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martedì 30 aprile 2013

Il Nuovo Ordine Mondiale che si rivela

diEmilia Urso Anfuso

Fino a poco tempo fa era realmente difficile esporre realtà e verità che, pur esistendo, non venivano svelate alla popolazione media mondiale, ed erano considerate dal cittadino medio come vere e proprie fandonie o - nella migliore delle ipotesi - frutto di qualche patologia cospirazionista che aggrediva quei pochi intrepidi giornalisti o personaggi di una cultura intesa da molti come visionaria.
Fra queste persone ci sono anche io. Alcuni anni fa, dovetti lottare non poco – attraverso la pubblicazione di alcuni articoli di approfondimento – per far accettare ad un ampio e poliedrico canale di lettori, una realtà che poteva esser letta in maniera certa solo da chi poteva almeno accedere ad alcune informazioni.
Parlo del Nuovo Ordine Mondiale e di quella schiera di organizzazioni che fino ad oggi hanno operato silenziosamente dietro le quinte delle nazioni del mondo, così come il vero potere è abituato ad agire.
È del 2008 la pubblicazione di questo mio articolo, che parla di cosa sia il CFR – Council on Foreign Relations – il più potente organismo internazionale che raggruppa in sé tutti i personaggi che hanno in qualche modo a che fare con le decisioni delle nazioni. Ne fanno parte Monti, così come Draghi o comeProdiBersani Berlusconi, per parlare della nostra nazione. E tutti gli altri che possano venirci in mente. Se si fa parte di quel settore di persone che sono poste alla gestione e quindi in qualche modo al controllo di vasti territori, socialmente economicamente e politicamente parlando, non si può non farne parte.
Il CFR, così come il Bilderberg Group o la Trilateral, non sono esattamente un segmento del concetto più conosciuto di Massoneria. Sono qualcosa di diverso o meglio, di oltre.
La Massoneria, così come siamo abituati a percepirla, conserva criteri che oggi appaiono quasi decadenti. Regole, silenzi, veti, obbedienze. Tutto viene condotto attraverso la Regola. E la Regola è uguale per tutti. Adepti consenzienti nella sola ricerca di poter far parte di una condizione, più che di un ambiente definito.
Il Nuovo Ordine Mondiale e le organizzazioni attraverso cui opera è oltre, oltre che essere altro.
È un qualcosa che nasce dalla consapevolezza di pochi al mondo di poter decidere scientemente come veicolare le scelte delle grandi masse. Il famoso concetto del “controllo sul mondo” che tutti conosciamo, ma che releghiamo a concetti quali il nazismo, ad esempio, ma a torto.
Il nazismo fu un processo scaturito dalla volontà dei singoli, che – da che mondo è mondo – trovandosi in posizione dominante, possono – è storicamente confermato – scaturire in forme più o meno patologiche di imposizione di una volontà unica ma quasi del tutto individuale.
Il Nuovo Ordine Mondiale, presuppone invece qualcosa di quasi più temibile: il controllo e la gestione totale di tutte le popolazioni attraverso una organizzazione capillare e compatta che non può prescindere da se stessa e per questo violentemente più potente di qualsiasi forma individuale di dittatura.
Lo scorso anno, al giungere del governo pseudo-tecnico capitanato da Monti, mi scosse ascoltare al TG1della sera la frase: “Monti fa parte del Bilderberg Group e della Trilateral”. Era la prima volta in assoluto in cui veniva data un'informazione del genere. Scrissi quindi un articolo: “Mario Monti, Bilderberg e il Nuovo Ordine Mondiale”.
Potei finalmente dare una prova certa dell’esistenza di un concetto diverso dalla massoneria ma più potente e decisivo per la vita di ogni singolo cittadino.
Attesi le reazioni dei lettori, attendendomi i soliti commenti sarcastici. Non fu così.
Incredibilmente - e finalmente - qualcosa sembrava aver trafitto la crosta dura di molti riguardo questo tema e capii quindi, che qualcosa di diverso stava accadendo. Le migliaia e migliaia di persone che continuano a diffondere questo mio articolo in ogni forma possibile, sono la conferma che oggi sono molte le persone che hanno compreso che debba esserci qualcosa di oltre l’immagine puramente istituzionale delle nazioni.
Per anni, ho tentato di far riflettere su come il vero potere non sia quello che viene proposto in forma pubblica. Può sembrare paradossale ancora a molti, ma provate a pensare: dovendo ammettere che l’uso dell’informazione propagandistica è cosa certa dalla notte dei tempi, già questo apre la porta a considerazioni che portano all’inevitabile constatazione che al potere non giova certo palesarsi, potendo agire molto meglio nell’ombra.
Chi sono allora i personaggi “pubblici” che si propongono alle masse? Marionette, più o meno. Sono ciò che serve ai popoli per avere un effetto “tangibile” di un potere che in realtà non conoscono, né di nome né tantomeno di livello di potere.
Con l’avvento di Monti però, sembra che sia giunta l’era della rivelazione dei poteri occulti. Lentamente ma costantemente, infatti, briciole di verità vengono addirittura proposte attraverso quei media solitamente propagandisticamente abbottonati su certi temi.
Qua e là infatti, ecco un nome, un'organizzazione gettata così come niente fosse, un logo, una riunione “segreta” rivelata e quindi sapientemente fatta trapelare.
Ricordate la riunione “segreta” del Gruppo Bilderberg a Roma lo scorso anno? Ne parlai in questo articolo
Fosse stata segreta davvero, nessuno ne avrebbe mai saputo nulla. Quando si vuole, nulla trapela e nessuno sa. Vi siano di esempio grandi misteri mai risolti, come attentati che non trovano nomi di colpevoli nonostante a livello puramente pubblico sembra si faccia di tutto per svelare il segreto.
Oggi, torno sull’argomento per “rivelare” un altro pezzo del puzzle che si componePierluigi Bersani aBerlino. Cosa c’è di particolare, a parte la nuova apertura politico elettorale nei confronti di Monti?


