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venerdì 31 maggio 2013

I DOLORI DEL GIOVANE LETTA

di Daniele Della Bona
SCRITTO DA REDAZIONE IL . PUBBLICATO IN ATTUALITÀ

Nonostante gli annunci di facciata a favore di politiche per la crescita, contro la disoccupazione e per il rinnovamento di un’Unione Europea che diventi più solidale, il nuovo governo di Enrico Letta ha dichiarato a più riprese di voler continuare sulla strada del “Più Europa” (ossia del più Euro), condannando in questo modo non solo l’Italia a un’altra stagione di lacrime e sangue ma anche se stesso (se posso azzardare una facile previsione) al suicidio politico, visto che promettere cose che sono irrealizzabili all’interno della gabbia dell’Eurozona porterà gli elettori, presto o tardi, ad azzerare il partito che Letta rappresenta (poco male direi).
Come dicevo Letta è stato chiarissimo sull’impronta del suo governo smaccatamente pro Euro (dopo tutto non ci si poteva aspettare niente di diverso da uno che ha scritto un libro nel 1997 dall’eloquente titolo Euro sì, morire per Maastricht, direi che sarà presto accontentato).
Ecco una rassegna delle sue dichiarazioni da neo premier:
29 aprile 2013
«Questo governo agirà come un padre di famiglia, un padre di famiglia non fa debiti» (fonte).
Peccato che lo Stato non sia affatto una famiglia e che il suo debito equivalga al credito dei cittadini, come si vede dal grafico sotto, (ovviamente quando non deve andare a coprire una spesa per interessi esorbitante che favorisce solo le banche come avviene con l’Euro oggi e come è accaduto da dopo il divorzio il divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia, vedi qui).
Ma scusate, la spesa pubblica in deficit se rappresenta lo stipendio di un insegnante, di un medico, se è destinata alla costruzione di una scuola o alla riqualificazione ambientale come può essere dannosa per i cittadini?
saldi settoriali italiani
Ma andiamo avanti:
«Abbiamo accumulato in passato un debito pubblico che grava sulle generazioni presenti e future e che rischia di schiacciare per sempre le prospettive economiche del Paese. Il grande sforzo di risanamento compiuto da Monti e’ stato premessa della crescita» (fonte).
Sulla stessa falsariga di Mario Monti, Letta continua a imputare la causa della crisi all’eccessivo debito pubblico italiano. Una diagnosi smentita non solo dai dati (vedi grafico sotto) ma anche dalla stessa Commissione Europea (vedi qui e qui): il problema per i paesi più colpiti dalla crisi è stato l’indebitamento privato verso l’estero e l’Italia, in misura comunque minore, non fa eccezione, visto che il suo debito pubblico è calato a partire dal 1999 e fino allo scoppio della crisi finanziaria made in USA.
Figura 3.
30 aprile 2013
«Non vogliamo modificare il fiscal compact, rispetteremo gli impegni presi sul deficit, l’Italia continuerà sulla politica di contenimento e di risanamento dei conti, farà i suoi compiti a casa» (fonte).
Il fiscal compact obbligherà lo Stato italiano al pareggio di bilancio, che in conformità al trattato è stato inserito anche nella Costituzione, (nel primo grafico sui saldi settoriali avremo un settore pubblico obbligato a un saldo nullo e quindi il saldo del settore privato sarà positivo solo a patto di avere un surplus nei confronti dell’estero, cosa che ci costringe a una battaglia fratricida verso il basso per tagliare i salari dei lavoratori e diminuire così i costi per le imprese, in modo da rendere più convenienti all’estero i nostri prodotti). Inoltre, agli Stati con un rapporto debito pubblico/Pil superiore al 60% è imposto il rientro entro vent’anni al di sotto di questa soglia, con un ulteriore impoverimento del settore privato dato che il governo dovrà prelevare denaro dalle tasche dei cittadini a colpi di circa 45 miliardi di Euro l’anno per abbassare il proprio debito (in pratica il corrispettivo di due Imu all’anno).
L’impegno sul fronte dei conti pubblici è stato preso anche di fronte a chi conta davvero in Europa:
«L’Italia esce da questa crisi forte di un impegno: quello di continuare sulle politiche di risanamento e mantenimento dei conti pubblici» (fonte).
2 maggio 2013
Ma arriviamo alla vera perla, in senso negativo ovviamente.
«Nell’attuale normativa sul lavoro vi sono alcuni punti che in questa fase recessiva stanno creando problemi come ad esempio le limitazioni sui contratti a termine, che sono necessarie in una fase economica normale, ma che in una fase di straordinaria recessione come quella l’attuale non sono utili, e per questo è necessaria una minore rigidità per questo tipo di contratti» (fonte).
Per chi non avesse capito, un Presidente del Consiglio di “sinistra” (per quelli che ancora ci credono) dice pubblicamente che ci sono troppe limitazioni sui contratti a termine e che c’è bisogno di ancora minore rigidità (ossia maggiore flessibilità/precarietà), cioè sta dicendo agli elettori che dovrebbe rappresentare (mi riferisco ai lavoratori) che devono essere ancora più precari e flessibili e lo fa pubblicamente senza che nessuno dica niente.
Bene, adesso sappiamo cosa ci aspetta sulla strada per gli Stati Uniti d’Europa.

Marijuana può fermare la metastasi del cancro, scoperta dei medici



Il composto derivato dalla nota pianta potrebbe fermare molti tipi di cancro aggressivo evitando che diventino mortali



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Cura del cancro
La cura per il cancro potrebbe arrivare dalla marijuanaIl composto derivato dalla nota pianta potrebbe infatti fermare le metastasi in molti tipi di cancro aggressivo, evitando che diventino mortali. “Ci sono voluti circa 20 anni di ricerca per capirlo, ma siamo molto eccitati” - ha detto Pierre Desprez, uno degli scienziati del California Pacific Medical Center di San Francisco che ha lavorato alla scoperta. “Vogliamo cominciare con le prove il più presto possibile. La scoperta, che ha già superato test di laboratorio e di sperimentazione animale, è in attesa di autorizzazione per gli studi clinici sugli esseri umani.”

Desprez ha trascorso dieci anni a studiare l’ID-1, il gene che provoca la diffusione del cancro. Nel frattempo il collega ricercatore Sean McAllister stava contemporaneamente studiando gli effetti del cannabidiolo (CBD), un composto chimico non tossico che si trova nella pianta della cannabis. Infine, la coppia ha combinato il CBD e le cellule che contengono alti livelli di ID-1. Quello che abbiamo scoperto è che il cannabidiolo potrebbe in sostanza ‘spegnere’ l’ID-1” una proteina che gioca un ruolo chiave nel diffondere il male alle altre cellule. Una grande scoperta compiuta grazie al lavoro sinergico tra gli studiosi che potrebbe rivelarsi preziosa per i malati.
L’ID-1, nei soggetti sani, è attivo solo durante lo sviluppo embrionale. Ma nei malati di tumore al seno, e di molti altri tumori maligni in stato avanzato, si è visto che questo gene a provocare metastasi, favorendo il passaggio della malattia alle cellule sane. Ci sono dozzine di tumori aggressivi che attivano questo gene (alla prostata, al cervello) hanno spiegato i ricercatori, e il cannabidiolo riesce a fermarlo, presentandosi quindi come una cura potenzialmente senza precedenti: ferma il male come la chemioterapia ma, a differenza di quest’ultima, che uccide ogni genere di cellula che incontra, riesce a bloccare solo la cellula maligna. Il cannabidiolo offre la speranza di una cura non tossica per migliaia di pazienti.
“Non abbiamo rilevato alcuna tossicità negli animali su cui abbiamo testato il cannabidiolo, che è già utilizzato per una serie di altri disturbi”. Desprez ha spiegato che hanno “usato le iniezioni nella sperimentazione sugli animali e stanno anche testando le pillole, ma non si potrebbe mai ottenere una quantità sufficiente di cannabidiolo solo dal fumo.” La squadra ha anche iniziato a sintetizzare il composto in laboratorio invece di utilizzare la pianta, con l’intento di renderlo più potente.



