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sabato 14 dicembre 2013

L'EURO E' UNA PATACCA INSOSTENIBILE

 M.Friedman, J.Stigliz, A.Sen, J.Mirrless, C.Pissarides): “l’Euro e’ una patacca”

Sei Premi Nobel per l’economia, di diverse ideologie, ci dicono tutti la stessa cosa: l’Euro e’ una patacca insostenibile.
Gli ultimi due ad aggiungersi alla lista di Nobel che sostengono cio’ sono James Mirrless e Christopher Pissarides. Tra un po’ rischiamo di perdere il conto. euro-crash

Partiamo da Paul Krugman che ci spiega perche’: “L’euro è campato in aria” (clicca sul Titolo per vedere l’articolo integrale; sotto gli estratti piu’ significativi)
… penso che l’euro fosse un’idea sentimentale, un bel simbolo di unità politica. Ma una volta abbandonate le valute nazionali avete perso moltissimo in flessibilità. Non è facile rimediare allaperdita di margini di manovra. In caso di crisi circoscritta esistono due rimedi: la mobilità della manodopera per compensare la perdita di attività e soprattutto l’integrazione fiscale per ripianare la perdita di entrate. Da questa prospettiva, l’Europa era molto meno adatta alla moneta unica rispetto agli Stati Uniti. Florida e Spagna hanno avuto una stessa bolla immobiliare e uno stesso crollo. Ma la popolazione della Florida ha potuto cercare lavoro in altri stati meno colpiti dalla crisi. Ovunque l’assistenza sociale, le assicurazioni mediche, le spese federali e le garanzie bancarie nazionali sono di competenza di Washington, mentre in Europa non è così.
l’Europa sarà sempre fragile. La sua moneta è un progetto campato in aria e lo resterà fino alla creazione di una garanzia bancaria europea. … Ricordiamoci però una cosa: l’Europa non è in declino. È un continente produttivo e dinamico. Ha soltanto sbagliato a scegliersi la propria governance e le sue istituzioni di controllo economico, ma a questo si può sicuramente porre rimedio.
Professor And Columnist Paul Krugman Wins Nobel In Economics

Passiamo a Milton Friedman, che gia’ nel 1998 spiegava che la Moneta Unica e’ un Soviet e Bruxelles e Francoforte prenderanno il posto del Mercato  (clicca sul Titolo per vedere l’articolo integrale; sotto gli estratti piu’ significativi)
Niente di sbagliato, in generale, a volere un’unione monetaria. Ma in Europa c’e’ gia’ ed e’ quella esistente di fatto tra Germania, Austria e Paesi del Benelux. Niente vieta che, se ci tiene, l’Italia aderisca a quella. Il resto e’ una costruzione non democratica“.
Piu’ che unire, la moneta unica crea problemi e divide. Sposta in politica anche quelle che sono questioni economiche. La conseguenza piu’ seria, pero’, e’ che l’euro costituisce un passo per un sempre maggiore ruolo di regolazione da parte di Bruxelles. Una centralizzazione burocratica sempre piu’ accentuata. Le motivazioni profonde di chi guida questo progetto e pensa che lo guidera’ in futuro vanno in questa direzione dirigista.…. 
…Ma non vedo la flessibilita’ dell’economia e dei salari e l’omogeneita’ necessaria tra i diversi Paesi perche’ sia un successo. Se l’Europa sara’ fortunata e per un lungo periodo non subira’shock esterni, se sara’ fortunata e i cittadini si adatteranno alla nuova realta’, se sara’ fortunata e l’economia diventera’ flessibile e deregolata, allora tra 15 o 20 anni raccoglieremo i frutti dati dalla bendizione di un fatto positivo. Altrimenti sara’ una fonte di guai“.
Cosa prevede succedera’?  Una riduzione della liberta’ di mercato. A Francoforte siedera’ un gruppo di banchieri centrali che decidera’ i tassi d’interesse centralmente. Finora, le economie, come quella italiana, avevano una serie di liberta’, fino a quella di lasciar muovere il tasso di cambio della moneta. Ora, non avranno piu’ quell’opzione. L’unica opzione che resta e’ quella di fare pressione sulla Ue a Bruxelles perche’ fornisca assistenza di bilancio e sulla Banca centrale europea a Francoforte perche’ faccia una politica monetaria favorevole. Aumenta cioe’ il peso dei governi e delle burocrazie e diminuisce quello del mercato. Sarebbe meglio fare come alla fine del secolo scorso, quando, col Gold Standard, l’Europa aveva gia’ una moneta unica, l’oro: col vantaggio che non aveva bisogno di una banca centrale.
…Quello che c’e’ da dire sul mercato unico, piuttosto, e’ che e’ reso piu’ complicato proprio dall’Unione monetaria che rende piu’ difficili le reazioni delle economie, toglie loro strumenti e le rende piu’ dipendenti dalle burocrazie”. 
milton friedman

Passiamo a Joseph Stiglitz, che ci spiega che l’Euro, o cambia oppure è meglio lasciarlo morire (clicca sul Titolo per vedere l’articolo integrale; sotto gli estratti piu’ significativi)
Il progetto europeo, per quanto idealista, è sempre stato un impegno dall’alto verso il basso. Ma incoraggiare i tecnocrati a guidare i vari paesi è tutta un’altra questione, che sembra eludere il processo democratico, imponendo politiche che portano ad un contesto di povertà sempre più diffuso.
Mentre i leader europei si nascondono al mondo, la realtà è che gran parte dell’Unione europea è indepressione. La perdita di produzione in Italia dall’inizio della crisi è pari a quella registrata negli anni ’30. …
…La realtà tuttavia è che la cura non sta funzionando e non c’è alcuna speranza che funzioni; o meglio che funzioni senza comportare danni peggiori di quelli causati dalla malattia….. L’Europa ha bisogno di un maggiore federalismo fiscale e non solo di un sistema di supervisione centralizzato dei budget nazionali. ….E’ poi necessaria un’unione bancaria, ma deve essere una vera unione con un unico sistema di assicurazione dei depositi, delle procedure risolutive ed un sistema di supervisione comune. Inoltre, sarebbero necessari gli Eurobond o uno strumento simile.
I leader europei riconoscono che senza la crescita il peso del debito continuerà a crescere e che le sole politiche di austerità sono una strategia anti-crescita. Ciò nonostante, sono passati diversi anni enon è stata ancora presentata alcuna proposta di una strategia per la crescita sebbene le sue componenti siano già ben note, ovvero delle politiche in grado di gestire gli squilibri interni dell’Europa e l’enorme surplus esterno tedesco che è ormai pari a quello della Cina (e più alto del doppio rispetto al PIL). In termini concreti, ciò implica un aumento degli stipendi in Germania e politiche industriali in grado di promuovere le esportazioni e la produttività nelle economie periferiche dell’Europa.
Quello che non può funzionare, almeno per gran parte dei paesi dell’eurozona, è una politica di svalutazione interna (ovvero una riduzione degli stipendi e dei prezzi) in quanto una simile politica aumenterebbe il peso del debito sui nuclei familiari, le aziende ed il governo (che detiene un debito prevalentemente denominato in euro).
I leader europei continuano a promettere di fare tutto il necessario per salvare l’euro. La promessa del Presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, di fare “tutto il necessario” ha garantito un periodo di tregua temporaneo. Ma la Germania si è opposta a qualsiasi politica in grado di fornire una soluzione a lungo termine tanto da far pensare che sia sì disposta a fare tutto tranne quello che è necessario.
E’ vero, l’Europa ha bisogno di riforme strutturali come insiste chi sostiene le politiche di austerità. Ma sono le riforme strutturali delle disposizioni istituzionali dell’eurozona e non le riforme all’interno dei singoli paesi che avranno l’impatto maggiore. Se l’Europa non si decide a voler fare queste riforme, dovrà probabilmente lasciar morire l’euro per salvarsi.
L’Unione monetaria ed economica dell’UE è stata concepita come uno strumento per arrivare ad un fine non un fine in sé stesso. L’elettorato europeo sembra aver capito che, con le attuali disposizioni, l’euro sta mettendo a rischio gli stessi scopi per cui è stato in teoria creato.
stiglitz