Una scritta. Una semplice scritta leggibile alle spalle di Bersani durante il suo intervento a Berlino, che potrete visionare nel video allegato a questo articolo. La scritta è: “German Council on Foreign Relations”.La sede del CFR in Germania.
È importante riflettere oggi su questi temi. È importante perché siamo in un periodo storico che sono certa è solo l'inizio di qualcosa che ancora non si comprende appieno e non siamo certi di sapere cosa conterrà nel futuro.
Obama, pochi giorni fa, ha affermato l’assoluta necessità di “formare un governo unico internazionale”. Non è dichiarazione da poco.
Si pensi inoltre, come di un tema importante ma reso tenue dalla solita propaganda, non si parli più. È il tema relativo al trattato ESM. Quel terribile “contratto” internazionale economico che rende schiavo per l’eternità ogni singolo cittadino dei paesi firmatari.
Non se ne è parlato a sufficienza, proprio perché è un tema importantissimo per tutti noi. Così come sarebbe importante per ogni singolo cittadino del mondo, sapere la verità sulle condizioni climatiche del pianeta, su ciò che accade realmente nei siti nucleari disseminati ovunque ed anche, se realmente esistono cure che possano debellare certe malattie mentre si somministrano ancora cocktail considerati letali in molti casi.
Nulla. Il silenzio tombale, in tutti i sensi.
Tutti i livelli di potere, più o meno svelati, concordano da sempre sul fatto che le popolazioni devono sapere ciò che decidono si sappia. Nemmeno il minimo indispensabile per comprendere qualche brandello di verità.
Nel frattempo, ci tocca sorbirci teatrini ridicoli su temi assolutamente privi di qualsiasi contenuto. Basti guardare l’ennesima campagna elettorale dove persino il “professor” Monti si diverte ad utilizzare tutti i mezzi di comunicazione per giocare al candidato. Probabilmente, anni ed anni di potere occulto lo portano oggi a voler provare l’ebbrezza del ruolo pubblico.
Temo ciò che sta per accadere, pur non potendone ancora vedere nettamente i contorni.
La globalità del potere è peggiore della globalizzazione che in alcuni casi ha offeso la dignità umana.
Saremo inglobati indissolubilmente a poteri tangibili impossibili da abbattere?
Il metodo utilizzato negli ultimi decenni sembra portare a questa soluzione: quel potere intangibile, quella forma di dittatura complessa che rende tutti schiavi del nulla e, proprio per questo, maggiormente potente.
Salviamoci, ammesso che ne avremo ancora il modo ed il tempo.