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Sangue italiano: per l’euro, ci hanno rubato 600 miliardi

eurosporco
20 mar – In media, fin dal lontano 1992, spariscono dalla circolazione circa 30 miliardi di euro all’anno, necessari a sostenere gli impegni di Maastricht. Sono andati alle banche, straniere e italiane. Una voragine: negli ultimi vent’anni, gli italiani hanno versato 620 miliardi di tassesuperiori all’ammontare della spesa dello Stato. Ovvero: 620 miliardi di “avanzo primario”, il saldo attivo benedetto da tutti gli economisti mainstream e dai loro politici di riferimento, i gestori della crisi e i becchini della catastrofe nazionale che si va spalancando giorno per giorno, davanti ai nostri occhi: paura, disoccupazione, precarietà, aziende che chiudono, licenziamenti, servizi vitali tagliati. L’obiettivo di tanto sadismo? Entrare nei parametri di Maastricht e stare dentro l’Eurozona. Ma, nonostante l’immane sforzo, il debito pubblico non ha fatto che crescere, passando da 958 milioni a 2 miliardi di euro.
La realtà, scrive Pier Paolo Flammini su “Riviera Oggi”, è che tutto questo serve perché «lo scopo del debito pubblico non è di garantire la spesa pubblica, ma di fornire investimenti sicuri». Lo scrive chiaramente, sul “Financial Times”, la Bank of International Settlements, cioè la super-banca delle banche centrali.
Ormai l’obiettivo dello Stato non è più il benessere della comunità nazionale, ma l’impegno a fornire titoli sicuri ai grandi investitori. Nell’Eurozona, aggiunge Flammini, l’Italia è stato il paese più penalizzato dai vincoli di bilancio. Fino al 2007, prima della “grande recessione”, erano stati destinati alla riduzione del debito pubblico 270 miliardi di euro, per portare la percentuale debito-Pil dal 121,8% del 1994 al 103,6% del 2007. In pratica, 20 miliardi di euro all’anno sottratti alla circolazione privata per 13 anni. «Ora, il problema è che la contrazione del debito pubblico in rapporto al Pil, con una moneta straniera quale l’euro, deve essere pagata dai cittadini con tasse e tagli alla spesa».
Oltre ai 270 miliardi della prima, storica emorragia, altri 350 miliardi sono semplicemente stati bruciati per il pagamento degli interessi sul debito. E quando poi le cose sono cambiate a causa del crac finanziario, il castello è saltato.
Mario Monti, Olli Rehn e Angela Merkel, continua Flammini, hanno esibito la stessa identica ricetta per vincere la sfida col debito pubblico: e cioè meno spesa, tasse invariate o aumentate, riduzione di salari e stipendi, esportazioni privilegiate e riduzione dei consumi interni. E’ «la via del Bangladesh», osserva Flammini: «L’evidenza li ha sconfitti, ma non molleranno». Anche perché – permanendo l’euro e i suoi drammatici vincoli – non esiste alternativa. «E non ci sarà neppure per il prossimo governo che li accetterà: il debito pubblico, da saldo contabile, è diventato lo strumento attraverso il quale sottrarre potere a masse di popolazione sottoposte a shock informativi ed economici. Punto».
Nel 1980, nonostante l’inflazione indotta dal prezzo del petrolio (quadruplicato), l’italiano medio risparmiava il 25% del proprio reddito, e così fino al 1991. Gli operai compravano case anche per i figli, le famiglie facevano vacanze di un mese. Oggi, osserva Flammini, con le regole dell’austerità, abbiamo un’inflazione del 3% ma gli stipendi salgono solo dell’1,5%, il mercato immobiliare è fermo, il risparmio è crollato al 6% e le famiglie, in appena dieci anni, hanno aumentato i loro debiti del 140%.
«Quasi tutti ormai intaccano i risparmi di una vita, o sono sul punto di giocarsi i 9.000 miliardi di euro di risparmio privato nazionale, la ricchezza sulla quale sono puntate le fauci delle corporation internazionali che tengono in pugno i finti leader politici italiani», mentre sui media ha tenuto banco anche la retorica sull’Imu, che in fondo pesa appena 4 miliardi di euro.
Nel 1978, aggiunge Flammini, sarebbe stata la Banca Centrale, esclusiva monopolista della moneta, a fissare il tasso di interesse e bloccare l’espansione del deficit negativo, quello per gli interessi. «Ed è quello che dobbiamo chiedere a gran voce, subito: inutile chiederlo alla Bce.
Vogliamo tornare al denaro sudato con il lavoro e garantito dall’ingegno, e non dalla pura speculazione», sapendo che «il tasso naturale di interesse è zero». Chi ci ha guadagnato, dalla inaudita tosatura degli italiani? Quei 620 miliardi “rubati” ai contribuenti sono andati per il 43% all’estero, 250 miliardi finiti in banche straniere. Solo il 3,7% è andato a Bankitalia, mentre il 26,8% ad istituzioni finanziarie italiane, banche e assicurazioni, e infine il 13%, circa 80 miliardi, sono tornati direttamente nella disponibilità di privati cittadini italiani, ovviamente per lo più delle classi medio-alte.
«Siamo abituati ad ascoltare parole come “la corruzione ci costa 60 miliardi”, “l’evasione fiscale ci costa 120 miliardi”. In realtà – protesta Flammini – per quanto disdicevoli e da perseguire legalmente, queste voci (i cui importi sono poi da verificare) rappresentano una partita di giro interna con vinti e vincitori», mentre i 620 miliardi di avanzo di bilancio 1992-2012 sono frutto di una precisa scelta politica: «Sono soldi sottratti veramente ai cittadini e scomparsi dalla circolazione dell’economia vera per garantire la grande finanza». Aver trasformato il debito pubblico da puro dato contabile a cappio reale attorno al collo della società italiana, aggiunge Flammini, è la Flamminipiù grande responsabilità della classe politica dell’ultimo trentennio. «Nessuno, però, sta chiedendo scusa».
Basti leggere quel che Tommaso Padoa Schioppa scriveva sul “Corriere”: occorre «attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere».
E quello sarebbe stato un ministro del centrosinistra? «Ecco perché non vincono mai». Ma il peggio deve ancora venire, grazie agli impegni micidiali sottoscritti dal governo Monti a beneficio di Draghi,«garante del pagamento degli interessi degli italiani».
Col pareggio di bilancio inserito addirittura nella Costituzione, i circa 30 miliardi annui fin qui pagati dagli italiani saliranno a circa 90, per coprire del tutto la spesa per interessi. E con il Fiscal Compact, il salasso salirà ancora, dal 2015, fino a 140 miliardi – sempre per abbattere il debito.
Come farcela? «Con l’Iva al 23%, l’inflazione al 2%, una trentina di miliardi di tagli e altrettanti di dismissioni del patrimonio pubblico. Se poi si è poveri, chi se ne frega». (libreidee)

