di piu' per sostenere l'economia dell'Eurozona", ad esempio "attraverso prestiti mirati". Il Fondo Monetario Internazionale prevede che l'economia globale si espandera' nel 2014 ma al di sotto del suo potenziale di crescita, calcolato intorno al 4%. (AGI) .

mercoledì 15 gennaio 2014

la crescita della Germania delude

Banca mondiale alza stime Pil globale. Ma la crescita della Germania delude

Il Pil globale crescerà del 3,2% quest'anno per arrivare a +3,5% nel 2016. L'istituto di statistica tedesco fa intanto sapere che l'economia di Berlino è cresciuta l'anno scorso dello 0,4%, contro il precedente +0,7%. L'allarme di Lagarde: "Deflazione potrebbe causare conseguenze disastrose"

Produzione
Mentre tra le economie ad alto reddito, il recupero è più avanzato negli Stati Uniti, con il Pil in espansione da dieci trimestri. L’economia americana, secondo la Banca mondiale, è destinata a crescere del 2,8% quest’anno (da +1,8% nel 2013) per passare poi a +2,9% e +3,0% nel 2015 e nel 2016. Per quanto riguarda la zona euro, invece, dopo due anni di contrazione, si prevede sia dell’1,1% quest’anno e dell’1,4% e 1,5% nel 2015 e nel 2016. “L’area euro è fuori dalla recessione, ma i redditi pro capite sono ancora in calo in molti Paesi”, ha commentato Kaushik Basu, senior vice president e chief economist della Banca mondiale, sottolineando che “è importante evitare lo stallo politico in modo che i germogli verdi non si trasformano in steppe marroni”.
Nel Vecchio Continente, quindi, “l’impulso di crescita dovuto alle esportazioni più forti sarà in parte compensato da una domanda più debole a livello domestico a causa della ristrutturazione del settore bancario in corso, delle condizioni finanziarie internazionali più severe, e del consolidamento di bilancio in corso, o previsto, in diversi Paesi”. Il mix, secondo il dossier, manterrà così una crescita stabile al 3,5% nel 2014, a poco a poco di sollevamento a 3,7% e 3,8% nel 2015 e nel 2016, rispettivamente.
Mentre la Banca mondiale diffonde le stime di crescita per i Paesi europei, però, arrivano notizie negative per la Germania. Il Pil tedesco è cresciuto l’anno scorso dello 0,4%, deludendo gli analisti che si aspettavano un rialzo dello 0,5%, contro il precedente +0,7 per cento. Bisogna tuttavia precisare che i dati diffusi dall’istituto di statistica tedesco sono preliminari poiché non forniscono il dato definitivo del IV trimestre che sarà pubblicato il 14 febbraio.
“Questa crisi aleggia ancora, anche se l’ottimismo è nell’aria”, ha commentato il direttore generale del Fmi,Christine Lagarde. “La mia speranza è che il 2014 si riveli importante” per il passaggio fra “sette anni di debolezza” economica e “sette anni di forza”, ha aggiunto in un intervento a Washington. Ma “mettere alle spalle la crisi richiede uno sforzo sostanziale e sostenuto della politica, il coordinamento e giusto mix delle politiche”. Il numero uno dell’Fmi ha poi lanciato l’allarme prezzi. “Con l’inflazione che viaggia sotto i target di molte banche centrali, aumenta il rischio deflazione che potrebbe causare conseguenze disastroseper la ripresa”, ha spiegato. Mentre la Bce “sta aiutando molto” la ripresa nell’area euro, ma “può fare di più, ad esempio con prestiti mirati che possono aiutare a ridurre la frammentazione finanziaria”.

FALSI MITI SULLA CRISI

Come sfatare i falsi miti sulla crisi, speciale Germania (Ecco come trucca i conti e ci fa fessi mentre i nostri politici si fanno belli stando alle regole) – Parte 1

Quante volte ci hanno ripetuto dai pulpiti televisivi e dalle testate giornalistiche che noi, terroni, piccoli ed olivastri dovremmo andare a scuola di civiltà e progresso dai tedeschi? Quanto ci hanno infarcito le meningi, l’orgoglio e anche qualcos’altro con le tanto acclamatevirtù teutoniche grazie alle quali la crucchia sovrasterebbe il mondo intero: innovazione, rigore, ordine, pulizia, organizzazione e onestà?
Ebbene se non vi basta la notizia dello scorso mese sulle mazzette che la Merkel avrebbe intascato dalla Mercedes preparatevi a tutto il resto che ancora o non sapete, oppure non credete sia possibile, perché sta per arrivare un bastimento di nuovi falsi miti tutti da sfatare. Anzi vi offriamo in frutto già pulito e sbucciato, perché a sfatarli ci ha già pensato il gruppo Economia 5 Stelle.
E se avete ancora paura di incrociare un piddino o un articolista del sole 24 ore, alzate lo sguardo perché adesso avete la criptonite nel pdf (in uscita domani con la seconda parte).
Dettaglio della cover dello speciale dedicato al mito della Germania
La cover dello speciale dedicato al mito della Germania. Scaricalo dalla pagina Facebook di economia 5 stelle

Partiamo dunque alla scoperta dei FALSI MITI SULLA CRISI, SPECIALE GERMANIA. Ecco come trucca i conti e ci fa fessi mentre i nostri politici si fanno belli stando alle regole.

1 – GERMANIA E ITALIA SONO RISPETTIVAMENTE LO STATO PIÙ VIRTUOSO ED IL MENO VIRTUOSO D’EUROPA – FALSO
Germania ed Italia hanno due saldi primari totalmente uniformi. Il saldo primario è il risultato della somma tra la spesa pubblica e i prelievi fiscali. Se il saldo è positivo significa che lo Stato ha tassato più di quan-to abbia speso e se andiamo a vedere i conti l’Italia fa saldo primario attivo dal 1992 salvo in tre anni (anno 2002, pareggio di bilancio; 2009 -0,5%; 2010, -0,6%), ossia l’Italia è tra i Paesi più virtuosi e nell’anno 2013 è risultato il più “virtuoso” in assoluto battendo la Germania (dati Commissione europea aggiornati a giugno).
Invece nel 2003 Francia e Germania sforarono i vincoli europei e l’allora Governo Berlusconi ritenne di non richiedere la procedura di infrazione convinto che Francesi e tedeschi ci avrebbero restituito il favore in caso di bisogno. S’è visto com’è andata a finire. Ciò significa anche che l’Italia ripaga tutti i costi e gli sprechi tassando i suoi cittadini, senza che i costi incidano sul debito, il che dimostra che il debito pubblico aumenta per effetto degli interessi accumulati.
Dobbiamo comunque specificato che il pareggio di bilancio se non addirittura il saldo primario attivo, sono una falsa virtù, in quanto dimostra il fatto che uno Stato priva i propri cittadini della ricchezza che si sono guadagnati con il duro lavoro.