Suicidi, il cimitero-Italia creato dai criminali del rigore


Romeo, Annamaria e Giuseppe si sono uccisi uno dopo l’altro a Civitanova Marche. Come per i morti sul lavoro, non c è alcuna tragica fatalità nella strage che ha visto autodistruggersi una intera famiglia di sessantenni. Fanno bene i dirigenti della Cgil Marche a rompere il solito velo di ipocrisia che copre questa e le altre tragedie che si susseguono. Questi tre poveri morti sono vittime delle controriforma Fornero delle pensioni. Si può dire tutto quello che si vuole, ma se il lavoratore non avesse subito quella terribile condizione di non avere né lavoro né pensione a 62 anni, una età per cui se perdi il lavoro per il mercato sei già morto. Se a questa sua condizione non si fosse sommata quella della pensione di fame della moglie, e se tutto questo non si collocasse nel massacro dell’austerità, non ci sarebbe stata la terribile catena di suicidi che oggi ci lascia una rabbia tanto profonda quanto impotente.
Quanti sono oramai gli omicidi dell’austerità nel nostro paese? Il disoccupato di Trapani che si è impiccato con in mano la Costituzione, Elsa Fornerol’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. O quello che si è dato fuoco davanti al Parlamento. O l’ultimo piccolo imprenditore strangolato dalle banche che non ce l’ ha fatta più. Quanta gente dovrà morire ancora, prima che si capisca che le politiche di austerità sono assassine? Abbiamo da poco commentato una ricerca della rivista medica “Lancet”, che ha misurato in Europa il rapporto tra tagli allo stato sociale e distruzione della salute dei cittadini. Ci sono le patologie e gli omicidi da austerità, come nella strage che colpisce il lavoro. Ma su questa almeno si aprono le inchieste e a volte, come alla Tyssen Krupp di Torino, ci sono persino condanne esemplari dei colpevoli.
Tuttavia, nonostante i processi, la strage del lavoro continua ed è proprio l’austerità che l’alimenta. Anche perché la strage di austerità non rientra nel codice. Come per chi oggi provoca le vittime di guerra, essa gode di una assoluzione preventiva, non ha responsabili né colpevoli. Quella della austerità è una guerra che i governi e le classi dirigenti conducono contro il proprio popolo. Una guerra umanitaria naturalmente, come tutte quelle che si fanno oggi. Una guerra con il supremo obiettivo di rendere nuovamente virtuosa e competitiva l’economia e che inevitabilmente provoca danni collaterali. Che tutti i potenti deprecano e condannano, salvo poi continuare esattamente come prima. Se si bombarda una città mirando alle opere militari, gli esperti sanno perfettamente calcolare quale sarà la percentuale Giorgio Cremaschiminima inevitabile di vittime civili.
Se, per mantenere quel pareggio di bilancio a cui ci siamo impiccati obbedendo ai diktat della Troika europea, si devono tagliare spese per il lavoro, per le pensioni e la sanità; se così si taglia, una percentuale definita di persone verrà brutalmente colpita nelle condizioni di vita, nella salute e nella dignità. E una parte di esse non potrà reggere alla disperazione. Si sa benissimo che accade e perché accade, ma si continua. Il codice ed il mercato assolvono preventivamente gli autori di questa criminalità economica. Come diceva Charlie Chaplin in Monsieur Verdoux, se uccidi una persona sei un assassino, un milione sei uno statista. Quanta gente ancora dovrà essere uccisa dalla austerità, prima che essa sia cancellata e condannata come socialmente e moralmente esecrabile e i suoi responsabili chiamati a risponderne?
(Giorgio Cremaschi, “Quanti omicidi d’austerità ancora per risanare i conti?”, da “Micromega” del 5 aprile 2013).