La profezia di Godley: con l’euro, nazioni ridotte a colonie

Poi non dite che non ci avevano avvisati. L’euroscettico Wynne Godley lo fece, in modo perentorio, a partire dal lontano 1992, al momento del varo del Trattato di Maastricht. Tesi: senza un governo democratico federale, l’Europa affidata solo all’euro e alla Bce è fatta apposta per portare le sue nazioni al collasso economico. Perché, senza un potere di spesa illimitato e “pronta cassa”, alla prima crisi seria si spalancherà l’inferno delle austerità e le economie più deboli cominceranno a soccombere, andando incontro alla catastrofe sociale. Godley non era un profeta, ma semplicemente un economista democratico: «Se un paese o una regione non ha alcun potere di svalutare – scriveva nel ’92 – e se questo paese non è il beneficiario di un sistema di perequazione fiscale, allora un processo di declino cumulativo e terminale sarebbe inevitabile e condurrebbe, alla fine, all’emigrazione come unica alternativa alla povertà e alla fame».
«Moltissime persone, in Europa, si sono rese conto improvvisamente di quanto il Trattato di Maastricht potrebbe interessare direttamente le loro Wynne Godleyvite e quanto poco ne conoscano i contenuti. La loro legittima ansia ha spinto Jacques Delors a fare una dichiarazione secondo la quale il punto di vista della gente comune, in futuro, dovrebbe essere consultato. Avrebbe potuto pensarci prima». Parole che sembrano scritte oggi. E che, invece, hanno richiesto vent’anni per essere diffusamente comprese. «L’idea centrale del Trattato di Maastricht – scrive Godley in un intervento ripreso dal sito “MeMmt” – è che i paesi della Ce dovrebbero muoversi verso l’unione economica e monetaria, con una moneta unica gestita da una banca centrale indipendente. Ma qual è il resto della politica economica da approntare? Poiché il trattato non propone alcuna nuova istituzione eccetto quella di una banca europea, chi sponsorizza tale trattato probabilmente crede che non occorra fare di più». La storia dell’economia che si auto-regola? Non s’è mai visto al mondo. Eppure: pare che proprio questo surreale “punto di vista” abbia effettivamente determinato la modalità con la quale è stato inquadrato il Trattato di Maastricht, prima causa dell’attuale catastrofe economica.
E’ la “vulgata” neoliberista, secondo la quale i governi dovrebbero “lasciar fare al mercato”, senza neppure tentare di fare il loro mestiere, e cioè raggiungere i tradizionali obiettivi di sviluppo di una politica economica, verso la piena occupazione. Tutto quello che si può legittimamente fare, secondo la tragica Europa di Maastricht, è «controllare l’offerta della moneta e il pareggio del bilancio». E per giungere a questa desolante conclusione – la Bce come unica istituzione deputata all’integrazione europea – c’è voluto «un gruppo in gran parte composto da banchieri: il Comitato Delors». Un’Europa sbagliata da cima a fondo, progettata – nella migliore delle ipotesi – da fanatici dementi ed economisti incapaci (nella peggiore: da veri e propri golpisti, ben decisi ad annientare ilpotere contrattuale di interi popoli, rendendoli schiavi dell’oligarchia finanziaria). Godley cita il connazionale Tim Congdon: «Il potere di emettere la propria moneta, attraverso la propria banca centrale, è ciò che principalmenteTim Congdondefinisce l’indipendenza di una nazione». Viceversa: «Se un paese rinuncia o perde questopotere, acquisisce lo status di un ente locale o colonia».
Stati retrocessi al rango di province, o addirittura di semplici colonie: certo non rischiano di subire una svalutazione, «ma non hanno, allo stesso tempo, il potere di finanziare il proprio disavanzo attraverso la creazione di denaro». Comuni e colonie «devono rispettare la regolamentazione imposta da un organo centrale per ottenere altri metodi di finanziamento e non possono cambiare i tassi di interesse». Risultato: totale dipendenza dall’altruipotere, visto che i membri dell’Eurozona hanno completamente perduto qualsiasi sovranità, non disponendo più di nessuno strumento di politica macroeconomica. Ovvero: fin dove è possibile finanziare “buchi”’ Fin dove spingere la tassazione? E così per tutto: tassi di interesse, crescita, livelli di disoccupazione. E poi l’inflazione, strumento-chiave col quale John Maynard Keynes propose di finanziare la guerra contro i nazisti.
«La sovranità – dice Godley – non dovrebbe essere ceduta per la nobile causa dell’integrazione europea, ma per affermare che, se tutte le funzioni precedentemente descritte sono estranee ai singoli governi, queste funzioni devono semplicemente essere assunte da qualche altra autorità». L’incredibile lacuna nel programma di Maastricht, aggiunge l’economista britannico, è che contiene un progetto per l’istituzione e il modus operandi di una banca centrale indipendente, ma non fa il minimo cenno alla necessità di un vero governo centrale europeo, autenticamente democratico e federale. Gli Stati che hanno perso le loro tradizionali prerogative nazionali di governo non trovano il loro equivalente a Bruxelles. Semplicemente, la funzione democratica del governo inEuropa è scomparsa. «La contropartita per la Keynesrinuncia alla sovranità dovrebbe essere che le nazioni componenti dell’Ue si costituiscano in una federazione a cui è affidata la loro sovranità».
Già nel ’92, Godley vedeva la «grave recessione» in arrivo, e avvertiva: «Le responsabilità politiche di questa situazione stanno diventando evidenti». Mani legate, fin da allora, a causa del disastroso assetto comunitario che frena gli investimenti pubblici condannando alla crisianche il sistema privato: «L’interdipendenza delle economie europee è già così grande che nessun singolo paese, con l’eccezione della Germania, si sente in grado di perseguire politiche espansive per proprio conto, perché ogni paese che cercasse di espandersi dovrà presto confrontarsi con i vincoli di un bilancio dei pagamenti». Servirebbe un «rilancio economico coordinato», ma «non esistono né le istituzioni, né un quadro di pensiero concordato che porterebbe a questo risultato». E attenzione: «Se la depressione davvero volgesse al peggio – ad esempio, se il tasso di disoccupazione tornasse al 20-25% degli anni Trenta – gli Stati membri dell’Ue prima o poi eserciteranno il loro diritto sovrano di dichiarare il periodo di transizione verso un’integrazione, un disastro, e ricorreranno allo scambio reciproco di protezione e controlli – una economia di assedio».
In una vera unione economica e monetaria, dove il potere di agire in modo indipendente degli Stati membri è effettivamente abolito, l’unica contromisura risolutiva – espansione economica grazie al rilancio della spesa pubblica – potrebbe essere intrapresa solo da un governo federale europeo: «Senza tale governo, l’unione monetaria impedirebbe un’azione efficace da parte dei singoli paesi e non cercherebbe assolutamente di mettere a posto le cose». Previsioni confermate alla lettera, vent’anni dopo, fino alle estreme conseguenze: l’assenza di un governo democratico centrale, aggiunge Godley, espone le regioni più fragili al peso di improvvise crisi. Solo un regime di solidarietà fiscale, nel quadro di un governo federale europeo, potrebbe fermare il declino di vaste aree, garantendo le necessarie Jacques Delors, uno dei "padri" dell'euro-disastroprotezioni economiche e sociali. «In extremis, una regione che produrrebbe nulla non morirebbe di fame perché sarebbe titolare di pensioni, indennità di disoccupazione e il reddito dei dipendenti pubblici».


Cosa succede se un intero paese subisce una grave battuta d’arresto strutturale? «Finché è uno Stato sovrano, potrebbe svalutare la propria moneta: potrebbe quindi comunque implementare con successo politiche di piena occupazione se i cittadini accettassero il taglio necessario ai loro redditi reali». Con una unione economica e monetaria, invece, «questa strada sarebbe ovviamente sbarrata, e questa prospettiva sarebbe gravissima a meno che ci fosse la possibilità di adottare disposizioni federali di bilancio che abbiano una funzione redistributiva». Così parlava il “profeta” Godley nel 1992: «Quello che trovo assolutamente sconcertante è la posizione di coloro che mirano a una unione economica e monetaria senza la creazione di nuove istituzioni politiche (a parte una nuova banca centrale), e che alzano con orrore le mani quando le parole “federale” o “federalismo” vengono pronunciate».

Gli errori degli economisti 2.0

Nelle ultime settimane è diventato di dominio pubblico che su due argomenti chiave (rapporto tra debito pubblico e crescita e relazione tra produttività e andamento dei salari) i dati usati per giustificare le politiche adottate in Europa erano sbagliati, incompleti o esposti in modo tendenzioso. Ecco perchè sono necessari centri di ricerca, e anche un sistema dell'informazione, realmente indipendenti.

di Vladimiro Giacché, da marx21.it
Il rapporto dell'opinione pubblica e della politica con gli economisti, nel corso di questa lunga crisi, è stato contraddittorio e altalenante.
Per un verso non ha giovato alla buona fama degli economisti il fatto di aver ignorato (salvo pochi lodevoli casi) la gravità della crisi e di non averne inteso le vere cause. Nel 2008 fu la stessa regina d'Inghilterra a porre a un'imbarazzata platea di economisti la fatidica domanda: "perché nessuno si è accorto dell'arrivo di questa crisi?". Le risposte avute non devono essere state troppo convincenti, se nel dicembre dello scorso anno, durante una visita alla Banca d'Inghilterra, è tornata sull'argomento osservando, con un tono che a qualcuno è apparso ironico, che "è davvero difficile prevedere le crisi". D'altra parte, molte delle politiche adottate per contrastare la crisi in Europa – e che in realtà l'hanno aggravata – si sono avvalse di una copertura teorica fornita da economisti e centri studi.

Nelle ultime settimane, però, sono avvenuti alcuni episodi che hanno sollevato in modo esplicito il problema del controllo sulla qualità di questi dati e di queste ricostruzioni teoriche.
Si è infatti scoperto che, almeno su due argomenti chiave, rapporto tra debito pubblico e crescita e relazione tra produttività e andamento dei salari, i dati usati per giustificare le politiche adottate in Europa erano sbagliati, incompleti o esposti in modo tendenzioso. Vediamo.