Passiamo ad Amartya Sen, con la recente intervista “Che orribile idea l’euro” (clicca sul Titolo per vedere l’articolo integrale; sotto gli estratti piu’ significativi)
«….. Mi preoccupa molto di più quello che succede in Europa, l’effetto della moneta unica. Era nata con lo scopo di unire il continente, ha finito per dividerlo».
«L’euro è stato un’idea orribile. Lo penso da tempo. Un errore che ha messo l’economia europea sulla strada sbagliata. Una moneta unica non è un buon modo per iniziare a unire l’Europa. I punti deboli economici portano animosità invece che rafforzare i motivi per stare assieme. Hanno un effetto-rottura invece che di legame. Le tensioni che si sono create sono l’ultima cosa di cui ha bisogno l’Europa. ….».
«Quando tra i diversi Paesi hai differenziali di crescita e di produttività, servono aggiustamenti dei tassi di cambio. Non potendo farli, si è dovuto seguire la via degli aggiustamenti nell’economia, cioè più disoccupazione, la rottura dei sindacati, il taglio dei servizi sociali. Costi molto pesanti che spingono verso un declino progressivo».
«È successo che a quell’errore è stata data la risposta più facile e più sbagliata, si sono fatte politiche di austerità. L’Europa ha bisogno di riforme: pensioni, tempo di lavoro, eccetera. E quelle vanno fatte, soprattutto in Grecia, Portogallo, Spagna, Italia. Ma non hanno niente a che fare con l’austerità. È come se avessi bisogno di aspirina ma il medico decide di darmela solo abbinata a una dose di veleno: o quella o niente. No, le riforme si fanno meglio senza austerità, le due cose vanno separate».
«La Germania ha sicuramente beneficiato della moneta unica. Oggi abbiamo un euro-marco sottovalutato e una euro-dracma sopravvalutata, se così si può dire. Ma non credo che ci sia uno spirito del male tedesco. Non ci sono malvagi in questa cosa terribile che sta succedendo. È che hanno sbagliato anche i tedeschi. E si è finiti con la Germania denigrata. ….».
Amartya_Sen_NIH
E’ il turno di James Mirrless, che nel suo intervento a Venezia all’Auditorium Santa Margherita per il ciclo ‘Nobels colloquia 2013′ dell’Università Ca’ Foscari, ha testualmente detto che “all’Italia conviene uscire dall’Euro subito” (clicca sul Titolo per vedere l’articolo integrale; sotto gli estratti piu’ significativi)
«Non voglio suggerire politiche per mutare la situazione attuale e mi sento a disagio nel fare raccomandazioni altisonanti, perché non ho avuto il tempo di valutarne le conseguenze. Però,guardando dal di fuori, dico che non dovreste stare nell’euro, ma uscirne adesso». 
 «L’uscita dall’euro non risolverebbe in automatico i problemi dell’Italia, visto che, ad esempio, rimarrebbero le questioni derivanti dalle politiche adottate dalla Germania. Ma non è comunque corretto collegare le conseguenze di un’eventuale uscita da Eurolandia al venir meno della lealtà e fedeltà come membri dell’Unione europea. Finché l’Italia resterà nell’euro non potrà espandere la massa di moneta in circolazione o svalutare: ecco perché si impone la necessità di decidere se rimanere o meno nella moneta unica, questione non facile da dirimere, perché la gente toglierà il denaro dai conti in banca prima che questo accada. Probabilmente, dovreste sostenere il costo di un’eventuale uscita, come avvenuto in Gran Bretagna (che non ha mai abbandonato la sterlina), ma dovete essere pronti a pagare questo prezzo».
 «Se l’Italia tornasse in grado di svalutare ci sarebbe sicuramente la possibilità di arricchirsi per chi togliesse in tempo i soldi dalle banche; ma, per la Gran Bretagna, è valsa la pena, perché poi ha avuto un andamento economico soddisfacente”. ”Tutto ciò non comporta automaticamente l’aumento o la riduzione della pressione fiscale. Però, in una certa misura, raccomanderei misure di sostegno ai redditi, per aumentare il potere d’acquisto della popolazione. Ma solo temporaneamente”.   ”Se l’Italia dovesse uscire dall’euro alcuni grossi problemi continuerebbero ad esistere, perché la Germania continua a mantenere i livelli dei prezzi troppo bassi. E, se la Germania continuerà questo atteggiamento, cosa che non intende cambiare, anche per l’Italia continuerebbero le difficoltà di oggi».
«Uscire dall’Euro significa fuggire, la crisi si può affrontare resistendo ad essa e combattendo, ma i Paesi che scelgono di combattere lo facciano considerando anche l’opzione della fuga. Mi sento però a disagio, come persona esterna, nell’offrire soluzioni, anche perché mi chiedo se abbiate abbastanza manager economici in grado di mettere in atto e gestire l’espansione che potrebbe esserci»
Mirrlees
E passiamo ora a Christopher Pissaridesnobel per l’economia nel 2010, presidente del new Centre for Macroeconomics che dichiara “Abbandonare l’Euro” dopo esserne stato nel passato un fautore (clicca sul Titolo per vedere l’articolo integrale; sotto gli estratti piu’ significativi)
«L’Unione Monetaria ha creato una generazione persa di giovani disoccupati e dovrebbe essere dissolta». «Sono completamente stato ingannato. Allora, l’euro sembrava una grande idea, ma ora ha prodotto l’effetto contrario di quello che si aveva in mente ed ha bloccato crescita e la creazione del lavoro. In questo momento sta dividendo l’Europa e la situazione attuale non è sostenibile».
«L’Euro divide l’Europa e la sua fine e’ necessaria per ricreare quella fiducia che le nazioni europee una volta avevano l’una all’altro. Non andremo da nessuna parte con l’attuale linea decisionale ed interventi ad hoc sul debito. Le politiche perseguite ora per salvare l’euro stanno costando all’Europa lavori e stanno creando una generazione persa di giovani laureati. Non certo quello che i padri costituenti avevano in mente».  
 Christopher_Pissarides