Macelleria Italia: tagli selvaggi, stipendi ai livelli del 1979


Tagliare gli sprechi della spesa pubblica, gonfiati dalla “casta” del pubblico impiego? Balle: l’Italia è scesa al di sotto della media Ocse per numero di occupati nella pubblica amministrazione. Dal 2006 al 2011, lo Stato ha tagliato 232.000 dipendenti pubblici. Una drastica “spending review” sostanziale, in ossequio all’ideologia neoliberista di Bruxelles, cominciata molto prima delle invettive di Brunetta contro i “pelandroni” o l’allarme scatenato da Grillo. Oltre alla salutare denuncia di sprechi intollerabili, la strana stagione delle crociate contro i privilegi della “casta” ha prodotto il disastro definitivo del tecno-governo “nominato” dalla Troika. A conti fatti, stanno letteralmente “smontando” lo Stato, costantemente sotto ricatto finanziario a partire dall’adesione all’Eurozona. Ora siamo alla “terza fase” dell’austerità, quella senza ritorno: devastazione dell’economianazionale e, naturalmente, privatizzazione lucrosa dei servizi pubblici, a danno dei cittadini.
 
La crescita del precariato nella pubblica amministrazione, e in particolare nei settori sensibili del welfare, cioè scuola e sanità, secondo Roberto Prodi: il primo a mettere in crisi in pubblico impiegoCiccarelli, analista di “Micromega”, è avvenuta proprio negli anni in cui iniziava la campagna mediatica anti-casta. Risultato: l’espulsione di oltre 200.000 persone dal sistema: «Il blocco del turnover non permetterà l’assunzione di nuovo personale, compresi i precari che attendono nel limbo una stabilizzazione impossibile». La virulenta campagna anti-casta ha funzionato come specchietto per le allodole: «Ha nascosto il processo di ridimensionamento del lavoro pubblico, in particolare nei settori che assicurano la riproduzione intellettuale e la cura della persona», rendendo proibitivo l’accesso al lavoro «in un mercato che è stato spogliato di ogni regola: a partire dallo Stato, il più grande sfruttatore di precari».
Contrariamente a una delle leggende diffuse dai sostenitori neoliberisti dello “Stato minimo”, continua Ciccarelli, i numeri dimostrano che l’Italia è sotto la media Ocse per numero di occupati nella pubblica amministrazione: i nostri dipendenti pubblici sono meno di quelli francesi e addirittura inferiori a quelli dei paesi anglosassoni, Usa e Gran Bretagna. Sotto di noi ci sono solo i “Piigs” Spagna e Portogallo e il nuovo “faro”, la Germania: ma niente paura, «l’Italia la raggiungerà presto, anche grazie al rinvio dei pensionamenti voluti dalla riforma Fornero, al blocco delle nuove assunzioni e al mancato rinnovo degli interinali, tempi determinati e flessibili, già in atto da tempo». Secondo la Ragioneria generale dello Stato sono diminuiti di oltre il 26% negli ultimi 5 anni. Per l’Aran, l’agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni, il calo evidenziato nel 2012 (2,3%) continuerà Tremonti e Brunettaanche nel terribile 2013. «Il risparmio sugli stipendi sarà notevole: nel 2011 la spesa è stata di 170 miliardi (-1,6% sul 2010). Nel 2012 è calata a 165,36 miliardi (-2,3%)».
Peggio che andar di notte anche nelle retribuzioni: lo Stato italiano viaggia a ritroso nel tempo, tanto che oggi è tornato ai livelli del 1979 e, purtroppo, non si fermerà. I settori dove i tagli si sono fatti sentire di più, continua Ciccarelli, sono quelli che garantiscono il welfare, scuola e sanità, e poi gli enti locali e i ministeri. «Il processo è iniziato con l’ultimo governo Prodi, ma l’onda si è ingrossata rovesciando qualsiasi cosa davanti a sé quando Giulio Tremonti è tornato ad occupare la scrivania di Quintino Sella al ministero dell’Economia, spalleggiato da Renato Brunetta alla funzione pubblica e da Maria Stella Gelmini all’istruzione». Condizioni che hanno posto le basi per i tagli del futuro: nel mirino la Lombardia (dove lavora il 25% dei dipendenti pubblici), il Trentino Gelminie il Lazio con il 19% e il 18% di dipendenti in eccesso. In Calabria gli uffici sono invece sotto organico del 23%.
«Una controprova che l’austerità di Stato continuerà la offre il “rapporto Giarda” sulla spending review», avverte Ciccarelli: «Ci attendono nuovi tagli da 135,6 miliardi di euro sui beni e i servizi, 122,1 miliardi di retribuzioni nel pubblico, e un altro 5,2% a scuola e università che dal 2009 hanno già perso quasi 10 miliardi di euro». Inoltre sono previstitagli del 33,1% alla spesa sanitaria, oltre a un’altra sforbiciata del 24,1% agli enti locali, già taglieggiati dal patto di stabilità interno. Che fine fanno queste risorse finanziarie? Dovrebbero “ripianare il debito”, che però è aumentato nell’ultimo anno di 19 miliardi. «Questa è la regola dell’austerità: più tagli il debito (Monti l’ha fatto per 21 miliardi in 400 giorni), più il debito cresce a causa degli interessi pagati dallo Stato, mentre l’“efficienza” della spesa pubblica tagliata non migliora, deprimendo gli stipendi dei dipendenti (fermi al 2000 e in diminuzione dello 0,8% rispetto al 2011 e di un altro 0,5 e l’1% nel 2012)». Inutile girarci attorno: «L’austerità è un circolo vizioso, anche se c’è chi ancora pensa di reinvestire i “risparmi” fatti sui ministeri e gli enti locali per finanziare il debito che la pubblica amministrazione ha con le imprese».