Caso 1. La "legge del 90%". Possiamo definire così la correlazione tra alto debito e bassa crescita resa famosa da un bestseller economico sulla crisi scritto da Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff: un rapporto debito/pil superiore al 90% - questa la loro tesi - sarebbe indissolubilmente legato a una bassa crescita. Conseguenza pratica: per far ripartire la crescita bisogna abbattere il debito pubblico. Anche se nell'immediato la cosa avesse conseguenze negative sui redditi personali (e quindi sulla domanda interna e per questa via sulla crescita), questo sarebbe comunque benefico nel lungo periodo. Questa "legge" ha circolato molto negli ultimi anni, e ha rappresentato uno dei più citati argomenti in favore delle politiche di austerity. Bene, recentemente due professori della University of Massachusetts, Robert Pollin e Michael Ash, hanno affidato a un loro studente, Thomas Herndon, il compito di rifare i calcoli sulla base dati considerata da Reinhart e Rogoff. I risultati, pubblicati il 15 aprile 2013 in un saggio che ha subito fatto il giro del mondo, sono stati decisamente sorprendenti. Le medie erano sbagliate: a causa dell'esclusione arbitraria di alcuni dati, di un modo non corretto di ponderazione dei dati e – dulcis in fundo – per un errore di codice nel foglio excel adoperato. Rifatti i calcoli, si è scoperto che i paesi con debito superiore al 90% del prodotto interno lordo non vedono un calo del pil, ma una sua crescita media del 2,2%! Reinhart e Rogoff hanno ammesso pubblicamente l'errore. Lo stesso non ha fatto però il commissario europeo Olli Rehn, il quale aveva affermato: "è ampiamente riconosciuto, sulla base di una seria ricerca scientifica, che quando i livelli di debito pubblico salgono oltre il 90% tendono a presentare una dinamica economica negativa, la quale si trasforma in bassa crescita per molti anni".

Caso 2. "Per far crescere la competitività bisogna ridurre i salari". In occasione del Consiglio Europeo del 14 marzo 2013, il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, ha effettuato una presentazione su "Situazione economica dell'eurozona e i fondamenti della crescita". Tra i grafici presentati, alcuni mettono a confronto produttività e crescita dei salari. Risultato: in tutti i paesi in deficit (tra cui l'Italia) i salari sono aumentati molto di più della produttività del lavoro. Ergo, la chiave per risolvere i problemi di competitività in Europa è ridurre i salari. Piccolo problema: la crescita dei salari esposta nei grafici è espressa in termini nominali (cioè senza tener conto dell'inflazione), mentre quella della produttività è espressa in termini reali (cioè tenendo conto dell'inflazione). In questo modo, ovviamente, si sovrastima la crescita dei salari. Ma soprattutto si rappresenta come un mondo ideale quello in cui i salari scendono permanentemente in termini reali: infatti, anche considerando il tasso d'inflazione "regolare" secondo la BCE, quello pari all'1,9%, proiettato su 10 anni diventa un'inflazione pari a circa il 20%. E se configuro i miei grafici senza tenerne conto, una crescita dei salari nominali del 20% in dieci anni sembrerà un inaccettabile frutto dell'esosità dei lavoratori, anziché quello che è veramente: una crescita zero dei salari reali, ossia la semplice conservazione del potere d'acquisto di 10 anni prima. Ciò che è peggio, sembra che questa presentazione di Draghi abbia avuto l'effetto di tacitare Hollande nel Consiglio Europeo di marzo, "dimostrandogli" che il problema in Europa non sono le politiche di austerity e il dumping salariale tedesco, ma – al contrario – il lusso immotivato in cui vivrebbero i lavoratori dei paesi latini. La circostanza è stata notata da Andrew Watt, dell'Institut für Makroökonomie und Konjunkturforschung, secondo il quale la presentazione di Draghi sarebbe illuminante da un solo punto di vista: perché farebbe luce sull'ideologia del suo autore.

Conclusioni. Cosa concludere da tutto questo? La prima considerazione da fare riguarda la necessità, per l'opinione pubblica, di una considerazione critica dei dati che le vengono proposti. A questo scopo è necessaria l'opera di centri di ricerca, e anche di un sistema dell'informazione, realmente indipendenti.

"Indipendenza" significa non soltanto indipendenza dal potere politico, ma anche dal potere economico e finanziario. Sembra evidente che, nei nostri paesi sia precisamente questa la condizione difficile da assolvere. Questo vale, spesso e volentieri, anche per le università, che sempre più di frequente sono costrette dai vincoli di bilancio ad accettare generose sponsorizzazioni private, quando non a istituire cattedre finanziate dal big business e a produrre ricerche finalizzate a premere su governi e parlamenti per ottenere una legislazione più favorevole ai committenti.

Ma l'indipendenza più importante, in fondo, è ancora un'altra. È quella nei confronti dei dogmi del "pensiero unico" neoliberista che si è affermato dagli anni Novanta in poi. È precisamente l'obbedienza nei confronti di quei dogmi che può indurre ad accettare come plausibili ricostruzioni non sufficientemente fondate, o a forzarne le conclusioni per restare in linea con l'ortodossia.
È uno schema che abbiamo già visto in opera in passato, nei paesi dell'Est europeo. Non è andata a finire bene.

(29 maggio 2013)

Don Gallo, prete degli ultimi

È morto don Andrea Gallo, amico e collaboratore di MicroMega. Da molti anni, a Genova, chiunque si trovava in una situazione di difficoltà o marginalità - italiano o straniero, tossicodipendente, alcolista, prostituta, transessuale, ex detenuto, eccetera - sapeva che poteva contare su di lui. Con la sua comunità di San Benedetto al Porto ha incarnato il sogno di una "Chiesa povera fra i poveri". Lo ricordiamo con l'intervista uscita nel recente volumedi MicroMega dedicato a "La Chiesa gerarchica e la Chiesa di Dio".

Gesù, gli ultimi e il Concilio tradito

Intervista a don Andrea Gallo di Luca Kocci, da MicroMega n. 7/2012

Prete di strada, parroco dei centri sociali, l’immancabile prete-comunista: si sprecano le definizioni utilizzate dai media per descrivere don Andrea Gallo, il sacerdote genovese della Comunità di San Benedetto al Porto, amico di un altro genovese doc, Fabrizio De André, per il quale ha pronunciato l’orazione funebre durante il funerale. Spesso, però, ne manca una: prete del Concilio. E don Gallo ci tiene a ricordarlo: «Io sono un prete del Concilio. Quando Roncalli viene eletto papa, nel 1958, ero diacono; poi il 25 gennaio 1959, papa Giovanni annuncia di voler convocare un Concilio ecumenico per la Chiesa universale e pochi mesi dopo, il primo luglio, vengo ordinato prete. Quindi nasco prete con il Concilio».

Prete giovanissimo, perché don Gallo, che è nato a Genova nel 1928, all’apertura del Vaticano II aveva 34 anni. Prima della vita religiosa c’era stato l’antifascismo – nel 1944, quando la Repubblica sociale italiana richiama alle armi anche i nati nel 1928, sceglie di disertare – e la Resistenza, come staffetta partigiana, con il nome di battaglia di Nan, diminutivo di nasan, in genovese nasone. Finita la guerra l’incontro con i salesiani e l’ingresso nella Congregazione fondata da don Bosco, da cui però decide di uscire nel 1964: «La congregazione salesiana si era istituzionalizzata e mi impediva di vivere pienamente la vocazione sacerdotale», racconta don Gallo che, incardinato nella diocesi di Genova, viene nominato viceparroco della chiesa del Carmine, nel centro storico, fra gli epicentri della contestazione sessantontina – la facoltà di Lettere, il liceo classico “Cristoforo Colombo” e la sede di Autonomia operaia – e la Genova dei sottoproletari e degli irregolari cantati da De André. Don Gallo sceglie di stare dalla parte degli emarginati e partecipa al movimento: «Ho saputo che vai spesso in processione», lo rimprovera il cardinal Siri, arcivescovo di Genova, riferendosi ai cortei e alle manifestazioni a cui il “suo” prete prendeva parte; «io conosco le litanie dei santi, ma non ho mai visto né sentito quel santo che continui ad invocare con i tuoi parrocchiani, Ho Ci Minh».