2 – GERMANIA E FRANCIA RISPETTANO I PARAMETRI (NON SFORANO) DEI TRATTATI EUROPEI – FALSO
Abbiamo già visto come nel 2003 Germania e Francia sforarono il famoso vincolo del 3% nel rapporto deficit/PIL imposto dal trattato di Maastrich senza incorrere nella procedura di infrazione
Inoltre la Germania nel 2013 è stata finalmente messa sotto inchiesta per aver sforato per ben oltre i tre anni consecutivi imposti come limi-te massimo dai trattati europei il tetto del 6% di attivo nella bilancia commerciale.
Questo limite prevede che il restante surplus avvenga dopo aver investito nei Paesi più svantaggiati le risorse per la ulteriore produzione. In pratica la Germania avrebbe dovuto far si che aziende tedesche aprissero stabilimenti nel Sud Europa, cosa che non è avvenuta.

3 – LA GERMANIA FINANZIA LA SPESA PUBBLICA ESATTAMENTE COME FA L’ITALIA – FALSO
Mentre l’Italia si finanzia essenzialmente vendendo Titoli di Stato alle aste dei titoli (indebitandosi sui mercati privati), la Germania si finazia stampando moneta da sé, semplicemente perché dispone di due banche nazionali (la KFW che acquista bund alle aste primarie e la Bundesbank sulle aste secondarie) che svolgono la funzione che da noi fu appannaggio della Banca d’Italia, ovvero comprano i bund tedeschi stessi, cosa prevista dai trattati ma che l’Italia non fa.

4 – GERMANIA E FRANCIA PARTECIPANO ALLE ASTE DEI TITOLI DI STATO CON PARI OPPORTUNITÀ DELL’ITALIA – FALSO
Secondo la BCE il valore di uno Stato deve essere giudicato esclusivamente dai mercati cosa che invece per Germania e Francia non avviene. La Germania partecipa alle aste dei Titoli di Stato con due banche nazionali che abbassano il tasso di interesse calmierando i mercati dei titoli. La KFW (posseduta al 80% della Repubblica federale e al 20% dai Lander – altri soggetti pubblici) finanzia direttamente la spesa pubblica senza che le risorse utilizzate per finanzia e quella spesa vengano aggiunte al debito pubblico, così come avviene per la spesa pensionistica.
Inoltre sempre tramite la Bundesbank (banca centrale tedesca) partecipa all’asta secondaria dei titoli; cosa permessa dai trattati ma impossibile per l’Italia che non ha più nessuna banca nazionale (la Banca d’Italia è stata privatizzata nel 1981 e nel 2013 è stata ancor più separata dalle funzioni per la quale era stata creata in modo che in futuro l’Italia non possa più riappropriarsene).
Per di più le banche private italiane hanno tutto l’interesse che gli interessi sui titoli siano elevati, così ci guadagnano. In altre parole la Germania ha un debito occulto enorme.
La Francia fa qualcosa che ha del comico. Dato che lo statuto della BCE consente alla stessa l’acquisto dei titoli di Stato di quei Paesi che godono di un rating di tripla A, la Francia ha pensato bene di dotarsi di una propria società di rating con sede a Martinica, un’isola ex colonia francese, che rilascia appunto la valutazione massima dei titoli francesi.Cioè è come se l’Italia si accordasse con San Marino per fare la stessa cosa.
Quindi la BCE aggira alle proprie regole quando fa Quantitative Easing nei confronti della Francia acquistando appunto titoli con finta tripla A.

5 – LA GERMANIA HA UN DEBITO PUBBLICO BASSISSIMO – FALSO
Il debito tedesco è il più alto in Europa ed il terzo al mondo già da metà del 2011, la Germania ha un debito pubblico di circa il 100% (97,4%) e risulta essere il peggior debitore d’Europa.

6 – SE ANGELA MERKEL FOSSE MESSA A PRESIDENTE DEL CONSIGLIO ITALIANO, NELLE CONDIZIONI ATTUALI DELL’ITALIA, POTREBBE RIPRODURRE IL MODELLO ECONOMICO TEDESCO ANCHE DA NOI – FALSO
Perché l’Italia non è dotata delle leve finanziarie che invece la Germania utilizza ampiamente, quindi la Merkel si troverebbe nella stessa situazione dei nostri politici. Di dover tagliare welfare e spesa pubblica.

7 – LA GERMANIA È LA LOCOMOTIVA D’EUROPA – FALSO
La Germania non funge da traino per i Paesi più svantaggiati della zona euro. Anzi, essa fa una corsa a sé in aperta concorrenza con gli altri Stati del mondo, compresi quelli della zona Euro. Il divario economico tra i Paesi del sud Europa diviene ogni mese sempre più marcato. La moneta unica, i diversi regimi fiscali fra Stati, le differenti economie ed i parametri europei applicati in maniera difforme mettono i Paesi dell’eurozona in aperta concorrenza basata sull’export, visto che i governi non possono finanziare e decidere i propri piani industriali autonomamente.

ARS: Contro la stabilità del governo e il governo di legislatura

Contro la stabilità del governo e il governo di legislatura: una critica alla sentenza della Corte Costituzionale in materia di leggi elettorali

Pubblicato su 14 gennaio 2014
da stefano dandrea 





Le motivazioni della Corte Costituzionale relative alla illegittimirtà costituzionale di alcune disposizioni delle leggi elettorali erano ampiamente prevedibili e previste anche per quanto riguarda la piena legittimità dell’attuale Parlamento.