CONCLUSIONI

Che’ l’EURO fosse un esperimento destinato al fallimento, c’era chi ce lo diceva gia’ nel 1971:  L’Economista Kaldor nel 1971 spiegava con precisione millimetrica il perche’ l’Euro avrebbe fatto collassare il sistema 


Abbiamo visto che ogni studio ci dice che un ritorno a Valuta Nazionale e’ conveniente per l’Italia (  Esclusiva simulazione di cosa accadrebbe con Euro (con e senza austerity) e senza Euro ), ed un pessimo affare per la Germania ( Nove studi e rapporti a confronto sul break-up dell’Euro  ).

Abbiamo analizzato il perche’ della Crisi ( Capire la Crisi dell’Europa in 80 slides ), spiegato perche’ all’italia conviene uscire ( EURO: Analisi di dettaglio del perche’ all’Italia conviene uscire ), analizzato la svalutazione del 1992 ( Analisi della Svalutazione del 1992-1995 ) e spiegato perche’ necessario farne un’altra in termini difensivi (La necessità di una bella svalutazione difensiva ).

Abbiamo demolito una per una le argomentazioni dei fautori dell’EURO ( Fact Checking alle argomentazioni pro-euro: smontiamole una ad una ).

Infine abbiamo spiegato cio’ che i Nobel hanno ribadito, cioe’ che l’Euro e’ il vero nemico dell’Europa ( Meglio l’Europa o l’Euro ? ), e spiegato perche’ alla fine il Leviatano Sovietico-Burocratico crollera’ (Ecco perche’ la DISGREGAZIONE dell’EURO e’ lo scenario piu’ probabile).

By GPG Imperatrice
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AFFONDEREMO TUTTI INSIEME APPASSIONATAMENTE

QUOTIDIANI SVIZZERI DENUNCIANO: FRANCIA IN DEFAULT. NON PAGA I DEBITI CON LO STATO SVIZZERO (DEVE MEZZO MILIARDO DI CHF)

venerdì 13 dicembre 2013

Lugano - L’affare del mezzo miliardo di franchi di imposte dei frontalieri che la Francia avrebbe dovuto pagare a diversi cantoni svizzeri in questi mesi (e che non sta pagando) oscilla fra due interpretazioni.
Prima ipotesi : la Francia esercita misure di ritorsione a seguito di un clima attualmente poco favorevole in Svizzera, trattandosi di un contenzioso fra vicini. Potrebbe anche trattarsi di pressioni a causa del dibattito sulla nuova imposizione franco-svizzera sulle successioni. Queste presunte intenzioni sembrano in realtà talmente mediocri che equivalgono a ridurre la nazione francese a livelli drammaticamente insignificanti.
Seconda ipotesi, più credibile (e che non esclude la prima) : la Francia si trova in default di pagamento. Non ha più i mezzi per far fronte ai suoi impegni finanziari, con l’aggiunta di una capacità di indebitamento molto ridotta. Questo significa che i redditi fiscali incassati che deve alla Svizzera stanno finendo nell’intervento armato nella Repubblica Centrafricana.
I sorpassi del bilancio dovuti alle operazioni militari esteriori della Francia, circa 1,25 miliardi di euro per il 2013, sono cominciati ben prima dei movimenti delle truppe venerdì scorso. In queste condizioni, le proteste in Svizzera per le fatture non pagate dalla Francia potrebbero ben presto sembrare fuori luogo. La Francia è in missione nel mondo, addirittura starebbe forse salvando l’Africa.
Dopo che di fronte alla Siria gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno deposto le armi per motivi economici, la cosa più importante oggi sembra essere non lasciare sola la Francia di fronte a questa immensa responsabilità. Questo semplice esempio fiscale localizzato rende l’idea dei vicoli ciechi nei quali è andato a fermarsi il mondo sviluppato.
(Fonte : agefi.com)

QUOTIDIANI SVIZZERI DENUNCIANO: FRANCIA IN DEFAULT. NON PAGA I DEBITI CON LO STATO SVIZZERO (DEVE MEZZO MILIARDO DI CHF)







giovedì 12 dicembre 2013

L'INPS TACE


Ignavia di Stato PENSIONI

L’Inps ha tutti gli strumenti per fornire ai lavoratori italiani una stima precisa della loro futura pensione. Ma ministero e istituto di previdenza mantengono un silenzio colpevole, penalizzando così i cittadini che più hanno bisogno di quelle informazioni. I rischi per la stabilità del sistema.