Il cardinale, rappresentante della parte più conservatrice della Curia romana e dell’episcopato lo allontana dalla parrocchia e don Gallo si rifugia nella parrocchia di San Benedetto al Porto: nasce la comunità di base e la comunità di accoglienza, che apre le sue porte a chiunque capiti da quelle parti, italiano o straniero, tossicodipendente, alcolista, prostituta, transessuale, ex detenuto. «Nella vita mi hanno apostrofato in ogni modo», racconta don Gallo, ma spesso «si sono dimenticati che sono anche amico delle prostitute, dei devianti, dei balordi, dei border line, dei migranti, di tutti coloro che viaggiano ai margini della società. Un prete da marciapiede, insomma. È lì che vivo, ogni giorno e ogni notte, cercando la speranza insieme alla persone che incontro». Ed è lì che continua a sognare una «Chiesa povera e dei poveri», come vuole il Vangelo, come sperava il Concilio.

«Il Concilio aveva suscitato in me, e in molti miei confratelli, grande entusiasmo e forti speranze – ricorda don Gallo –. Soprattutto mi avevano colpito gli interrogativi posti dal cardinal Suenens, uno dei moderatori del Concilio, e da Montini, allora arcivescovo di Milano: “Chiesa chi sei? Cosa dici di te stessa?”. Sono le domande fondamentali. Oggi la Chiesa non se le pone più, non riflette più su se stessa, perché è “sazia” e ha assunto nella società un ruolo dominante e una posizione di potere. La Curia romana e le gerarchie ecclesiastiche lo sanno, ma tacciono. In questo modo la Chiesa abbandona la profezia e dimentica la forza eversiva del Vangelo.

Non si mette più in discussione perché la tentazione del potere ha avuto la meglio?

Esatto. E così il Concilio, che è stato una “rivoluzione copernicana”, dopo cinquant’anni, è morto.

Sarà possibile riportarlo in vita?

Quella della Chiesa è una crisi di sistema, strutturale. Per risolverla ci vorrebbe una risposta teologica, invece si preferisce organizzare i raduni di massa, i pellegrinaggi, le offensive mediatiche, che però sono solo fumo negli occhi, perché la crisi rimane intatta. L’unica speranza per salvare la Chiesa sono il popolo di Dio e i cattolici di base. Lo ha scritto in uno dei suoi ultimi libri anche Hans Küng, il grande teologo a cui la Congregazione per la dottrina della fede ha proibito di insegnare nelle università cattoliche: Salviamo la Chiesa.

Ma per salvarsi è necessario che la Chiesa avvii delle riforme radicali, perché non si salverà mai una Chiesa verticistica, patriarcale, maschilista, misogina, sessuofobica ma molto attenta a coprire cardinali e pretini pedofili, una Chiesa eurocentrica che chiama la guerra ingerenza umanitaria o missione di pace, che benedice le portaerei e non si oppone alle basi militari – come a Vicenza con il Dal Molin -, una Chiesa che difende l’esclusivismo cristiano e l’imperialismo romano. «Osare la speranza» era il motto della mia brigata partigiana. E io non abbandono la speranza di una Chiesa evangelica, non di potere.

Di chi sono le maggiori responsabilità? Chi ha affossato il Concilio e addomesticato la forza eversiva del Vangelo?
Le responsabilità sono di tutti i cattolici, ma è ovvio che bisogna partire dall’alto, ovvero dalla gerarchia ecclesiastica. Ai tempi del Concilio avevo un amico che stava a Roma e che era molto vicino a Roncalli. E Roncalli un giorno gli confessò: sai perché non spingo troppo l’acceleratore per le riforme? Perché questi venerabili uomini della Curia romana si rivolterebbero a tal punto che, dopo di me, eleggerebbero come mio successore un uomo che affosserebbe tutto quello che ho cominciato. Ecco di chi sono le responsabilità.

Pare che la “profezia” di Roncalli si sia avverata…
Completamente. Già Paolo VI, successore di Giovanni XXIII, fece qualche passo indietro, ad esempio con l’enciclica Humanae Vitae, quella contro la pillola. Con Wojtyla, poi, è iniziata la vera e propria restaurazione. Chi ha scelto per sostituire i vescovi che si ritiravano e che raggiungevano l’età pensionabile? Nuovi vescovi totalmente allineati a Roma. Ha decapitato la teologia della liberazione, che invece aveva pienamente abbracciato il Concilio: appena eletto, nel 1979, Wojtyla è andato a Puebla, per la III Conferenza generale della Celam (il Consiglio episcopale latinoamericano), dieci anni dopo la “nascita” della teologia della liberazione, a Medellin, nel 1968, e lì ha attaccato duramente la teologia della liberazione; negli anni successivi, poi, ha tolto le cattedre a tutti i principali teologi della liberazione

E poi arriva Ratzinger…
L’ultima enciclica di papa Ratzinger è la Caritas in veritate: un bellissimo titolo, ma falso, perché a me sembra che non ci sia né amore né verità. ComunqueRatzinger non fa altro che continuare la restaurazione avviata da Wojtyla, prendendo sempre più le distanze dal Concilio, ma anche allontanandosi dalla maggioranza del popolo di Dio. Poi però, con i grandi raduni organizzati dall’alto, come per esempio l’ultimo Incontro mondiale delle famiglie lo scorso giugno a Milano, in televisione si vede un milione di persone in piazza con Ratzinger e si pensa che tutti i cattolici stiano con il papa e i vescovi. La struttura ecclesiastica è seriamente malata, e la causa della malattia è il sistema di governo romano, che si è affermato nel corso del secondo millennio grazie soprattutto alla riforma gregoriana che ha concentrato tutti i poteri nelle mani del papa e della Curia, e che ancora resiste. Ma questo è un vero e proprio scisma, il più grave di quelli che la Chiesa ha conosciuto.

Uno scisma?
Esattamente. Nella storia della Chiesa ci sono stati tre scismi. Il primo nell’XI secolo, con la divisione fra Chiesa d’Occidente e Chiesa d’Oriente; il secondo nel XVI secolo, con Lutero e la seprazione fra cattolici e protestanti; il terzo nei secoli XVIII e XIX, tra il cattolicesimo romano e il mondo moderno. Il Concilio Vaticano II aveva tentato di ricomporre questo scisma, perché la Chiesa era ancora quella della Controriforma, nemica della modernità. Benché il suo pontificato sia durato meno di cinque anni, Giovanni XXIII era riuscito ad aprire le finestre della Chiesa sul mondo, nonostante la forte resistenza della Curia, e ad indicarle, con il Concilio, la via del rinnovamento e dell’aggiornamento, in direzione di un annuncio del Vangelo al passo con i tempi, di un’intesa con le altre Chiese cristiane, di un’apertura nei confronti delle altre religioni, a cominciare dall’ebraismo, di una riconciliazione con la democrazia.

Questa finestra però è stata immediatamente richiusa dalla macchina della Curia, che ha fatto di tutto per tener sotto controllo il Concilio, e così lo scisma si è riaperto. Papa Giovanni è morto troppo presto, e il sistema romano ha vinto. E comanda soprattutto oggi, che siamo tornati indietro, ad una Chiesa preconciliare.

Si riferisce a papa Ratzinger che ha ripristinato una serie di elementi preconciliari, dalla messa in latino alla celebrazione liturgica con il prete che dà le spalle ai fedeli?
Non solo a Ratzinger, perché il processo di restaurazione è iniziato già con Wojtyla, che io paragono a Ronald Regan: un attore, con un grande carisma e un fascino potente, un comunicatore eccezionale, capace di gesti dall’alto valore simbolico, che, in questo modo, è stato in grado di rendere accettabili le dottrine e le pratiche più conservatrici, così da frenare il movimento conciliare e arrestare le riforme.

Viene ribadita integralmente la dottrina cattolica. Invece dell’apertura al mondo moderno, si rinnovano, con grande insistenza l’accusa, il rammarico e la denuncia di un presunto adattamento a esso. Si incoraggiano le forme di devozione più tradizionaliste. Si rafforza una nuova Inquisizione. Si rifiuta la libertà di coscienza. Si azzera l’ecumenismo e si pone l’accento su tutto ciò che è cattolico, facendo coincidere la Chiesa di Cristo con la Chiesa cattolica romana. Siamo in un’epoca non solo di ricattolicizzazione, ma di riromanizzazione.