Da esse deriva un indirizzo che in futuro il Parlamento dovrà seguire se vorrà modificare di nuovo le leggi elettorali. I canoni dettati dalla Corte sono tutti condivisibili salvo uno del tutto non condivisibile. Mi soffermo prima brevemente sui passaggi condivisibili della sentenza.

In primo luogo, il premio di maggioranza è costituzionalmente legittimo soltanto se si prevede “il raggiungimento di una soglia minima di voti di lista“.

Si tratta di precisazione di grande rilevanza, perché, stronca in radice la tesi assurda e contraria, a rigore, alla forma di governo parlamentare, secondo la quale  dalle elezioni deve sempre e comunque venir fuori una maggioranza già pre-confezionata. Tale tesi è assurda, perché tende a svuotare surrettiziamente il carattere parlamentare della forma di governo. Se il governo dovesse essere sempre e comunque espressione di una maggioranza relativa di voti espressa dal corpo elettorale, allora non avremmo più un Parlamento che autonomamente dà la fiducia a un Governo che deve ottenerne il consenso.

Ne deriva un rafforzamento del Parlamento e dei partiti che riacquisteranno (o potranno riconquistare)  una certa autonomia, almeno nel caso in cui la lista di maggioranza relativa non raggiunga il numero minimo di voti che le nuove leggi elettorali dovranno prevedere. Insomma, il sistema resterà “potenzialmente parlamentare”, con riguardo ai casi in cui non scatti il premio di maggioranza e sarà per sempre evitato di eclissare la forma di governo parlamentare mediante semplice (e costituzionalmente illegittima) legge ordinaria che preveda un “distorsivo” premio di maggioranza.

In secondo luogo, dal primo criterio di indirizzo deriva un grande corollario. I partiti, presentatisi alle elezioni con un proprio programma, qualora non scatti il premio di maggioranza, avranno l’onere di trovare una linea comune con altri partiti per elaborare un programma di maggioranza. Formalmente questo programma sarà proposto dal Governo ma è chiaro che la proposta presupporrà un accordo tra i partiti. Finirà o almeno inizialmente si attenuerà lo pseudofanatismo o filisteismo che ha caratterizzato la “seconda repubblica”, ossia  la pseudo-repubblica satellite dell’Unione europea germanocentrica e si tornerà potenzialmente alla libertà e indipendenza politica.

Sebbene il sistema derivato dall’abrogazione delle disposizioni illegittime sia un proporzionale con possibilità di esprimere una preferenza non dissimile da quello che avevamo fino al 1992, non è sancità la costituzionalizzazione del proporzionale. Tuttavia, una volta fissato il principio che la legge elettorale, pur prevedendo un premio di maggioranza, non deve sempre e comunque garantire che dalle elezioni esca l’indicazione popolare di un Governo, ne deriva che eventuali sbarramenti possono avere la funzione di evitare la presenza in Parlamento di gruppi e gruppuscoli non sufficientemente rappresentativi e non adeguatamente organizzati fuori dal Parlamento, non quella di agevolare la indicazione popolare di un governo fin dal momento delle elezioni (a parte il fatto che, già sul piano logico, non esiste alcuna correlazione tra soglia di sbarramento e “elezione” popolare del governo).

Infine, non potrà essere più soppressa la preferenza, essendo ammesse soltanto “liste bloccate corte“. Ciò significherà che riavremo finalmente vere campagne elettorali e magari anche i comizi, istituti fondamentali della democrazia che erano andati scomparendo con l’assurda scelta delle liste interamente bloccate.

Su un punto la Corte Costituzionale merita una censura severa.

Si tratta del luogo in cui, esprimendosi contro il premio di maggioranza senza soglia minima e quindi distorsivo, la Corte afferma: “Le norme censurate, pur perseguendo un obiettivo di rilievo costituzionale, qual è quello della stabilità del governo del Paese e dell’efficienza dei processi decisionali nell’ambito parlamentare dettano una disciplina che non rispetta il vincolo del minor sacrificio possibile degli altri interessi e valori costituzionalmente protetti”, ponendosi in contrasto con specifiche norme costituzionali.

Qual è la disposizione costituzionale che attribuisce rilievo (costituzionale) alla “stabilità del governo“? Se la norma esistesse, sarebbe assurda e inopportuna ma in realtà non esiste. La Costituzione non prevede alcun Governo di legislatura. Tutta la nostra storia, sia anteriore alla Costituzione, sia successiva, è storia di governi brevi. Nove governi durante l’ordinamento provvisorio e la costituente; tre governi nella prima legislatura della Repubblica; sei nella seconda; cinque nella terza e quattro nella quarta; sei nella quinta e cinque nella sesta; tre nella settima e sei nell’ottava; tre nella nona e quattro nella decima. La media di durata dei governi è sempre stata inferiore ad un anno. E vale la pena di segnalare che la Repubblica italiana proseguiva sotto il profilo segnalato una lunga tradizione sorta fin dagli albori dell’unità d’Italia

L’unico governo stabile in Italia è stato quello di Mussolini!

Proprio per il tramite delle nuove leggi elettorali, che promuovevano il bipolarismo con i collegi uninominali o dichiaratamente  maggioritarie, si è voluta diffondere, difendere e realizzare l’ideologia falsa, mistificatoria, mortifera e acostituzionale (se non incostituzionale) del “governo di legislatura”, ferendo gravemente la Repubblica parlamentare. L’ideologia del governo di coalizione in una Costituzione che prevede la forma di governo parlamentare è un disastro logico morale e materiale. Dispiace che in una sentenza che per il resto va molto apprezzata, la Corte Costituzionale abbia difeso questo disvalore costituzionale.

 http://www.riconquistarelasovranita.it/teoria/contro-la-stabilita-del-governo-e-il-governo-di-coalizione-una-critica-alla-sentenza-della-corte-costituzionale-in-materia-di-leggi-elettorali

giovedì 19 dicembre 2013

Telegraph: L’Irlanda si libera delle catene della Troika, ma non è ancora al sicuro.


Nonostante sia spesso indicata come modello di ripresa europea, sappiamo che l’Irlanda è tutt’altro che un esempio per i paesi mediterranei in difficoltà.

Ce lo ricorda anche Evans-Pritchard, in questo articolo che sottolinea i potenziali rischi del ritorno dell’ex “tigre celtica” sul mercato obbligazionario.