UN CALCOLO POSSIBILE PER L’INPS
Nei giorni scorsi il ministro Giovannini ha dichiarato che per il momento proprio non se ne parla di mandare rendicontazioni a tutti i lavoratori italiani sullo stato dei loro versamenti all’Inps e, soprattutto, di fornire loro una previsione sulla pensione che possono attendersi in futuro. Più volte abbiamo richiamato l’importanza che i lavoratori vengano aiutati a districarsi nel caos normativo delle riforme pensionistiche e accompagnati con una adeguata informazione dell’effetto dei cambiamenti sui loro diritti pensionistici.
L’Inps è depositaria dell’informazione sui versamenti individuali, conosce meglio di chiunque le norme che si applicano a ciascun individuo, è in grado di fare una stima delle carriere di ogni individuo dal momento corrente fino a quello in cui andrà in pensione, sa quale è l’algoritmo che lega i contributi di ciascuno alla pensione a cui avrà titolo. Sono conoscenze e calcoli complessi per la maggior parte delle persone. Anche noi che facciamo gli economisti di mestiere non abbiamo difficoltà a confessare che abbiamo una idea molto vaga della pensione che otterremo. Non sono invece calcoli complessi – o la complessità può essere superata – per una istituzione depositaria per funzione di tutte le conoscenze necessarie allo scopo. Che i lavoratori beneficino da questa conoscenza è ovvio. Avere un’idea, la più precisa possibile, della pensione consente a ciascuno di pianificare i propri risparmi. Se è troppo bassa, si può decidere di partecipare a un fondo pensione, lavorare di più, risparmiare di più. E non trovarsi a dover stringere la cinghia (o anche peggio) da vecchi, quando si scopre di aver erroneamente pensato di ottenere un assegno più elevato. Ma è cruciale anche per la solidità del sistema pensionistico. Se i lavoratori non accumulano abbastanza risparmi privati perché credono che avranno una pensione elevata, non saranno in grado di condurre una vita decente, obbligando lo Stato a intervenire per limitare l’indigenza. Il rischio, evidenziato anche nel recente rapporto Ocse sulle pensioni, pone il presupposto per un buco nei bilanci futuri, e costituisce una minaccia per la stabilità del sistema. Una classe dirigente degna di questo nome, un ministro responsabile, un presidente dell’Inps che interpreta il suo ruolo avrebbero già agito.
UN SILENZIO COLPEVOLE
Da un po’ di tempo, l’Inps-Inpdap ha tutto pronto per recapitare ai contribuenti le cosiddettebuste arancioni già richieste più di dieci anni fa su questo sito. Esistono già i programmi in grado di rendicontare i contributi versati e di fare previsioni sulle pensioni future. Sei mesi fa in un incontro pubblico – presente uno degli scriventi – il presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua, disse che l’istituto era in grado di procedere, mancava solo l’autorizzazione del ministro Giovannini, che però era d’accordo. In un altro incontro  dieci giorni fa, ministro e presidente dell’Inps si sono impegnati a procedere nel giro di poche settimane. Invece passano i mesi e l’operazione viene rinviata. Forse si teme che la responsabilità delle riforme degli anni passati, che hanno reso meno generoso il sistema, venga addossata a chi per primo spedisce le buste. Oppure si teme di svelare le grandi disparità di trattamento che si sono consumate nel passaggio da retributivo a contributivo e nel cambiamento dei requisiti, tra scalini e scaloni, per l’accesso alle pensioni d’anzianità. Oppure, ancora, si ritiene – ed è l’interpretazione più benevola – che una corretta informazione sui trasferimenti operati dalla previdenza (il fatto che i contributi servono a pagare le pensioni di altri) avrebbe corrotto il patto intergenerazionale implicitamente realizzato dalle pensioni pubbliche.
Fatto sta che il silenzio consapevole e colpevole dei Governi passati e ora di quello in carica ha costi elevati perché alimenta paure che potrebbero benissimo essere evitate con una corretta informazione. Perché è vero che le pensioni future saranno più basse di quelle erogate sin qui, ma pur sempre in grado di rappresentare fino al 60-70 per cento dei redditi da lavoro del lavoratore medio. Tuttavia, per i lavoratori precari, con carriere molto discontinue e bassi salari, si porranno problemi seri. Dire loro per tempo cosa li può aspettare è molto utile.
MEGLIO LA BUSTA O LA SIMULAZIONE?
La scusa – perché di questo si tratta – trovata ora dal ministro Giovannini è singolare: gli italiani non sanno la matematica e quindi non capirebbero ciò che verrebbe loro mandato nella busta arancione. È vero che molti italiani non sono a loro agio con i numeri e hanno difficoltà a decifrare estratti conto e, a maggior ragione, una previsione della pensione, come mostrato dall’indagine Piacc. Ma crede il ministro che per queste persone sia più semplice fare una simulazione usando l’area messa loro a disposizione nel sito Inps “(…) che educhi e consenta alle persone di fare simulazioni più che dire: ecco il tuo destino è segnato e non puoi più fare nulla” secondo quanto ha dichiarato al Sole24-Ore?
A nostro avviso no. Primo, in Italia una quota rilevante di persone non ha accesso alla rete.Sono le più povere, meno informate, più bisognose di conoscere e di sapere. E non avranno mai accesso allo strumento che consente al lavoratore di simulare la propria pensione e all’Inps di lavarsene le mani. Caro ministro, come ve la cavate con questi lavoratori? Come se la caveranno loro?
Secondo, l’informativa assistita serve proprio perché molte persone difettano della capacità di fare calcoli. Fare una simulazione in proprio, anche con l’aiuto del computer, presuppone comunque la capacità di leggere il risultato della simulazione: non crediamo che sia più semplice che leggere la busta arancione. Ovviamente dipende da come le cose vengono presentate, ma questo vale tanto per l’output della simulazione fatta in proprio quanto per il contenuto della busta arancione: si può comunicare una previsione in modo semplice e comprensibile, se si vuole. Terzo, bene avere un programma di simulazione a disposizione. Ma poiché la simulazione deve essere fatta su base volontaria (è un potenziale servizio messo a disposizione), non c’è modo di assicurarsi che le persone la facciano. Ancor meno che la aggiornino di tanto in tanto quando il loro quadro si modifica, perché accumulano versamenti, cambiano le norme, si rivede la previsione di crescita dell’economia o altro – elementi tutti importanti per prevedere l’ammontare della pensione. Tutto ciò non si verifica con l’informativa mandata dall’Inps che deve arrivare a tutti e che deve arrivare, poniamo, una volta all’anno con una previsione aggiornata.
Quarto, dare una previsione non vuol dire emettere una condanna; anzi insieme alla previsione noi crediamo che i lavoratori debbano ricevere anche informazioni su come mettere riparo a una potenziale scarsità di benefici pensionistici. Illustrare loro l’esistenza dei fondi pensione, come funzionano, i lori vantaggi fiscali e così via, dovrebbe essere parte integrante della busta arancione. In Svezia contiene informazioni anche sull’andamento della previdenza integrativa. L’informativa guidata deve servire per promuovere la previdenza complementare, che non decolla principalmente per ostacoli informativi. Sarebbe un’iniziativa da gestire insieme alla Covip. A questo proposito, ricordiamo al ministro che quell’organismo è senza presidente dall’inizio dell’anno e manca un membro del board, oggi retto da un singolo componente. Di fatto è non operativo proprio quando dovrebbe essere nel pieno delle sue funzioni. È così difficile trovare un presidente capace per la Covip? È così difficile rimpiazzare un suo consigliere?
Come altro definire questo atteggiamento se non “ignavia di Stato”? Chi – come i presidenti Inps e i ministri del Lavoro succedutisi finora (eccezion fatta per il ministro Fornero che si è mossa in controtendenza, ma è stata bloccata dal suo presidente del Consiglio proprio mentre stava per mandare le buste arancioni) – rifiuta di prendersi la responsabilità di informare i lavoratori italiani delle prospettive pensionistiche, per paura di essere loro stessi travolti da una crisi di consenso, non assolvono per ignavia al dovere a cui li chiama il loro ruolo. Agli occhi di Dante, gli ignavi occupano una posizione così bassa nella scala della considerazione da non meritare nemmeno l’attenzione del ragionamento e dello sguardo. Al contrario di Dante noi abbiamo volto sguardo e ragionamento verso chi potrebbe macchiarsi di quel peccato, con la speranza, mettendoli in guardia, di evitare che di loro si dica un giorno “(…) non ragioniam di lor ma guarda e passa”.