Il Concilio ha segnato, tra l’altro, l’apertura della Chiesa al mondo moderno. Questo ambito sembra essere quello in cui l’arretramento è maggiore, soprattutto su alcuni temi, per esempio la morale sessuale…
L’affossamento del Concilio inizia proprio da lì, con l’Humanae Vitae, nel 1968. Paolo VI ignora non solo la Gaudium et spes, che mette al centro le donne e gli uomini del nostro tempo, ma anche il parere della Commissione preparatoria nominata da lui stesso, favorevole alla pillola. Si torna indietro, a quello che ci facevano studiare prima del Concilio: fine principale del matrimonio procreatio est, diceva il professore di teologia in aula magna. Basta, chiuso il discorso. Poi aggiungeva che era anche remedium concupiscentiae e poi mutuum auditorium. Dal 1968 ad oggi, in tema di morale sessuale non è cambiato nulla, siamo ancora all’Humanae Vitae, che pure terminava dicendo che la Chiesa avrebbe dovuto interessarsi di questo tema. Ma da allora non è successo nulla. Una dottrina più comprensiva sul controllo delle nascite è necessaria, ma la Chiesa è sorda, non ne vuole sapere. In occasione del trentesimo anniversario dell’enciclica, nel 1998, papa Wojtyla l’ha ribadita parola per parola, senza togliere e senza aggiungere una virgola. Una chiusura totale e immotivata, tanto che una volta chiesi ad un cardinale: scusi eminenza, ma la sessualità è un dono di Dio alle donne e agli uomini oppure è un dono del demonio?

Eppure il centro di qualsiasi unione, di qualsiasi tipo di unione, è l’amore. Addirittura nella celebrazione del sacramento del matrimonio non ci sarebbe nemmeno bisogno del prete, perché quello che conta è il sì degli sposi, e basta.

E poi ci sono le altre questioni: il «rispetto e la difesa della vita umana, dal concepimento fino alla morte naturale» – ovvero non solo i temi della contraccezione ma anche della fecondazione assistita, del testamento biologico, dell’accanimento terapeutico, della ricerca sulle cellule staminali -, «la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna» – con l’altolà alle unioni di fatto e alle unioni omosessuali -, « la libertà di educazione dei figli» – cioè i finanziamenti alla scuola cattolica -. Tutte riassunte e codificate nella formula dei «principi non negoziabili» coniata da Ratzinger e utilizzata spessissimo dalla Conferenza episcopale italiana, soprattutto quando, nel dibattito politico, sembra farsi strada qualche legge non gradita ai vescovi.

Esattamente. Si tratta di argomenti “tabù”, non trattabili, sui quali non si può nemmeno discutere. E fra l’altro mostrano una Chiesa cieca che non solo non vuole dialogare con la scienza, ma che nemmeno la rispetta.

Non rispetta nemmeno la libertà di coscienza?

No. E non la rispetta nonostante il Concilio, torniamo di nuovo lì, abbia chiaramente affermato il primato della coscienza, che non è subordinata a niente e a nessuno. Invece capita spesso che questa libertà sia negata e anzi che quella stessa coscienza venga resa prigioniera con la minaccia dell’inferno. Perché se è vero che la Chiesa ha delle convinzioni alle quali non può rinunciare e ha il diritto di esprimerle pubblicamente, di discuterle e di proporle nel dibattito politico sulla formazione delle leggi, è altrettanto vero che in una società pluralista e democratica le regole e le norme si costruiscono insieme agli altri. Si può proporre, senza arroganza, ma non imporre. Invece sembra proprio che la Chiesa voglia imporre ad ogni costo i propri principi, in una società che è postcristiana. La Chiesa potrebbe essere un presidio di autentico umanesimo e svolgere un servizio alla libertà e alla dignità dell’uomo, invece non riconosce i valori che provengono dall’esterno, dal mondo laico, e questo è molto grave. Ma quando la Chiesa nega la possibilità di un’etica a chi non è credente in Dio, quando vede nella società odierna solo frammentazione di valori, nichilismo, cultura di morte, allora contribuisce non al confronto ma alimenta lo scontro. Si è tanto parlato di scontro di civiltà: dobbiamo stare attenti che non siano proprio i cattolici a fomentarlo all’interno delle nostre società, perché sarebbe anche questo un segno delle barbarie, una barbarie sempre più invadente.

La laicità è un valore?

Certo che lo è, ed esiste un’etica laica molto profonda. Non c’è contraddizione tra fedeltà alla Chiesa e attaccamento all’istanza di laicità. La laicità non è laicismo, al contrario: è il rispetto di tutte le fedi da parte dello Stato che assicura il libero esercizio delle attività cultuali, spirituali, culturali, creative delle diverse comunità. E in una società pluralista, la laicità è l’unico spazio di dialogo e di comunicazione tra la religioni.

I «principi non negoziabili» sembrano essere molto lontani da quella forza eversiva e liberatrice del Vangelo di cui parlavamo in precedenza. Che fine hanno fatto temi evangelici come la giustizia sociale, l’attenzione agli emarginati e agli oppressi, la ricchezza e la povertà?

L’attenzione per il potere e per i privilegi li ha eclissati. La Chiesa, compreso il mio arcivescovo che è anche presidente della Cei, per anni ha sostenuto Berlusconi. Adesso sostiene Monti. Comunione e Liberazione applaude il potente di turno, l’ha scritto perfino Famiglia Cristiana parlando del Meeting di Rimini di questa estate. Più che la difesa dei principi non negoziabili, c’è l’attenzione alla difesa dei privilegi. Del resto, me l’hanno detto anche dei santi monaci, la Chiesa è governata dall’Opus Dei e dalle altre truppe scelte: Comunione e Liberazione, Comunità di Sant’Egidio, i Legionari di Cristo, con il loro fondatore, il pedofilo padre Maciel, protetto alla fine da papa Wojtyla. Anche in questo caso bisogna tornare al Concilio, dove si parlava di «Chiesa povera e dei poveri», e alla teologia della liberazione – decapitata da Wojtyla e Ratzinger – che ha proclamato l’opzione fondamentale per i poveri.

Però c’è una parte di Chiesa e molte organizzazioni cattoliche che aiutano i poveri…

È vero, ma bisogna fare molta attenzione. Ci sono due strade: sembrano simili, in realtà vanno in direzioni opposte. La gerarchia ecclesiastica e alcuni settori del mondo cattolico propongono una solidarietà che ha degli aspetti positivi ma che si limita all’assistenzialismo, e in questo modo conferma, anzi rafforza, il sistema economico dominante di sfruttamento, il neocolonialismo sui diseredati del mondo. La strada da percorrere è quella della solidarietà liberatrice, che mette in discussione il neoliberismo. Dom Helder Câmara, il grande vescovo di Olinda e Recife, aveva capito tutto: quando do da mangiare ai poveri, diceva, mi battono le mani; quando domando perché i poveri hanno fame, mi chiamano comunista. La Chiesa non ha ancora fatto una scelta chiara e netta. Ma se la Chiesa vuole essere cattolica, deve essere cristiana, se vuole essere cristiana deve essere povera, altrimenti sarà un apparato che governa nel mondo, ma non è certo l’ecclesia di Gesù.

Parliamo di alcuni temi ecclesiali emersi nel Concilio e nel post Concilio, su cui è stata posta una pietra tombale: ad esempio il ruolo della donna nella Chiesa, fino alla possibilità dell’ordinazione sacerdotale.

Su questo aspetto la chiusura è totale. Quest’anno, sempre nell’omelia del Giovedì santo, Ratzinger, a proposito dell’ordinazione femminile, ha detto che nostro Signore non ci ha dato nessuna «autorizzazione». Se fossi stato presente avrei voluto chiedergli: santo padre, forse Gesù vi ha autorizzato o suggerito di fondare lo Ior, la banca del Vaticano? Poi, come impone la prassi pontificia, ha citato Wojtyla – «il mio predecessore, il beato Giovanni Paolo II», ha detto Ratzinger – che ha ribadito il no al sacerdozio femminile «in maniera irrevocabile». Qui ci troviamo di fronte ad una vera e propria eresia: come è possibile dire «in maniera irrevocabile»? Il pontefice è il vescovo di Roma, il successore di Pietro, ma il più delle volte i papi credono di essere degli dei. Il Concilio ha affermato la libertà religiosa e il primato della coscienza, dopo secoli di oscurantismo e di condanne che non sono finite nell’800 ma che sono continuate fino a Pio XII, ovvero il predecessore di Giovanni XXIII. Ha spezzato tutti i vecchi paradigmi, ora invece si procede di restaurazione in restaurazione. Allora chiedo: è lecito per un cristiano come me invocare l’applicazione dei documenti del Concilio Vaticano II? Non posso fondare la mia fede sul principio di autorità del magistero pontificio, come se la mia fede fosse autentica solo se obbedisco ciecamente al papa. È un’assurdità, non sta in piedi né filosoficamente, né ontologicamente, né teologicamente, né biblicamente. «Non giurate mai», dice Gesù nel Vangelo, «dite sì quando è sì e no quando è no: tutto il resto viene dal diavolo». Quindi non ci sono dogmi, non possono esserci.