L'Irlanda sta per riconquistare la sua sovranità dopo tre anni sotto il controllo della Troika UE-FMI, il primo degli Stati in crisi dell'eurozona a tornare al libero mercato.

L’ormai paralizzata tigre celtica è stata sottoposta a controlli intrusivi dopo che un collasso bancario, nel novembre 2010, l’ha costretta a cercare un prestito di 78 miliardi di € dall’UE e dal Fondo Monetario Internazionale, che l’hanno costretta a tagliare i salari e a infliggere una stretta fiscale del 19% del PIL.


Il paese non si libererà da tutte le sue catene. Gli ispettori continueranno a effettuare controlli due volte l'anno “almeno”, fino al 2031, nell'ambito di un meccanismo di sorveglianza. L’Irlanda subirà imposizioni deflazionistiche vincolanti in accordo al Fiscal Compact europeo.

Additata come “allievo modello” dell’austerità UE, l’Irlanda ha “fatto i compiti a casa” stoicamente, senzaviolente manifestazioni  di piazza o senza derive estremiste in politica, grazie alla stretta collaborazione tra sindacati, imprese e governo nazionale.




Gli esponenti politici europei hanno salutato la ripresa Irlandese come la rivincita della loro strategia di “svalutazione interna”, una politica di taglio ai salari finalizzata al recupero della competitività perduta all’interno dell’unione monetaria. Ciononostante rimane molto dubbio che l’Irlanda sia veramente uscita dal tunnel o che il suo percorso sia replicabile dai paesi mediterranei in crisi di debito.

L’Irlanda ha un settore di export molto competitivo, simile a quello delle cosiddette “tigri asiatiche”. E’ il frutto di una strategia industriale di 20 anni fa, che ha attirato imprese americane di software e farmaceutiche, e ha costruito un settore dei servizi finanziari. Le esportazioni sono pari al 108% del PIL, rispetto al 39% del Portogallo, 32% della Spagna, 30% dell'Italia e 27% della Grecia.

Questa vocazione al commercio rende molto più facile per l'Irlanda uscire dai suoi guai attraverso le esportazioni. Il surplus di partite correnti è del 4% del PIL, anche se quest'anno la scadenza dei brevetti del Viagra e del Lipitor ha tagliato le esportazioni del 17%. .
L'Irlanda non ha una moneta sopravvalutata, al contrario del blocco latino europeo. La sua crisi ha avuto origine da una bolla del credito, causata da una politica monetaria super-allentata commisurata alle esigenze tedesche. La media dei tassi d’interesse reali è stata del – 1% per sette anni, un disastro per un’economia giovane e in rapida crescita.

L’Irlanda è più competitiva rispetto alla Germania, con un mercato del lavoro flessibile e una delle economie europee più dinamiche e aperte. Si piazza al 15° posto nell’indice della Banca Mondiale per la facilità di fare impresa, lo stato dell’eurozona meglio piazzato dopo la Finlandia, rispetto al 30° posto del Portogallo, 44° della Spagna, 73° dell'Italia e 78° della Grecia. Questo le dà un trampolino di lancio unico per la ripresa.


Ma nonostante tutto questo, a 5 anni dallo scoppio della crisi, il disavanzo di bilancio dell'Irlanda è ancora del 7.6% del PIL. Il debito pubblico è salito al 125%.  La crescita è stata solo dello 0.2% nel 2012 e quest'anno poco di più. La produzione industriale è caduta del 7.5% in ottobre rispetto all’anno precedente, un promemoria di quanto la situazione rimanga precaria.

"L’Irlanda non ha alcuna crescita interna, ha il deficit di bilancio più alto d’Europa e livelli estremamente elevati di debito” ha detto Megan Greene, capo economista di Intelligence Maverick e membro del Trinity College di Dublino, "Lo stato è totalmente finanziato fino al 2015, ma alla fine si renderà necessaria una ristrutturazione del debito ".

Brendan Howlin, ministro delle finanze, ha detto che l’Irlanda ha 25 miliardi di euro in cassa, avendo approfittato dei tempi tranquilli per costruire un fondo di emergenza. I rendimenti delle obbligazioni irlandesi a 10 anni sono scesi al 3.46% da un picco del 14% alla fine del 2011, anche se Moody's ancora classifica il debito irlandese come "spazzatura", a causa dei timori che la crescita cronicamente bassa metta in pericolo la traiettoria del debito.

Questo accantonamento di sicurezza ha spinto l'Irlanda verso un’"uscita netta" dal controllo della Troika. Dublino ha rifiutato una linea di credito precauzionale dal fondo di salvataggio dell'UE (ESM), temendo le condizioni rigorose che sarebbero state chieste in cambio e un assalto alla sua aliquota fiscale del 12,5% sulle società. Tale linea di credito avrebbe richiesto un voto di approvazione del parlamento tedesco.

"Chiaramente, ci sono rischi nel tornare da soli sul mercato", ha detto Colin Bermingham, di BNP Paribas. Circa il 55% delle obbligazioni irlandesi sono detenute da stranieri, e ci si attende che solo un terzo di essi le rinnoverà.

Un crollo del valore degli immobili del 57% ha lasciato una vera devastazione. I mutui con ritardi di pagamento di 180 giorni sono il 17% del totale, un record. Il debito delle famiglie è ancora il 200% del loro reddito.

C’è la preoccupazione che lo Stato irlandese possa avere sborsato altri soldi per coprire le perdite delle banche, spingendo il livello del debito in una zona pericolosa. I leader europei si sono tirati indietro dall’impegno, preso durante il vertice del luglio 2012, di usare il MES per ricapitalizzare le banche irlandesi appesantite da titoli tossici, nonostante l'avvertimento del FMI che si tratta di una misura essenziale per garantire la ripresa irlandese.

L’idea era che l'Europa avrebbe dovuto avere particolari attenzioni per l'Irlanda, poiché il paese era stato costretto a farsi carico di più di 60 miliardi di euro di passività di cinque banche irlandesi durante la fase più concitata della crisi nel 2008, al fine di proteggere tutta l'Europa da una reazione a catena. Invece, lo stato irlandese dovrà sostenere da solo l'intero peso.