Nel 2011, i precari della scuola italiana – docenti e impiegati – erano oltre 300.000, un esercito che rappresenta il 46% dei precari nel pubblico impiego. Dall’inizio della cura da cavallo imposta dalla coppia Tremonti-Gelmini nel 2008, i dati dell’agenzia Aran dimostrano che il personale nella scuola è diminuito a poco più di un milione di persone, grazie al taglio di oltre 150.000 addetti, pre-pensionati. Altra voce drammatica del regime di austerity, la sanità, dove lo Stato fra il 2008 e il 2011 ha tagliato quasi 15.000 dipendenti. Nel 2011, ricorda “Micromega” citando i dati diffusi dall’Aran, la spesa per il personale della scuola superava quello della sanità per solo mezzo punto percentuale, il minimo mai raggiunto in precedenza; nel 2012 la spesa della sanità avrebbe superato quella per la scuola, ma sarà un primato di breve durata: per la sanità, infatti, la famigerata “spending Piero Giardareview” prevede un “risparmio” addirittura del 32,7%, falciando innanzitutto i lavoratori precari.
Obiettivo finale del maxi-taglio dello Stato: la privatizzazione dei servizi. Lo si intuisce analizzando il Def, il Documento di Economia e Finanza approvato ad aprile 2013 dal governo Monti, che include un capitolo dedicato al Pnr, Piano Nazionale delle Riforme. «Più che alle cifre sulla “crescita” di un’economia in recessione tecnica da almeno due anni», osserva Ciccarelli, il documento esibisce «numeri scritti sull’acqua, come ad esempio l’aumento dell’1,3% del Pil nel 2014». Molto più interessante – e drammaticamente attendibile – l’annuncio delle cosiddette “riforme” che i tecnocrati insediati a Palazzo Chigi da Napolitano e Draghi lasciano in eredità al prossimo governo. Riforme “strutturali” che, ovviamente, «dovranno essere rispettate se l’Italia vuole mantenere il suo buon nome nel salotto europeo dell’austerità, e non essere considerata uno “Stato fallito”, cioè quello che è oggi».
In quello che Monti ha considerato solo un «work in progress», esistono in realtà tutte le decisioni prese nel “rapporto Giarda” sulla “spending review”: entro il 2016, spiega Ciccarelli, bisogna recuperare fino a 15 miliardi di spesa pubblica. «Questo significa tagliare il pubblico impiego tra i 2 e i 5 miliardi di euro e dismettere almeno 30 miliardi di immobili pubblici, pari all’1% del Pil». Sono i “famosi” 45 miliardi di euro da destinare all’ammortamento del debito sovrano che, secondo il Def, raggiungerà quest’anno il record del 130,4% e diminuirà entro il 2017 al 117%. «Una quota gradita alla Troika che sorveglia l’Italia». Le prime due fasi della “spending review”, si legge sempre nel Def, garantiranno 13 miliardi di “risparmi” entro il 2015. Ma bisogna continuare, altrimenti si ritorna nel “baratro”. Il Pnr stabilisce la regola d’oro che i prossimi interventi dovranno rispettare: «Prime vengono le città metropolitane, poi il taglio delle Enrico Bondi e Mario MontiProvincie che il governo non è riuscito ad imporre – nonostante la retorica del “fate presto!”».
In realtà, aggiunge Ciccarelli, la tosatura di grandi città e Province è solo una goccia nell’oceano dell’austerità. Perché poi viene il piatto forte, anzi fortissimo: «Bisogna tagliare su tutte le amministrazioni locali, già taglieggiate dal “patto di stabilità” interno». Quindi: tagliare i “rami secchi” dei ministeri e degli enti pubblici: «Si preparino gli enti di ricerca, ad esempio». Si annuncia già una stretta sulla spesa per beni e servizi, ma soprattutto un taglio al pubblico impiego. Tra pensionamenti ordinari e in deroga, part-time, mobilità volontaria e obbligatoria di due anni (dopo c’è il licenziamento) Monti prevede di “risparmiare” l’1% della spesa nel 2014 per poi tornare a salire dell’1% dal 2015, ma senza più assumere nessuno. Poi un memoir sull’Imu, già oggetto di contesa elettorale tra Monti e Berlusconi. «L’avvertimento al prossimo governo è chiaro: se non sarà riconfermata la tassa sulla prima casa fino al 2017, saranno necessarie due finanziarie straordinarie da 3,3 miliardi nel 2015, 6,9 nel 2016, 10,7 nel 2017». Dulcis in fundo: «Per rispettare l’austerità saranno necessarie nuove privatizzazioni».