Che fine ha fatto la collegialità episcopale, anch’essa auspicata dal Concilio?

La collegialità episcopale esiste solo sulla carta. Poi arrivano le “veline” da Roma e i vescovi devono obbedire. I vescovi, ormai da anni, non si fanno carico della responsabilità collegiale nei confronti dell’intera Chiesa, conferita proprio dal Concilio, sono ridotti a semplici funzionari, a meri destinatari ed esecutori degli ordini vaticani. Lo stesso giuramento che i vescovi fanno al papa è in contrasto con il Vangelo dove è scritto, lo ripeto, «non giurate».

Ma c’è molto altro. Il matrimonio dei preti? Guai a parlarne. La comunione ai divorziati? Ancora no. Un nuovo ordinamento per la nomina dei vescovi? No. La riforma del papato e della Curia? No.

In Italia ci sono diversi preti e religiosi, noti ed autorevoli, schierati nettamente dalla parte degli emarginati e degli esclusi, che però, di fatto, scelgono di intervenire e di impegnarsi solo su temi e questioni sociali, dall’acqua agli inceneritori, dalle mafie al disarmo. Del sistema di potere ecclesiastico, della Curia vaticana e delle gerarchie, di quello che non funziona nella Chiesa, delle mancate riforme parlano poco o per niente, come se non volessero mettere il dito nelle piaghe. Per quale motivo?

Quello che dici è vero. Sono davvero pochi quelli che pongono questioni ecclesiali sostanziali e strutturali, che hanno il coraggio di affrontare nodi teologici e pastorali. Un tempo c’erano padre Balducci e padre Turoldo, fino a pochi mesi fa c’era don Enzo Mazzi della Comunità dell’Isolotto di Firenze: grandi personalità, che ora non ci sono più. Quasi nessuno parla al posto loro. Oggi è rimasto fratel Arturo Paoli, che a novembre compirà 100 anni; c’è mons. Bettazzi, che però è messo in un angolo, come se fosse una reliquia del Concilio, invece è un grande vescovo; è rimasto don Franco Barbero, e infatti è stato dimesso dallo stato clericale da Wojtyla. I teologi tacciono, i preti pure. Il problema è che in Italia c’è una forte repressione: se parli liberamente e criticamente ti emarginano, ti tolgono la cattedra, ti fanno fare la fame. È una repressione che non dà scampo, quindi non è facile decidere di prendere la parola su questioni ecclesiali, decidere di criticare la Chiesa: hanno molta paura.

Alcuni gruppi ci provano, con grande coraggio: c’è la sezione italiana di Noi Siamo Chiesa, ci sono le Comunità di base, a volte c’è Pax Christi, ma in questo clima è difficile organizzare il dissenso e il pensiero critico. E questo silenzio è un grande problema, perché non aiuta la conversione della Chiesa.

Il recente “Appello alla disobbedienza” dei 300 preti austriaci che chiedono riforme radicali nella Chiesa cattolica – dalla comunione ai divorziati risposati alla celebrazione eucaristica senza prete, dal sacerdozio femminile alla fine del celibato ecclesiastico obbligatorio – in poco tempo ha fatto il giro d’Europa e ha raccolto migliaia di adesioni. Forse dall’estero, lontano da Roma e dal Vaticano, è più facile affrontare questi nodo ecclesiale e anche muovere critiche alla Chiesa?

Non a caso quell’appello non è stato firmato da preti e religiosi italiani. Poi però cosa è successo? Durante la celebrazione della messa del Giovedì santo, in san Pietro, Ratzinger li ha rimproverati e li ha richiamati all’obbedienza, senza nemmeno entrare nel merito delle cose che chiedevano.

Prima ancora, nel 1996, c’era stato l’“Appello dal popolo di Dio”, lanciato in Austria dal Movimento internazionale Noi Siamo Chiesa, che chiedeva al Vaticano una serie di riforme lungo la linea tracciata dal Concilio – dal riconscimento del ruolo della donna nella Chiesa al celibato facoltativo del clero, dal superamento delle discriminazioni verso gli omosessuali alla libertà di coscienza per quanto riguarda la regolazione delle nascite – e che ha raccolto oltre 2 milioni di firme, di cui più di 30mila in Italia…

E che sono state completamente ignorate. Questo significa che in Vaticano il popolo di Dio non conta nulla. Non c’è altra spiegazione. Eppure si dice che la Chiesa è semper gloriosa, semper paenitens e semper reformanda: quest’ultimo aspetto è stato cancellato e dimenticato del tutto.

Tutto questo mi amareggia molto: sono prete da 53 anni, amo la mia Chiesa e vedo che viene impedito che il messaggio rivoluzionario e liberatorio di Gesù raggiunga le donne e gli uomini. Ma continuo a sperare e a sognare

Cosa?

Un Concilio Vaticano III, con tre temi: la povertà della Chiesa, l’abolizione del celibato obbligatorio, il sacerdozio femminile.

(22 maggio 2013)

giovedì 30 maggio 2013

Qualcuno era al corrente di questo?

2013. Inizia lo scioglimento dell’Arma dei Carabinieri, sara' sostituita dall’Eurogendfor. La dittatura europea ha il suo braccio armato!








L'Arma dei carabinieri, in osservanza del trattato di Velsen procede a tappe forzate al proprio smantellamento con la chiusura di numerosi reparti, sino all’inevitabile scioglimento dell’Arma.
La legge n.84 del 12 giugno 2010 riguarda direttamente l’Arma dei Carabinieri, che verrà assorbita nella Polizia di Stato, e questa degradata a polizia locale di secondo livello.
Allo stesso tempo, l’art.4 della medesima legge introduce i compiti dell’Eurogendfor.
Entro il 30 aprile quindi, nel quadro dei provvedimenti di razionalizzazione operati dal Comando Generale conseguentemente ai tagli imposti dal contenimento della spesa, saranno SOPPRESSEle aliquote Artificieri antisabotaggio dei comandi provinciali di Latina, Messina, Caltanissetta e Brindisi, nonché del Gruppo Operativo Calabria e dello Squadrone Eliportato Cacciatori di Sardegna.

Che cosa e' l'Eurogendfor?

Si chiama Eurogendfor, Forza di Gendarmeria Europea,
risponde solo ad un comitato interministeriale,
gode di totale immunità internazionale, e da quest’anno soppianta la Polizia di Stato, relegata ad un ruolo secondario su base locale, mescolata alla bassa forza (sottufficiali) dell’Arma.
Torno  sul tema dopo due anni per via della grande disattenzione sul controllo militare a carattere generale in atto nel vecchio  continente.  
Addio Europa sotto lo zio Sam.
Occorre smettere di considerare la pace come una specie di diritto acquisito, garantito dall’articolo 11 della Costituzione, ma di fatto delegato ad altri. Occorre considerare le Forze Armate come strumenti di guerra anziché come mezzi indispensabili per qualsiasi pace possibile”parola del generale Carlo Jean, che nel 2003, a capo della Sogin, pretendeva di realizzare illegalmente a Scanzano Jonico il deposito unico di scorie atomiche.
Detto e fatto, grazie alla legge 84 del 14 maggio 2010, andata poi in vigore il 12 giugno 2010, votata anche dall’opposizione, e praticamente all’unanimità, ecco Eurogendfor (European Gendarmerie Force – EGF), ovvero, la  Forza di Gendarmeria Europea, svincolata dal controllo parlamentare e giudiziario. 

Usa Ue.