L'episodio ha lasciato l'amaro in bocca all’Irlanda. Il capo del sindacato David Begg ha detto che le autorità UE hanno "fatto più danni dell'impero britannico in 800 anni". L'ex capo del team FMI, Ashoka Mody, ha poi criticato la strategia della Troika, dicendo che una parte del debito avrebbe dovuto essere cancellata. Egli ha dichiarato che "la totale fiducia nell’austerità non era un assunto ragionevole".

E se il tasso di disoccupazione dell'Irlanda lo scorso anno è sceso dal 14.5% al 12.6%, il calo è principalmente dovuto all’emigrazione di massa. L’anno scorso hanno lasciato l'Irlanda 33.000 persone, per lo più le meglio istruite. Un quarto è andato in Gran Bretagna e il 17% in Australia.

I critici dicono che l’enorme spreco della risorsa lavoro ha eroso il livello delle competenze e abbassato il tasso di crescita potenziale dell'Irlanda per i prossimi due decenni. Se è così, qualsiasi ripresa dovesse arrivare, arriverà nonostante il salvataggio della Troika, non grazie ad esso.

domenica 15 dicembre 2013

I POTERI NEOLIBERISTI DI CONTROLLO DELL'ECONOMIA EUROPEA TENTANO DI CANCELLARE DEFINITIVAMENTE LE CONQUISTE SOCIALI DELLA CLASSE OPERAIA.

Bruxelles produce odio, cresce il rischio di una guerra

UN NUOVO MEDIOEVO SOCIALE 


Ciò che sta accadendo in Italia va letto nel contesto della deflagrazione dell’Unione Europea, provocata dall’aggressione finanzista guidata dalla Banca centrale europea e dal governo tedesco. Da Maastricht in poi, il ceto finanzista globale ha deciso di cancellare inEuropale tracce della forza operaia del passato, lademocrazia, la garanzia salariale, la spesa sociale. In nome del fanatismo liberista ha finito per sradicare le radici del consenso su cui si fondava l’Unione Europea. L’effetto, però, non è solo il dimezzamento del monte salari dei lavoratori europei, la distruzione della scuola e della sanità pubblica, l’abolizione del limite dell’orario di lavoro, la precarizzazione generalizzata. E’ anche laguerra. Era prevedibile, era previsto, ora comincia ad accadere.
La disgregazione finale dell’Unione europea possiamo leggerla sulla carta geografica. Cominciamo da est. L’insurrezione ucraina è prova di come sia mutata la natura d’Europa. Nata come progetto di pace tra tedeschi e francesi, e quindi di pace in tutto il continente, l’Unione è oggi divenuta l’esatto contrario. Gli europeisti ucraini usano l’europeismo come arma puntata contro l’imperialismo russo, e risvegliano fantasmi del nazismo. L’ingresso inEuropaè visto come una promessa diguerra, e la precipitazione del conflitto in Ucraina non potrà che avere conseguenze spaventose per l’Europaintera. Bruxelles reagirà aprendo un confronto con la Russia di Putin, oppure lascerà che la Russia di Putin soffochi una rivolta che è nata nel nome dell’Europa?
Spostiamoci a ovest. Il Parlamento catalano ha indetto il referendum indipendentista per l’autunno del 2014. I franchisti del governo madrileno hanno risposto che il referendum non si farà mai. Nel frattempo, in Francia i sondaggi prevedono che il Front National diverrà partito di maggioranza alle prossimeelezioni. A quel punto il patto franco-tedesco su cui si fonda l’Unione sarà cancellato nella coscienza della maggioranza dei francesi, e la balcanizzazione del continente precipiterà. Questa dinamica mi pare il contesto in cui leggere le convulsioni agoniche della penisola italiana. Il governo Letta Alfano Napolitano, filiale del partito distruttori d’Europa, è in camera di rianimazione. Può durare o crollare poco importa: non è in grado di mantenere nessuna promessa, neppure quelle fatte ai suoi padroni di Francoforte.
Il movimento dei forconi è tracimare del nervosismo sociale. Nel 2011 il movimento anticapitalista tentò di fermare l’aggressione finanzista, ma non ebbe la forza per mettere in moto una sollevazione solidale. La precarizzazione ha sgretolato la solidarietà tra lavoratori, e il movimento si risolse in una protesta che il ceto politico-finanziario, per criminale interesse e per imbecillità conformista, rifiutò perfino di ascoltare. Ma la sollevazione non si ferma, perché ha i caratteri tellurici di una disgregazione della base stessa del consenso sociale. E’ una sollevazione priva di interna coerenza, priva di strategia progressiva. Ci sono dentro elementi di nazionalismo, di razzismo, di egoismo piccolo-proprietario, ma anche elementi di ribellione operaia, didemocraziadiretta e rabbia libertaria. Non è importante la sua confusa coscienza, le contrastanti ideologie e i contrastanti interessi che la mobilitano. Conta il fatto che il suo collante obbiettivo è l’odio contro l’Europa. Questo odio non può che essere portatore di disgrazie.
(Franco “Bifo” Berardi, “I forconi e la deflagrazione dell’Europa”, da “Micromega” del 13 dicembre 2013).
Ciò che sta accadendo in Italia va letto nel contesto della deflagrazione dell’Unione Europea, provocata dall’aggressione finanzista guidata dalla Banca centrale europea e dal governo tedesco. Da Maastricht in poi, il ceto finanzista globale ha deciso di cancellare in Europa le tracce della forza operaia del passato, la democrazia, la garanzia salariale, la spesa sociale. In nome del fanatismo liberista ha finito per sradicare le radici del consenso su cui si fondava l’Unione Europea. L’effetto, però, non è solo il dimezzamento del monte salari dei lavoratori europei, la distruzione della scuola e della sanità pubblica, l’abolizione del limite dell’orario di lavoro, la precarizzazione generalizzata. E’ anche la guerra. Era prevedibile, era previsto, ora comincia ad accadere.
La disgregazione finale dell’Unione europea possiamo leggerla sulla carta geografica. Cominciamo da est. L’insurrezione ucraina è prova di come sia La protesta in piazzamutata la natura d’Europa. Nata come progetto di pace tra tedeschi e francesi, e quindi di pace in tutto il continente, l’Unione è oggi divenuta l’esatto contrario. Gli europeisti ucraini usano l’europeismo come arma puntata contro l’imperialismo russo, e risvegliano fantasmi del nazismo. L’ingresso inEuropa è visto come una promessa di guerra, e la precipitazione del conflitto in Ucraina non potrà che avere conseguenze spaventose per l’Europa intera. Bruxelles reagirà aprendo un confronto con la Russia di Putin, oppure lascerà che la Russia di Putin soffochi una rivolta che è nata nel nome dell’Europa?
Spostiamoci a ovest. Il Parlamento catalano ha indetto il referendum indipendentista per l’autunno del 2014. I franchisti del governo madrileno hanno risposto che il referendum non si farà mai. Nel frattempo, in Francia i sondaggi prevedono che il Front National diverrà partito di maggioranza alle prossime elezioni. A quel punto il patto franco-tedesco su cui si fonda l’Unione sarà cancellato nella coscienza della maggioranza dei francesi, e la balcanizzazione del continente precipiterà. Questa dinamica mi pare il contesto in cui leggere le convulsioni agoniche della penisola italiana. Il governo Letta Alfano Napolitano, filiale del partito distruttori d’Europa, è in camera di rianimazione. Può durare o crollare poco importa: non è in grado Berardidi mantenere nessuna promessa, neppure quelle fatte ai suoi padroni di Francoforte.
Il movimento dei forconi è tracimare del nervosismo sociale. Nel 2011 il movimento anticapitalista tentò di fermare l’aggressione finanzista, ma non ebbe la forza per mettere in moto una sollevazione solidale. La precarizzazione ha sgretolato la solidarietà tra lavoratori, e il movimento si risolse in una protesta che il ceto politico-finanziario, per criminale interesse e per imbecillità conformista, rifiutò perfino di ascoltare. Ma la sollevazione non si ferma, perché ha i caratteri tellurici di una disgregazione della base stessa del consenso sociale. E’ una sollevazione priva di interna coerenza, priva di strategia progressiva. Ci sono dentro elementi di nazionalismo, di razzismo, di egoismo piccolo-proprietario, ma anche elementi di ribellione operaia, di democrazia diretta e rabbia libertaria. Non è importante la sua confusa coscienza, le contrastanti ideologie e i contrastanti interessi che la mobilitano. Conta il fatto che il suo collante obbiettivo è l’odio contro l’Europa. Questo odio non può che essere portatore di disgrazie.
(Franco “Bifo” Berardi, “I forconi e la deflagrazione dell’Europa”, da “Micromega” del 13 dicembre 2013).