LA DISOCCUPAZIONE GIOVANILE

Disoccupazione austera
giovedì, dicembre 12th, 2013 4:05 PM


Tra i tanti indicatori macro economici che per motivi professionali teniamo costantemente sotto controllo, ce n’è uno particolarmente importante: la disoccupazione giovanile. Da un punto di vista economico ha una serie di implicazioni che il lettore già conosce. Ci permettiamo, a latere, di connotare questo parametro come particolarmente fastidioso perché, al di là dei meri ragionamenti tecnici, stiamo parlando del futuro dei vostri e nostri figli e più in generale del futuro della Nazione stessa. La disoccupazione giovanile è un macigno mortale che soffoca le nuove generazioni e questo accade, in linea di massima, per rigidità ed errori che ereditano dal passato.
E allora fanno impressione i dati relativi alla disoccupazione giovanile che ovunque era in calo e, in ogni caso, molto vicina al 20% fino al 2008 anno in cui avvenne l’ormai tristemente noto tracollo di Lehman. Da quel momento in poi, in ogni angolo d’Europa (Germania esclusa), la disoccupazione giovanile si è impennata in modo catastrofico, più che raddoppiando in alcuni casi. I casi emblematici sono quelli di Grecia (59,4%) e Spagna (55,5%) (sì avete letto bene, in Grecia ci stiamo avviando ad avere 2 ragazzi su 3 senza lavoro, ndr). In questo contesto nemmeno l’Italia si salva: certo, siamo diverse lunghezze dietro le catastrofiche situazioni greche e spagnole, ma nel mese di gennaio 2013 è avvenuto un fatto singolare. La disoccupazione giovanile italiana ha superato (di un soffio) quella portoghese. I nostri giovani disoccupati sono giunti al 38,7% mentre i vicini portoghesi sono al38,6%. Inezie, in quadro fosco.
Disoccupazione giovanile in Italia
Disoccupazione giovanile in Italia – Elaborazione a cura di GeoPoliticalCenter, fonte dei dati Eurostat
Tuttavia alcuni analisti stanno alzando il livello di allarme per due motivi:
  1. Il livello odierno di disoccupazione giovanile italiana è pari a quello greco di due anni fa
  2. L’outlook sull’Italia permane negativo
Gli analisti di GeoPoliticalCenter, tuttavia, esprimono cautela. Innanzitutto permane l’errato confronto diretto tra Italia e Grecia: i paesi sono estremamente diversi, a maggior ragione se si confronta il mercato del lavoro. Bisogna aggiungere a questo, che l’outlook sull’Italia è ad oggi negativo ma è principalmente basato su prospettive politiche che possano garantire o meno la stabilità di governo. Non siamo di certo noi a dire che la stabilità non sia importante, tutt’altro. Quello che però ci sembra essere (volutamente) messo in secondo piano è l’austerity.
Un anno fa, quando per vari motivi sicuramente politici ed economici, si diffuse la vulgata dell’austerity come mezzo salvifico, venne inseguita e (quasi) raggiunta. Allora, sulla carta sembrava tutto molto funzionale e funzionante. Ma già nel corso del 2012, in tutta Europa e in particolar modo in Italia, si cominciavano a intravvedere i primi riflessi negativi. Oggi possiamo dire, senza tema di smentita, che l’effetto collaterale più pesante lo si sta registrando proprio a livello di disoccupazione e di disoccupazione giovanile in particolare. Le soluzioni cercate sono quantomeno fantasiose (e ampiamente criticate da molti economisti). Non è in questo articolo che si vuole fare un approfondimento in merito, tuttavia si cerca di fluidificare l’accesso al mondo del lavoro con un mix di misure che colpiscono da un lato diritti dell’entrante e di chi è già entrato, ma non si intacca in alcun modo la fiscalità sul lavoro, vero freno allo sviluppo.
Per quanto la nostra voce sia una piccola voce, ci uniamo al coro di chi sostiene che l’austerity sia una strada di responsabilità e di buona conduzione dell’economia nazionale. Tuttavia questo approccio funziona ed esprime le proprie potenzialità durante cicli economici espansivi o moderatamente in contrazione. Durante cicli economici di depressione o stagnazione, applicare l’austerity in modo automatico, non fa altro che moltiplicare i problemi: li stiamo semplicemente spostando in modo poco controllabile dal comparto finanziario a quello economico reale.
Non è un caso se l’unica nazione a trarre nuovamente e ulteriormente vantaggio da questa situazione sia proprio la Germania che è stata virtuosa già al di fuori di questo ciclo economico congiunturale. La stessa austerity applicata adesso in itinere alle altre nazioni ha avuto risultati diametralmente opposti.

La Produzione Industriale dell’Eurozona va molto male ad Ottobre 2013

PRODUZIONE INDUSTRIALE  posted by 

La Produzione Industriale dell’Eurozona va molto male ad Ottobre 2013. Male l’Italia negli ultimi 3 mesi, ma la Francia va ancora peggio

Netto calo per la produzione industriale europea in ottobre: secondo Eurostat, è infatti diminuita dell’1,1% nell’Eurozona e dello 0,7% nell’Ue a 28 paesi. In Italia il dato è in controtendenza, con un aumento della produzione pari allo 0,5% in ottobre. Il dato europeo resta positivo su base annuale, con un aumento dello 0,2% nell’Eurozona e dello 0,8% in Ue rispetto all’ottobre 2012. A trascinare il ribasso in ottobre è stata soprattutto la produzione di energia, in calo del 4% nell’Eurozona e del 2,7% in Ue.
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Guardando i trend si nota che:
- I Paesi UE senza euro performano meglio di quelli dell’Eurozona (tendenza consolidata dal 2011)
- Nell’Eurozona, la Germania regge, e gli altri arrancano (tendenza consolidata da svariati anni)
- Tra i “dannati” la Spagna ha negli ultimi mesi un trend migliore dell’Italia
- Novita’: negli ultimi 3 mesi la Francia riesce nell’impresa di far peggio sia di Italia che di Spagna
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 By GPG Imperatrice
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LA CRISI CONTINUA, LE PARTITE IVA CHIUDONO, LA DISOCCUPAZIONE E' ANCORA MOLTO ALTA E ALTO E' IL CARICO FISCALE, LE AZIENDE CHIUDONO, LE TASSE AUMENTANO, LA SPESA DELLE FAMIGLIE E' DIMINUTA'.

Draghi: “Tassi bassi a lungo”
Bce, deficit Italia 2013 sopra le stime

Il presidente della Bce al Parlamento europeo: “Unione bancaria non è panacea”
AFP
Il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi

«I tassi, che abbiamo portato al loro livello storicamente più basso, resteranno bassi per un lungo periodo». Queste le parole del presidente della Bce Mario Draghi parlando alla plenaria del Parlamento Ue a Strasburgo.  
Draghi ha rivendicato come «le misure prese» dalla Bce e in particolare le decisioni sui tassi di interesse «hanno affrontato le distorsioni», «alleviato pressione sui finanziamenti delle aziende non finanziarie» e «aiutato le piccole e medie imprese». 