Alto rischio: il bunker dei partiti e lo spettro della violenza


Che la situazione sia ormai esplosiva – sul piano civile, istituzionale, economico e ambientale – l’hanno compreso un po’ tutti, ad eccezione dei soliti noti che, in queste ore, si preparano con il sostegno attivo di Napolitano a formare un governo di larghe intese. Insomma, la rabbia cresce un po’ ovunque e Grillo, in varie occasioni, ha fatto bene a ricordare che l’entrata in politica del “Movimento 5 Stelle” ha permesso di canalizzare questa energia potenzialmente distruttiva in un progetto pacifico rispettoso della Costituzione. Il fatto stesso di aver indirizzato il malcontento e il malessere popolare verso il Parlamento a qualcuno non sembra così utile. Un articolo di Valerio Lo Monaco esprime bene la difficoltà dei critici del sistema ad integrare emozioni e prospettive di cambiamento conservando un minimo di buon senso.
Il M5S è, a ben vedere, sempre più preso tra due fuochi: quello dei moderati e quello degli antagonisti duri e puri. Ai primi Grillo e i pentastellati fanno Grillopaura per le intemperanze linguistiche e lo stile autoritario/populista adottato nella comunicazione con i diversi interlocutori; ai secondi danno fastidio perché rischiano di impedire una mobilitazione permanente che, fuori dalle istituzioni, dovrebbe scuotere ilPotere e liberarci tutti dalla vana pretesa di modificare gli equilibri entrando nelle istituzioni e rispettandone le regole. Ecco il bivio fasullo che l’Italia dei conformisti e dei ribelli (fratelli gemelli separati alla nascita) pone dinnanzi al MoVimento, con lo scopo – forse non pienamente consapevole – di ingannarlo e farlo naufragare prima di intraprendere un riformismo radicale delle attuali condizioni politiche.
Dei primi non convince affatto la tendenza a trascurare il fenomeno genuinamente democratico che ha condotto otto milioni di italiani a votare per il M5S. Sembrerebbe dunque che questi cittadini siano stati ipnotizzati dal comico genovese e resi gradualmente inabili al ragionamento logico. Se ciò fosse vero dovremmo chiederci ancor prima quale misteriosa patologia si sia impossessata, negli ultimi vent’anni, dell’elettorato di centro-destra e centro-sinistra. Invece di addentrarci in questa inutile ispezione, crediamo sia più utile affermare che, oggi, chiunque si ritenga un vero democratico dovrebbe avere a cuore l’evoluzione del M5S e contribuire in prima persona (anche con tutti gli strumenti della critica) a rendere il MoVimento più coerente e più capace di mantenere il timone in mezzo alla tempesta. Nei secondi lascia attonito il desiderio frustrato di far saltare l’intero meccanismo di sfruttamento e ingiustizia in cui viviamo, senza considerare minimamente la vita concreta degli individui e gli effetti che su di essa sortirebbe una rabbia esplosiva, priva di mediazione politica e culturale, black blocnonché facile preda di chi dispone del potere repressivo necessario per riportare i trasgressori a più miti consigli.
Queste vecchie idee che inneggiano, con un certo entusiasmo adolescenziale, a sollevarsi definitivamente contro il nemico, costi quello che costi, hanno inoltre il difetto storicamente acclarato di allontanare per sempre le persone ragionevoli e di attrarre i soggetti più disturbati che altrove non hanno trovato spazio per sfogare il loro malcontento. Posizioni così miopi rappresentano, per quanto riguarda la psiche collettiva, la copia fedele di due atteggiamenti che la psiche individuale mette in campo quando non riesce a fronteggiare livelli troppo alti di sofferenza: 1) timore di dialogare con l’Ombra (depositaria dei vissuti di rabbia, insoddisfazione e disagio) e di riconoscerla come appartenente all’interezza del Sé; 2) identificazione totale con l’Ombra stessa, fino alla perdita del controllo cosciente sugli eventi e sulle loro conseguenze.
Ebbene, a nostro avviso, il “Movimento 5 Stelle” è oggi il tentativo più notevole di riconoscere i contenuti inconsci dell’Ombra sociale e di costruire un ponte – simbolico, culturale e politico – per tramutare il malessere diffuso in progetto e proposta di cambiamento. Il M5S, forse senza saperlo, ha bisogno di essere aiutato a non perdere la strada maestra, tanto più nei mesi che verranno, mesi nei quali il bivio terribile della passiva accettazione dell’esistente e della violenza di piazza potrebbe ripresentarsi come finta scelta risolutiva per milioni di italiani.
(Paolo Bartolini, “L’Ombra della politica ai tempi del M5S e di Napolitano-bis”, da “Megachip” del 24 aprile 2013).