Ora soppianta la Polizia di Stato, relegata ad un ruolo secondario su base locale, mescolata alla bassa forza (sottufficiali) dell’Arma. ’Fedeli nei secoli’ i sottufficiali e la truppa confluiranno nella PS, ormai degradata a polizia regionale di secondo livello. L’accordo, in base al Trattato di Velsen, è stato reso esecutivo dai Paesi che sono dotati di Polizie militari: Francia (Gendarmerie), Spagna (Guardia Civil), Portogallo (Guardia nacional), Olanda (Marechaussée) e per l’Italia, i Carabinieri. Romania e Lituania aderiranno a breve.   
European Gendarmerie Force - All’articolo 3 si legge: «la forza di polizia multinazionale a statuto militare composta dal Quartier Generale permanente multinazionale, modulare e proiettabile con sede a Vicenza (Italia). Il ruolo e la struttura del QG permanente, nonché il suo coinvolgimento nelle operazioni saranno approvati dal CIMIN -ovvero- l’Alto Comitato Interministeriale. Costituisce l’organo decisionale che governa EUROGENDFOR».
Le caratteristiche portanti -definite dall’articolo 1- configurano la EGF come «una Forza di Gendarmeria Europea operativa, pre-organizzata, forte e spiegabile in tempi rapidi al fine di eseguire tutti i compiti di polizia nell’ambito delle operazioni di gestione delle crisi». SI SI AVETE LETTO BENE!!!
Al servizio di chi? L’articolo 5 recita: «EUROGENDFOR potrà essere messa a disposizione dell’Unione Europea (UE), delle Nazioni Unite (ONU), dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) e di altre organizzazioni internazionali o coalizioni specifiche».
La Nato, vale a dire gli Usa, hanno voce in capitolo nell’ordinare le «missioni» per Eurogendfor.
A chi risponde? Un comitato interministeriale (CIMIN) con sede a Vicenza nella caserma carabinieri “Chinotto”, composto dai rappresentanti ministeriali dei Paesi aderenti (Difesa ed Esteri), esercita in esclusiva il «controllo politico» sulla nuova Polizia militare e decide di volta in volta le condizioni di ingaggio. L’EGF dipende solo dal CIMIN.
In altri termini: l’European Gendarmerie Force non risponde ad alcun Parlamento, nè nazionale nè europeo. 

Super polizia sovranazionale

Gode anche di una sorta di totale immunità internazionale.
Missioni e compiti? L’articolo 4 illustra un ampio spettro di attività: «EGF potrà essere utilizzato al fine di: condurre missioni di sicurezza e ordine pubblico; monitorare, svolgere consulenza, guidare e supervisionare le forze di polizia locali nello svolgimento delle loro ordinarie mansioni, ivi comprese l’attività di indagine penale; assolvere a compiti di sorveglianza pubblica, gestione del traffico, controllo delle frontiere e attività generale d’intelligence; svolgere attività investigativa in campo penale, individuare i reati, rintracciare i colpevoli e tradurli davanti alle autorità giudiziarie competenti; proteggere le persone e i beni e mantenere l’ordine in caso di disordini pubblici; formare gli operatori di polizia secondo gli standard internazionali: formare gli istruttori, in particolare attraverso programmi di cooperazione».
A quali crisi si fa riferimento?
Si allude cripticamente a quelle inquadrate «nel quadro della dichiarazione di Petersberg». Scarne righe ufficiali avvertono che «Il Consiglio ministeriale della UEO, riunito a Petersberg, presso Bonn, approvò, il 19 giugno 1992, una Dichiarazione che individuava una serie di compiti, precedentemente attribuiti alla stessa UEO, da assegnare all’Unione Europea; le cosiddette ‘missioni di Petersberg’ sono le seguenti: missioni umanitarie o di evacuazione, missioni intese al mantenimento della pace, nonché le missioni costituite da forze di combattimento per la gestione di crisi, ivi comprese operazioni di ripristino della pace». 

Prerogative

Nel trattato di Velsen si scopre che l’EGF gode di una totale immunità:
articolo 21) «Inviolabilità dei locali, degli edifici e degli archivi»;
articolo 22) «Le proprietà e i capitali di EGF e i beni che sono stati messi a disposizione per scopi ufficiali, indipendentemente dalla loro ubicazione e dal loro detentore, saranno immuni da qualsiasi provvedimento esecutivo in vigore nel territorio delle Parti»;
articolo 23) «Le comunicazioni indirizzate ad EGF o da queste ricevute non possono essere oggetto di intercettazioni o interferenza»;
articolo 28) «i Paesi firmatari rinunciano a chiedere un indennizzo per danni procurati alle proprietà nel corso della preparazione o esecuzione delle operazioni.  L’indennizzo non verrà richiesto neanche in caso di ferimento o decesso del personale di Eurogendfor»;
articolo 29) «gli appartenenti ad Eurogendfor non potranno subire procedimenti a loro carico a seguito di una sentenza emanata contro di loro, sia nello Stato ospitante che nel ricevente, in uno specifico caso collegato all’adempimento del loro servizio».
Per gli ufficiali, l’Arma aumenta il suo potere: dovrà rispondere solo al CIMIN (ovvero a ufficiali e rappresentanti del Ministero Esteri e Ministero Difesa); manterrà i suoi poteri in Italia e nel mondo godendo di privilegi impensabili in uno Stato di diritto, fino ad una totale immunità e insindacabilità.

SI SI AVETE LETTO BENE!!!


Sotto il profilo operativo, l’attività di EGF è assicurata dal comandante, attualmente il colonnello Jeorge Esteves. E
GF ha un bacino di capacità ad alta prontezza operativa, variabile a seconda dell’esigenza, che consente la possibile attivazione di 800 uomini e 2.300 di riserva entro 30 giorni.
L’EGF potrà operare in qualsiasi parte del globo terrestre, sostituirsi alle forze di Polizia locali, agire nella più totale immunità giudiziaria e al termine dell’ingaggio, dovrà rispondere delle sue azioni al solo comitato interno.
Nel 2010 la Camera ha approvato la «Ratifica ed esecuzione della Dichiarazione di intenti tra i Ministri della difesa di Francia, Italia, Olanda, Portogallo e Spagna relativa alla creazione di una Forza di gendarmeria europea, con Allegati, firmata a Noordwijk il 17 settembre 2004, e del Trattato tra il Regno di Spagna, la Repubblica francese, la Repubblica italiana, il Regno dei Paesi Bassi e la Repubblica portoghese per l’istituzione della Forza di gendarmeria europea, Eurogendfo, firmato a Velsen il 18 ottobre 2007». Presenti 443, Votanti 442, Astenuti 1, Maggioranza 222. Hanno votato sì 442. Nello stesso anno, anche il Senato ha approvato senza colpo ferire.
Per caso, qualche parlamentare ha letto i 47 articoli del Trattato? 

Anomalie

Innanzitutto la pregressa operatività.
La legge di ratifica risale al 14 maggio di due anni fa, mentre il quartiere generale è stato insediato a Vicenza nel 2006.
Anzi secondo il Ministero della Difesa “La EGF rappresenta un’iniziativa joint, nata nel 2003 in seno all’Unione Europea”. In effetti il bimestrale ufficiale del dicastero bellicco denominato Informazioni Della Difesa (nel n° 3 del 2010) attesta che “il 18 gennaio, la Presidenza del CIMIN ha incaricato il QGP di Vicenza di studiare un piano finanziario relativo alla potenziale missione. Il 2 febbraio il CIMIN ha proposto l’uso della forza in ambito MINUSTAH – Missions des Nationes Unies pour Stabilisation en Haiti.
L’8 febbraio, il CIMIN, con procedura elettronica, ha approvato la partecipazione della EGF alla missione”.
Seconda incongruenza: la sede scelta per EGF: la caserma dei carabinieri ‘Generale Chinotto’, a Vicenza.
La medesima città è occupata dalla grande base militare Usa -in fase di ampliamento(Dal Molin) multiforme fuori e dentro l’area urbana- a disposizione soltanto del Pentagono,che vi mantiene un buon numero di testate nucleari (Site Pluto nel comune di Longare), “con i carabinieri di grado inferiore  ignari dei pericoli ambientali e sanitari- usati alla stregua di cani da guardia” come affermano alcune fonti.
Dubbi e perplessità, ma anche considerazioni poco rassicuranti sulla Forza di Gendarmeria Europea sono stati espressi sia da addetti ai lavori, a cominciare dal Sindacato della Polizia, oltre che da storici e analisti.

Articolo di Gianni Lanes