L'UNIONE BANCARIA PER EVITARE ULTERIORI CRISI.

Unione Bancaria: la Germania si mette di traverso
Pubblicato il 14 dicembre 2013 da Giuseppe Briganti.

Ormai è risaputa la tendenza della Germania a porre veti su qualsiasi provvedimento che possa favorire una più compiuta integrazione europea. L’ultimo “no” è giunto in occasione della discussione circa l’Unione Bancaria. Il risultato è che la Bce e il paese della Merkel sono ora ai ferri corti, almeno da questo punto di vista.
Ufficialmente, le posizioni prevedono una identità di vedute circa la necessità di procedere con l’Unione Bancaria. Il problema è il “come”. Le richieste della Germania, però, danno l’impressione di essere una scusa per ritardare il più possibile l’adozione di questo importante sistema di supervisione centrale.
Cosa vuole la Bce e cosa chiede la Germania? Mario Draghi, in estrema sintesi, vuole un’Unione Bancaria che si fonda su una sorta di Autorità Garante indipendente, che non faccia capo a nessun paese in particolare, in grado di esercitare i suoi “poteri”, che sono di monitoraggio e parzialmente di controllo, su tutte le banche dell’Unione Europea. La Germania, che in questi giorni sta facendo la voce grossa con Schauble, ministro delle Finanze del Governo Merkel, reputa questa proposta ingiusta. Le riserve riguardano proprio “l’indipendenza”. L’autorità non deve essere un organismo a sé stante, bensì un network di autorità nazionali. Ovviamente, questa seconda ipotesi, rispecchierebbe a pieno gli equilibri di potere europei e perpetrerebbe quello status quo che tanto piace a Berlino. Secondo gli uomini della Merkel, inoltre, sono gli stessi trattati a impedire la realizzazione di un organo indipendente – interpretazione rigettata dalla Bce – e quindi tutto ciò andrebbe a discapito dello spirito dell’Europa.
La verità, però, è che la Germania non vede affatto di buon l’occhio l’idea di Draghi perché permetterebbe agli “Stati canaglia” dell’Ue di ricoprire un ruolo importante nella gestione dell’organismo di supervisione.
Apparentemente, le posizioni sono inconciliabili. I tedeschi hanno già dimostrato in passato di essere un osso duro quando ci sono in gioco gli interessi particolari della Germania. D’altronde, ci sarà un motivo se sono naufragati uno dopo l’altro tutte le proposte di condivisione dei rischi e dei poteri in Europa (vedi eurobond).
Tra i due litiganti, in questo caso, nessuno gode ma, anzi, c’è qualcuno che cerca di fare da paciere. Si tratta diJorg Asmussen, membro dell’Esecutivo della Bce e uomo, si dice, molto vicino a Schauble. Ebbene, il pallino della mediazione a quanto pare passerà presto a lui. Una soluzione, stando alle ultime dichiarazione, c’è già: istituire l’Unione Bancaria sul modello proposto dalla Bce, ma imporre la supervisione non su tutte le banche, ma solo su quelle più grandi, che sono 130. In questo modo, i piccoli istituti di credito tedeschi (vera preoccupazione di Schauble in quanto più deboli) saranno lontani dalle “grinfie” dei Piigs.
Se è vero che la Germania spinge per mantenere la sua leadership, altrove, fuori dalle stanze del potere di Bruxelles e di Berlino, si invoca a gran voce l’introduzione dell’Unione Bancaria. E’ opinione comune, tra i media e gli opinion leader, che si debba procedere in questo senso. In Italia, molto attivo si sta rivelando Il Sole 24 Ore, che la reputa fondamentale al fine di evitare nuove crisi del debito pubblico: “Un sistema di supervisione unico è necessario per contribuire ad evitare che ciò si ripeta in futuro. Una supervisione comune a livello europeo riduce le pressioni nazionali, che negli anni passati hanno permesso l’accumulo di disequilibri nei conti delle banche, magari per proteggere i campioni nazionali”.