lunedì 29 aprile 2013

Il “folle” sparatore di Roma e i cannibali della disperazione


Mezzogiorno di fuoco a Palazzo Chigi: due carabinieri feriti, uno in modo grave, proprio nel momento in cui il nuovo governo al Quirinale giura fedeltà alla Costituzione. Il gesto eclatante e isolato di un disoccupato stanco della vita e sommerso dai debiti, a cui manca solo un’ultima pallottola per darsi il colpo di grazia? «I piccoli gnomi bipartisan, gli insignificanti uscieri di palazzo, i falchi e le anatre Pd-Pdl gareggiano nell’additare, senza fare nomi sia chiaro, il movimento di Beppe Grillo quale mandante indiretto, o quantomeno responsabile morale, del gesto disperato di Luigi Preiti, un “calabrese” di Rosarno (fosse stato un lombardo o un veneto la provenienza regionale non sarebbe stata specificata)», protesta Anna Lami su “Megachip”. «Ecco, è colpa di Beppe Grillo. Se Beppe Grillo la smettesse di ribadire quello che pensano un po’ tutti, ossia che abbiamo una classe politica meschina – dato di fatto di reale larghissima intesa nazionale – i ministri del governo Letta-Napolitano potrebbero fare le foto ricordo in tutta tranquillità».
«Bisognerebbe fare un lungo respiro e riordinare il pensiero prima di commentare i fatti», fa eco Antonello Caporale sul “Fatto Quotidiano”, che La pistola di Luigi Preiticonsiglia di «avere la prudenza di indicare le circostanze conosciute e finora accertate senza agevolare il galoppo della fantasia». Lo sparatore? Un uomo disperato, senza più lavoro né famiglia, disoccupato e divorziato. Ha sparato proprio mentre il nuovo governo giurava: «Non sappiamo se la coincidenza, così tragica e suggestiva, sia stata voluta». Quel che è certo, continua Caporale, è che «la connessione dei due momenti» ha provocato un’ondata di reazioni sbagliate, con «tesi ardite o ridicole». “Chi semina odio…” è stato il concetto più banale e più diffuso. «Subito dopo si è passati alla ricerca delle responsabilità, a chi toccasse portare la croce: se alla Fornero, da oggi ex ministro, o a Enrico Letta, da questi minuti nuovo premier, oppure a Beppe Grillo, fomentatore di odio, o ancora ai critici delle larghe intese, aizzatori di violenza». Un attentato come questo, scrive Paolo Becchi sul blog di Grillo, finisce per essere cinicamente funzionale, perché ricompatta tutti «con il L'arresto dell'attentatoresolito vecchio cliché: uniti contro la violenza e, al contempo, uniti contro chi semina la violenza».
La politica è chiamata a portare la responsabilità delle sue azioni, con misure anti-crisi efficaci e socialmente sostenibili, e non ad affogare in un bla-bla, aggiunge Caporale: «In questo tempo di pensiero unico, le larghe intese non autorizzano alle larghe scemenze». Per cui: «Parlare di meno, e possibilmente cum grano salis». Intanto, la tesi della follia dello sparatore diventa buona per negare l’evidenza, aggiunge Anna Lami: «Non si può proprio dire, semplicemente, che