Il presidente ha parlato poi di unione bancaria che «non è una panacea». Draghi ha sottolineato che « per eliminare la frammentazione finanziaria essa è necessaria ma non sufficiente» e che «le condizioni di prestito ugualitarie si ristabiliscono solo se proseguono anche riforme e consolidamento» 

Italia  
Il rapporto deficit/Pil dell’Italia, atteso al 3% nel 2013 è sopra le stime per il «peggioramento delle condizioni economiche». Lo scrive la Banca Centrale Europea, che ricorda che l’obiettivo del deficit era del 2,9 nel 2013 e del 2,5 nel 2014 e del 1,8 per cento secondo il programma di stabilità.  
La Bce attende anche «che nei prossimi mesi l’inflazione si attesti in prossimità dei livelli attuali», con pressioni «contenute» sui prezzi nel medio periodo.  

Fondo capitali per banche dell’Eurozona  
Secondo il Financial Times, che cita una intervista all’esponente dell’istituto Peter Praet, la Bce starebbe valutando la possibilità di richiedere alle banche dell’Eurozona di fissare una sorta di fondo in cui accantonare capitali per far fronte all’esposizione in titoli di Stato, spiegando che la decisione rientra nel «tentativo di far sì che le banche più deboli non utilizzino la liquidità per acquistare debito dei Paesi più colpiti dalla crisi». 

La Banca centrale - scrive il Ft - punterebbe dunque a rendere più stringenti «i requisiti sui bond sovrani che sono stati tradizionalmente classificati trattati come asset privi di rischio». Secondo Praet se il debito sovrano fosse valutato «in base al rischio che rappresenta per il capitale delle banche» durante la verifica sullo stato di salute dei 130 maggiori istituti europei, allora le banche sarebbero meno disposte a utilizzare la liquidità fornita dalla banca centrale per comprare ancora debito.  


IL MALATO SEMBRA CONDANNATO MA E' VIVO

CRISI  posted by 

IL RISOLUTORE


Se si vive nei pressi di una linea ferroviaria, presto non si “sentirà” più se passa un treno. La ripetizione dello stimolo causa insensibilità. La macchina umana decide una volta per tutte che quel rumore non è significativo e lo esclude dalla coscienza. Un fenomeno analogo avviene nelle lunghe situazioni drammatiche. Se in casa c’è una persona ammalata senza speranza, naturalmente si vive una tragedia, ma dal momento che la catastrofe nel frattempo non si verifica, alla lunga si vive in una sorta di normalità: tanto che quando l’ammalato effettivamente muore, per quanto strano possa sembrare, la famiglia accoglie il fatto come una sorpresa e ne soffre quasi come se si fosse verificato in modo imprevisto.
A tutto ciò si è indotti a pensare assistendo alla lunga agonia dell’economia europea e italiana in particolare. Ci sono tutti i segni di una malattia inguaribile – e infatti i governanti non riescono a vincerla – e tuttavia la quotidianità ci induce a dimenticare quella situazione. Il malato sembra condannato, ma è vivo. Naturalmente in ciò c’è un’esagerazione: checché accada – una guerra, un’epidemia, una gravissima crisi economica – la geografia non cambia e dopo ci saranno ancora le montagne, i fiumi, i campi e le città. La storia non si ferma. Come ogni pace è seguita da una guerra, ogni guerra è seguita da una pace. Dunque dalla crisi usciremo. Il problema è: come? quando?
Anche in questo gli esseri umani sono spesso vittime dell’illusione di essere i padroni della realtà. Perfino se si annuncia un cambiamento climatico, la prima domanda che comincia a circolare è: che cosa faremo, per evitarlo? E la semplice idea implica che si abbia la pretesa di influenzare il clima. Come se le glaciazioni del passato, e perfino la mini-glaciazione del XVIII secolo, si fossero avute soltanto perché l’umanità non era abbastanza sviluppata per difendersi. Nello stesso modo ci si aspetta che i governi pongano rimedio alla crisi nella quale siamo immersi. Si dimentica che è più facile creare un problema che risolverlo: e con l’euro l’umanità ha dato un’indimenticabile dimostrazione di quanto sia tristemente vero l’assioma.
In questo senso è pure ridicola l’ironia sui “Forconi”. È vero, hanno idee confuse, ma forse che i giornali, il Parlamento e il Governo hanno idee chiare? È triste vedere un popolo affamato disprezzato da un ben pasciuto establishment.
Malgrado ogni esperienza contraria, è difficile sradicare dalla mentalità umana il sogno dell’arrivo del Risolutore: qualcuno che ha l’idea vincente, che sappia separare le acque del Mar Rosso e condurre il popolo alla salvezza. Il bisogno di questo Risolutore è tale che la gente è disposta ad identificarlo nel primo che passa, perfino in un comico che si improvvisa politico o in un sindaco grande intrattenitore. Costoro vendono fumo, come tutti gli altri, soltanto lo fanno in modo allegro: gliene sia reso merito. E tuttavia, potrebbe obiettare qualcuno, dalle crisi si esce: e se non lo si fa guidati da un comico, da un sindaco, da qualche Mosè momentaneamente disoccupato, come lo si fa?
La risposta è che il malato senza speranza alla fine muore. Pensiamo alla storia della Germania. Dal momento in cui Hitler è andato al potere, il Paese si è avvitato in una spirale di dittatura sempre più spietata e di follia sempre più scatenata, tanto che non s’è vista resistenza capace di fermarla. Ma quello che non si è riusciti a fare dall’interno, malgrado i disperati tentativi dei vertici dell’esercito e malgrado l’attentato di von Stauffenberg, alla fine l’hanno fatto gli eserciti degli Alleati. Analogamente il Risolutore dei problemi europei, e in particolare dell’Italia, non è un uomo: è una situazione al di fuori della nostra volontà, acefala e ingovernabile. Irresistibile come la gangrena di un arto che finalmente convince il paziente ad accettare l’amputazione.
Se si guarda la realtà da questo punto di vista si capiscono molte cose. Il discorso di Enrico Letta alla Camera è sembrato vacuo? E che potere ha, il nostro Presidente del Consiglio, di modificare la realtà italiana? La nostra crisi è irrimediabile. Finché abbiamo un euro che è un letto di Procuste, un debito pubblico irredimibile, una pressione fiscale che ci stritola, un sistema produttivo anchilosato e quasi focomelico, perché mai dovremmo ripartire verso la prosperità? L’unica previsione – che certo non possiamo chiamare “speranza” – è che le cose vadano talmente male da indurre l’intero Continente a ripartire con altri parametri. Sperando che in questo cataclisma la democrazia si salvi.
Non bisogna farsi illusioni. Come dopo la Seconda Guerra Mondiale, la ricostruzione ci sarà, ma il Risolutore sarà spietato e il prezzo da pagare spaventoso.
Gianni Pardo, pardonuovo.myblog.it
12 dicembre 2013

LA CRESCITA DELL'EUROZONA E' CONTATTA DAI VARI VINCOLI DELL'EURO.