L'ECOFIN: REGOLE PRECISE SUL FALLIMENTO DELLE BANCHE

I dieci giorni che cambieranno l’Europa (e la Germania)


Non è il 2014 l’anno in cui capiremo come andrà a finire l’Europa, come dice il nostro premier Letta.
Il nostro destino lo capiremo prima di Natale.


Il countdown è già cominciato con l’Ecofin di ieri, dove era attesa la decisione dei 28 ministri sui due pilastri mancanti dell’Unione Bancaria. I ministri si sono ritrovati a dover dipanare una matassa intricatissima, ossia quale fosse l’autorità deputata a decidere sul fallimento di una banca, e insieme chi dovesse pagare il conto a partire dal ottobre del 2014, quando inizierà la sorveglianza della Bce sui principali istituti di credito europeo.
Dopo la solita maratona notturna, si è deciso di prendersi qualche altro giorno. L’accordo per grandi linee è stato definito, ma bisogna mettere a punto i dettagli, mei quali com’è è noto si annida sempre il diavolo.
Nel caso in ispecie, anche il quadro generale è un po’ confuso. Ancora non è ben chiaro se e come sarà costituità l’autorità sovranazionale di risoluzione, nè come e chi pagherà il conto. I documenti circolati in queste ore lasciano aperte più domande di quante risposte diano. Quindi toccherà attendere per capire meglio.
Rimane il fatto che queste decisioni, assolutamente tecniche, hanno pesanti ripercussioni politiche che impattano in maniera rilevante sul futuro dell’eurozona, innanzitutto, ma di tutta l’Unione europea.
Ciò spiega perché siano aumentate le pressioni sui governi europei affinché la smettano di cincischiare e decidano il da farsi.
E’ stata fissata anche una scadenza: l’accordo dell’Ecofin deve arrivare entro la metà della prossima settimana, prima quindi del vertice fra i capi di stato e di governo, che si incontreranno fra il 19 e il 20 dicembre che dovrebbe asseverare tali decisioni e quindi aprire di fatto l’iter parlamentare, che dovrebbe procedere a tappe forzate fino all’aprile del 2014, quando l’europarlamento chiuderà per elezioni.
Insomma: ora o chissà quando. Per non dire mai più.
Anche perché, e qui ha ragione Letta, è difficile fare previsione sul prossimo europarlamento, che magari verrà fuori dalle urne assai piùù euroscettico di quanto non sia oggi, e quindi assai meno disposto a recepire una roba sistemica come un’Unione bancaria.
Per capire il nostro destino, e più precisamente quello dell’Unione bancaria dal quale dipende quello della buona salute dell’Unione monetaria, basterà quindi aspettare una decina di giorni.
La prima questione, quella di identificare la fisionomia del Risolutore, dicono i beneinformati, vedeva due inediti schieramenti. Da una parte coloro che vorrebbero che tale struttura coincidesse con il gruppone dell’Ecofin, con tanto di diritto di veto, che dovrebbe esser chiamato a decidere sui fallimenti bancari. Qui troviamo la Germania, la Finlandia e la Slovacchia. Dall’altra parte, ossia fra coloro che vorrebbero che il risolutore fosse un’entità sovranazionale, troviamo il resto dei paesi dell’Ue, oltre alla Bce e la Commissione europea, che ha già presentato una proposta di risoluzione in tal senso.
Si può questionare a lungo sul perché la Germania non voglia che sul fallimento della sue banche decida uno “straniero”. Ma è chiaro che se nascerà l’autorità sovranazionale di risoluzione, come è molto probabile che sia, allora la Germaniadovrà incassare un pesante ridimensionamento politico che cambierà, anche a livello di percezione pubblica, il suo ruolo nel lungo processo di costruzione europea. Si capirebbe, vale a dire, che le dispute europee non sono autenticamente fra i singoli stati, come gran parte della pubblicistica contemporanea induce a credere, ma fra le entità sovranazionali (compreso il Fmi) e gli stati nazionali.
Sulla seconda questione, quella del finanziamento del fondo sui salvataggi bancari, bisogna capire se i soldi arriveranno dagli stati, come dice la Bce, o se si potrà attingere ai fondi dell’ESM, come propongono alcuni ministri dell’Ue, almeno fino a quando il fondo unico di risoluzione (Single Resolution Fund), che sarà alimentato dalle stesse banche europee, non avrà sufficiente capienza finanziaria.
Anche qui, la Germania si oppone all’idea di usare l’Esm, adducendo a cagione il fatto che sarebbe un modo indiretto per socializzare le perdite fa tutti gli Stati. Dal punto di vista tedesco è molto più opportuno che siano gli azionisti e gli obbligazionisti a pagare, e anche i depositanti non assicurati (bail-in). Opinione che peraltro è diventata patrimonio della legislazione europea, ma a partire dal 2018. Quindi è probabile che pur di spuntarla su questo punto, elettoralmente assai più sensibile, ottenendo magari l’anticipazione dell’entrata in vigore delle regole del bail-in la Germania ceda sul primo, che però è assai più intrusivo nel perimetro della sovranità finanziaria. Sarebbe una vittoria di Pirro.
Anche qui la decisione finale, se mai arriverà, ci dirà molto sul peso politico reale della Germania.
Molti osservatori in queste settimane hanno messo sull’avviso di un accordo al ribasso che, dicono, minerebbe la fiducia nella reale capacità dell’Ue, e dell’eurozona in particolare, di fare quanto è necessario, per usare un’espressione resa celebra da Draghi, per uscire in maniera strutturale dalla crisi.
E proprio ieri Mario Draghi, parlando a un convegno in Banca d’Italia in memoria di Curzio Giannini, ha insistito sulla necessità di arrivare al più presto all’approvazione dell’Unione bancaria. E guarda il caso, la stessa cosa ha detto la presidente del Fmi Lagarde che, sempre ieri, ha rilasciato un discorso con un outlook sull’eurozona.
Insomma, il grande mondo della finanza si aspetta che i governi europei approvino presto e bene l’Unione bancaria.
L’alternativa, assai rischiosa, non sembra contemplata.
Almeno per i prossimi dieci giorni.

CHI GOVERNA L'EUROZONA: I POLITICI O I GOVERNATORI?

I governatori dell’eurozona battono un colpo

Dunque Mario Draghi ha confermato, nel corso di un dibattito al Parlamento europeo, che “i bond sovrani verranno sottoposti a stress come altri titoli”.






Non era difficile immaginare che sarebbe finita così, ma averne la conferma serve anche a comprendere che la partita che si sta giocando su questa class di asset è la più strategica, per non dire sistemica, dell’intera eurozona.

Non che avessi dubbi. Ne avevo talmente pochi che mi sono portato avanti col lavoro e, qualche post fa, mi sono inerpicato con grande fatica nella ragnatela della regolamentazione bancaria di Basilea II e III, che anche ieri Draghi ha citato come fonte di ispirazione normativa, spiegando che non tocca certo alla Bce decidere come trattare i bond sovrani, ma proprio ai banchieri di Basilea (che per la cronaca è espressione delle Banche centrali). Alludendo con ciò al fatto, già messo in evidenza dal suo collega della Bundesbank Weidmann, che i regolatori di Basilea fossero stati troppo generosi nel giudicare risk free (e quindi non bisognosi di accantonamento nel capitale di vigilanza delle banche) i titoli di stato.

Abbiamo visto che non è così. Le regole di Basilea, di recente ribadite anche dalla Bri, dicono esattamente il contrario: ossia che tutte le classi di titoli, quindi anche quelli sovrani, sono soggetti a una classificazione del rischio. E fissa anche un criterio di ponderazione, legato al rating, in virtù del quale le banche possono sapere esattamente quanto capitale devono mettere da parte ogni tot di titoli di stato.

Quello che i nostri governatori (Weidmann, Draghi) omettono di dire (difficile credere che sia sfuggito a tutti), è che le regole di Basilea III sono state tradotte nella direttiva europea CRD IV (36/2013) sui requisiti della patrimonializzazione bancaria e in un regolamento (575/2013) che entreranno in vigore dal prossimo gennaio. Il regolamento, in particolare, (articolo 114) fissa un rischio zero per i titoli di stato denominati in valuta nazionale da parte di tutti i paesi europei. Quindi non è tanto Basilea ad aver creato il “problema”, ma semmai il mondo politico europeo.

Questo ovviamente i nostri eurogovernatori non lo dicono.

La conseguenza di questa regolamentazione, quindi, è che i titoli italiani, denominati in euro, hanno la stessa classificazione di rischio di quelli tedeschi. Non per scelta dei banchieri, ma dei politici.

Vale la pena fare un ulteriore approfondimento andandosi a leggere il parere proprio su questo regolamento che la Bce depositò presso parlamento e consiglio europeo, citato nel preambolo. Un passaggio in particolare, laddove si sottolinea che “la Bce sostiene fermamente l’obiettivo di affrontare esposizioni al rischio specifiche relative, tra l’altro, a determinati settori, regioni o stati membri per mezzo di atti delegati che affidino alla Commissione la facoltà di imporre requisiti prudenziali più stringenti”.

Quindi non è che i banchieri non ci abbiano provato a dire come la pensavo. Solo che non hanno avuto successo.

Senonché i nostri governatori centrali intendono spezzare una volta per tutte il legame fra stati sovrani e banche residenti. Che poi è uno dei punti qualificanti dell’Unione Bancaria, sempre che si riesca ad approvarla entro aprile come Draghi ha esortato anche ieri l’europarlamento a fare.

E siccome questa certezza non c’è, ecco che intanto scatta il piano B: ossia usare la supervisione bancaria, che di sicuro è l’unico momento sovranazionale già operativo sul quale nessuno può mettere bocca, come grimaldello per scardinare il più possibile questo nesso stati-banche, in nome della prudente regolazione finanziaria e per evitare che la disciplina di mercato faccia più danni. Quindi per il nostro bene.

Il “fantasma” del governo degli eurobanchieri batte un colpo.

La conseguenza di tale prezzatura dei bond sovrani è evidente: detenere titoli dei Piigs sarà costoso per le banche dell’eurozona, mentre i titoli a rating elevato saranno a rischio zero, quindi gratis, proprio per le regole di Basilea hanno fissato. Una scelta che potrebbe amplificare la frammentazione dell’eurozona, anziché ridurla.

Sinceramente ammirato da tanta finezza, ho visto emergere la questione dei bond sovrani nel dibattito esoterico dei banchieri centrali fino a diventare di dominio pubblico, quindi essoterico, in queste ultime ore. Nella mattina in cui si è tenuto il dibattito di Draghi, il Financial Times riportava una pregevole intervista al responsabile della divisione economica della Bce Peter Praet, che spiegava come fosse necessario prevedere una qualche forma di meccanismo capace di arrivare a una “prezzatura” del rischio dei bond sovrani. Magari un fondo dove le banche siano “invitate” a depositare capitale di vigilanza.

Non è tanto lo strumento tecnico che interessa, ma il principio. E il pretesto economico anche.

Il pretesto economico è questo: i nostri governatori, che temono un’ondata deflazionaria nell’eurozona anche se dicono il contrario (ultimo sempre Draghi ieri), hanno il problema di fare arrivare credito alle imprese evitando che finisca come in passato, ossia che le banche facciano carry trade con i soldi della Bce. Per riuscirci devono “costringere” le banche a dare credito all’economia, scoraggiando quindi l’accumulo di bond sovrani. Così potranno anche spezzare il famoso legame fra stati e banche residenti, la qualcosa obbligherà gli stati a dare corso a tutti i necessari consolidamenti fiscali, visto che non potranno più contare sui soldi delle “loro” banche per finanziare i propri deficit.

Il principio è questo: usare il bastone della presunta market discipline (ovvero la minaccia che i mercati punirebbero scelte non coerenti con la loro fame di certezze) e la carota della regolazione (le famose norme di Basilea) per bypassare una precisa norma votata dalle autorità europee. Ossia che tutti i titoli dell’eurozona siano risk free.

Se la logica economica che guida questo ragionamento può essere comprensibile, rimane un dubbio metodologico sul principio.

E anche una domanda: chi governa l’eurozona: i politici o i governatori?
Scritto da Maurizio Sgroi
13/12/2013