La crescita dell'eurozona? Poca e in altrui balia


10:47 12 DIC 2013

di Geminello Alvi

disoccupazione che deprime i consumi


(AGI) - Roma, 12 dic.

La crescita dell'eurozona e' contratta dai vari vincoli dell'euro, quindi dal consolidamento dei conti pubblici e da una politica monetaria che non può per vincoli statutari replicare l'esempio americano. Il risultato e' una disoccupazione che deprime i consumi; mentre ancora gli effetti dell'allocazione distorta dei capitali contraggono gli investimenti. Le esportazioni restano pertanto l'unica fonte possibile crescita; ostacolata tuttavia dall'apprezzamento dell'euro, la cui durata dipende ormai solo dalla Federal Reserve. Percio' la politica monetaria della BCE viene giudicata dalla piu' parte degli analisti insufficiente, e non tutti si adeguano al minimo miglioramento previsto in questi giorni da Francoforte. Eppure proprio le difficolta' del credito in Portogallo, Spagna, ed in Italia confermano quanto siano complicati da risolvere con la sola politica monetaria gli esiti di un debito pubblico e privato distorti. E l'agire della BCE e' del resto reso ancora piu' improbo da strutture della competitivita' non omogenee.
  Risultato: la disoccupazione di lungo periodo si e' raddoppiata rispetto al 2008, con livelli piu' che doppi in Spagna e Grecia, rispetto agli altri stati. La Germania e' pur vero controbilancera' in parte il fenomeno, dopo gli accordi per il nuovo governo. Ma nessuna politica economica di Berlino puo' da sola invertire il difetto di domanda; la perdita di Pil potenziale degli altri membri dell'eurozona; il riassorbimento dei loro squilibri finanziari decennali. Peraltro la crescita delle esportazioni europee da segni di rallentare e gli investimenti non possono reggere un'effettiva potente ripresa europea in presenza di una capacita' produttiva utilizzata ormai al di sotto dell'80%, nel settore industriale. Ne' l'effetto della bolla immobiliare e' smaltito. Ovvi allora i primi sintomi di una disinflazione che si sta avvicinando pericolosamente al limite della deflazione.
  Pertanto un qualche miglioramento delle previsioni di crescita attorno all'1% per l'eurozona nel prossimo anno, dipende solo dall'economia mondiale, in particolare dalla crescita cinese, e dal tasso di cambio dell'euro. Dopo un rialzo che vari analisti prevedono proseguire ancora per i primi mesi del 2014, esso dovrebbe in seguito attestarsi, per esempio secondo Roubini Globaleconomics, a $1,27 per euro.
Sempre che poi il rialzo inevitabile dei tassi americani non squilibri la struttura degli spread nell'eurozona, e la crisi politica italiana non degeneri. (AGI) .

LA BCE CONFERMA PER L'ITALIA UN PEGGIORAMENTO DELLE CONDIZIONI ECONOMICHE

Frenata dell'inflazione, calo Pil pesa su deficit

Bce nel bollettino: deficit Italia sopra stime per peggioramento Pil. Pronti ad abbassare i tassi

12 dicembre, 11:13


La Banca centrale europea manterrà il tasso di riferimento allo 0,25% o a livelli inferiori "finché sarà necessario" e "seguiterà a sostenere la graduale ripresa dell'area dell'euro". Lo si legge nel bollettino mensile. La Bce attende "che nei prossimi mesi l'inflazione si attesti in prossimità dei livelli attuali", con pressioni "contenute" sui prezzi nel medio periodo.

Il rapporto deficit/Pil dell'Italia, atteso al 3% nel 2013 contro l'obiettivo del 2,9% e al 2,5% nel 2014 contro l'1,8% del programma di stabilità, si deve "principalmente a un peggioramento delle condizioni economiche". Lo scrive la Bce, ricordando che per la Ue il risanamento strutturale "è inferiore allo sforzo richiesto".

Draghi, unione bancaria non sufficiente,avanti riforme - "L'Unione bancaria non è una panacea, per eliminare la frammentazione finanziaria è necessaria ma non sufficiente a rompere il legame tra debiti sovrani e banche ma le condizioni di prestito ugualitarie si ristabiliscono solo se proseguono anche riforme e consolidamento": così il presidente Bce Mario Draghi parlando alla plenaria del Parlamento Ue. "I tassi, che abbiamo portato al loro livello storicamente più basso, resteranno bassi per un lungo periodo". "Le misure prese" dalla Bce ed in particolare le decisioni sui tassi di interesse "hanno affrontato le distorsioni", "alleviato pressione sui finanziamenti delle aziende non finanziarie" e "aiutato le piccole e medie imprese". Lo ha detto Draghi nella audizione davanti alla plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo ("l'ultima in questa legislatura" ha precisato Draghi). La Bce attualmente ha il 17% di donne nelle posizioni dirigenziali e nel luglio scorso il Comitato esecutivo "si è dato un obiettivo di genere, di arrivare al 35% entro il 2019". Draghi ha sottolineato che "non è una promessa vuota". Draghi si è anche congratulato per la nomina della francese Danielle Nouy a capo del Board di supervisione unica, confermata ieri dal Parlamento europeo.  "Non vediamo deflazione" nell'eurozona. Lo ha sottolineato Draghi ricordando che l'inflazione è sotto il 2% "da un lungo periodo di tempo" e continuerà a lungo, aggiungendo che il mandato della Bce è "mantenere la stabilità dei prezzi in entrambi i sensi" sia sopra sia al di sotto del 2%.

Rehn, prossimo vertice non abbastanza audace
 - Il vertice della prossima settima "non sarà abbastanza audace, non abbastanza concreto", quando invece "dovrebbe accelerare il ritmo per aumentare il credito alle Pmi e aiutare la crescita". Lo ha detto Olli Rehn lanciando l'appello "agli stati membri ad essere più audaci e coraggiosi per rispondere alle esigenze creditizie delle Pmi".


http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/economia/2013/12/12/Draghi-unione-bancaria-sufficiente-avanti-riforme_9766278.html
 

mercoledì 11 dicembre 2013

I pericoli inediti della deflazione prossima ventura.

I pericoli inediti della deflazione prossima ventura.
03.12.13
Francesco Daveri






Il rischio deflazione incombe sul mondo, in particolare su Europa e Italia. Non è la grande depressione degli anni Trenta, anche per la presenza di valvole di sicurezza sociale. Ma il margine sostenibile di intervento dei governi è molto più risicato, per l’elevato peso della spesa pubblica.
LO SCENARIO DEFLAZIONISTICO
Il taglio inatteso del tasso di riferimento per i mercati finanziari da parte della Bce all’inizio di novembre ha portato all’attenzione di tutti il problema che incombe sul mondo intero e su Europa e Italia in particolare. Al di là dei distinguo verbali del presidente della Bce Mario Draghi, il problema si chiama rischio di deflazione, cioè la riduzione continuata e persistente nel tempo del livello generale dei prezzi. Dopo il crollo di Wall Street nel 1929, negli Stati Uniti i prezzi scesero del 22 per cento nei quattro anni successivi. Anche il Pil in termini reali diminuì della stessa percentuale e così il crollo di borsa del 1929 divenne la Grande Depressione. Certo nessuno oggi vuole ripetere l’esperienza degli anni Trenta. Nel secondo dopoguerra, solo l’economia giapponese ha vissuto un prolungato periodo di deflazione: tra il 1990 e il 2012 in Giappone i prezzi al consumo sono scesi del 12 per cento. Ma, nello stesso periodo di tempo, il Pil è salito complessivamente del 22 per cento. Malgrado l’enfasi ricevuta sui media, quella giapponese è stata una deflazione senza depressione, un grave problema, ma con conseguenze sociali molto inferiori di quelle della Grande Depressione americana.
In ogni caso, dal settembre 2008 lo scenario delle politiche mondiali prevalente in Europa e nel mondo è cambiato radicalmente. Fino a prima del fallimento di Lehman Brothers, le banche centrali si preoccupavano di mantenere bassa l’inflazione in un quadro di stabilità della crescita macroeconomica. La Scienza della politica monetaria (descritta in un famoso articolodi Richard Clarida, Jordi Gali e Mark Gertler) di questo si occupava. Ancora nell’estate 2008, con una decisione passata alla storia come un terribile errore, la Bce di Jean Claude Trichet aumentò i tassi di riferimento per fronteggiare l’inflazione al 4 per cento causata dalla temporanea salita del prezzo del petrolio a 147 dollari al barile.
Dopo il 15 settembre 2008, però, tutto è cambiato e un nuovo spettro ha cominciato ad aggirarsi per l’Europa e per il mondo: quello della deflazione. È per la paura della deflazione che alla fine del 2008 le banche centrali hanno azzerato i tassi sotto il loro controllo. È sempre per la paura della deflazione che, tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009, i governi dei paesi ricchi e il Fondo monetario internazionale hanno messo in soffitta il Washington Consensus, la dottrina che, nei decenni precedenti, aveva suggerito ai paesi in difficoltà di bilancia dei pagamenti un mix di rigore fiscale e aggiustamento strutturale dell’economia e che per il quarto di secolo successivo alle crisi del debito estero degli anni Ottanta era stata applicata con efficacia. Abbandonato il Washington Consensus, soprattutto nei paesi che spesso avevano espresso gli uomini a capo del Fondo monetario e della Banca Mondiale, si sono manifestati ampi disavanzi pubblici in tutto il mondo sia per l’effetto automatico della crisi (che peggiora sempre i conti pubblici) che per la risposta discrezionale e per i salvataggi dei governi. Ed è stato sempre per paura della deflazione che le banche centrali, dopo aver azzerato i tassi, hanno continuato a riempire di liquidità l’economia mondiale in forme non convenzionali, facendo ciò che non avevano mai fatto, cioè acquistando direttamente titoli pubblici e privati a più lunga scadenza, in modo da sostenere il corso dei mercati obbligazionari e così da offrire ossigeno al lato delle attività dei bilanci delle banche commerciali. Senza preoccuparsi troppo dell’effetto collaterale di queste politiche, cioè quello di alimentare sempre nuove bolle sui mercati finanziari.
LA DIFFERENZA CON GLI ANNI TRENTA
Eppure, nonostante tutte le armi messe in campo da governi e banche centrali, lo spettro della deflazione non è ancora stato battuto. I dati tendenziali di novembre 2013 (rispetto a novembre 2012) ci dicono che l’inflazione tendenziale è oggi in rapida discesa: all’1 per cento in America, allo 0,9 per cento nell’eurozona e all’1,1 per cento in Giappone. Nonostante i tre round di quantitative easing della Federal Reserve, nonostante le Ltro (Long-Term Refinancing Operations) e le strategie di rassicurazione verbale della Bce e nonostante la Abenomics giapponese. Nei paesi indebitati dell’Eurozona l’inflazione è già negativa (-2 per cento, in Grecia) o vicina allo zero (Portogallo, Irlanda, Italia, Spagna). Nella maggior parte di questi paesi l’attività economica è in contrazione dal 2011, anche se va detto che, con l’eccezione della Grecia, la riduzione del Pil è stata molto più limitata di quella registrata nell’America degli anni Trenta.
Di fronte a questa situazione, tanti – prima di tutto Paul Krugman, ma anche molti cittadini comuni che vedono con preoccupazione la disoccupazione andare alle stelle – sostengono che i governi hanno fatto troppo poco e che quindi la tendenza alla deflazione è in definitiva colpa della scarsa determinazione della politica nel combatterla. È una tesi difficile da sostanziare empiricamente. Come indicato nella figura sotto, il debito pubblico mondiale è ai suoi massimi di sempre in tempo di pace e, secondo i calcoli del Fondo monetario, è già salito di circa 30 punti percentuali negli ultimi anni. La difficoltà di combattere la deflazione nel ventunesimo secolo è ben descritta da due numeri (ricavati da un libro di qualche anno fa di Vito Tanzi e Ludger Schuknecht). Nel 1920 (cioè prima della Grande Depressione) la spesa pubblica in diciassette paesi Ocse era meno del 20 per cento del Pil. Invece, nel 2008, prima della crisi attuale, aveva già raggiunto il 45 per cento del Pil, soprattutto a seguito dell’affermarsi dei sistemi di welfare. Proprio la presenza del welfare, cioè di valvole disicurezza sociale, ha stavolta evitato che le tendenze deflattive del ventunesimo secolo dessero luogo a qualcosa di simile alla Grande Depressione degli anni Trenta. Ma l’elevato peso della spesa pubblica (e del debito pubblico) ha anche reso il margine sostenibile di intervento dei governi molto più risicato, a causa delle diverse condizioni di partenza di oggi rispetto ad allora.
Come discusso dall’Economist, anche John Maynard Keynes oggi sarebbe stato probabilmente molto meno keynesiano che negli anni Trenta. E così ci si è affidati – e ancora oggi ci si affida – esclusivamente alla politica delle banche centrali, la cui efficacia anti-deflazione, in assenza di un oggi impossibile o almeno poco desiderabile supporto fiscale, è tuttavia molto più limitata. Inutile negarlo: scampare la deflazione degli anni Dieci non sarà un’impresa facile.
daveri deflazione