il “folle” è un uomo distrutto da quella crisi economica che ha portato il tasso di disoccupazione a raddoppiare in cinque anni», così come è «profondamente ipocrita nascondere che, con l’intensificarsi a passo spedito delle politiche di austerità e macelleria sociale, aumenteranno i disperati». I suicidi per motivi economici già non si contano più, aggiunge Lami, «e temiamo che in futuro potranno apparire anche altri “squilibrati” emulatori di Luigi». Così, potrebbe suonare «sempre più patetico» il repertorio di moniti «della classe politica di zombie che ci ritroviamo», perché «il primo e più feroce squilibrato che ogni giorno ferisce, uccide ed arma la mano dei Luigi di turno» è proprio «quello stesso sistema economico» che ci sta riducendo «in miseria e disperazione».

Trattativa, distrutte le intercettazioni Napolitano-Mancino



Il gip di Palermo, Riccardo Ricciardi, ha distrutto le conversazioni nel carcere dell'Ucciardone, dove erano conservati i file. Il via libera era stato dato dalla Cassazione, che ha ritenuto "inammissibile" la richiesta di Massimo Ciancimino di ascoltare le telefonate

Giorgio Napolitano
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La distruzione dei file audio è avvenuta nel carcere Ucciardone, dove si trova il server in cui i file erano conservati. Alle operazioni ha partecipato anche il tecnico della Rcs, la società che gestisce gli impianti di intercettazioni per conto della Procura di Palermo. “Le registrazioni  hanno costituito un vulnus costituzionalmente rilevante” e per questo devono essere distrutte “con procedura camerale”, senza contraddittorio tra le parti, si legge nelle motivazioni della sentenza dellaCassazione, che aveva dato il via libera al macero, respingendo il ricorso di Massimo Ciancimino
Quella delle intercettazioni tra il Colle e Mancino è una vicenda lunga, che ha visto numerose tappe. Le telefonate risalgono infatti a fine 2011, ma la storia è divenuta pubblica solo nel giugno scorso. Da lì il conflitto di attribuzione sollevato dal Quirinale nei confronti della Procura di Palermo, poi il pronunciamento della Corte costituzionale a dicembre e infine la richiesta dei pm di Palermo al gip di distruggere le telefonate. Ecco però poi  arrivare il ricorso di Massimo Ciancimino, che in quanto parte in causa ha chiesto, in virtù del diritto i difesa, di poter ascoltare le conversazioni. Richiesta ritenuta “inammissibile” dalla Corte di Cassazione, che ha dato quindi ilvia libera alla distruzione.  
Il telefono sotto controllo su mandato degli inquirenti era quello di Mancino, in quella fase indagato e oggi imputato di falsa testimonianza: secondo i pm, l’ex ministro, insediatosi al Viminale il primo luglio 1992, sapeva della trattativa e avrebbe mentito sui rapporti tra pezzi dello Stato e pezzi di Cosa Nostra intercorsi nei primi anni ’90. Per lui e per altri undici indagati i pm hanno chiesto il rinvio a giudizio il 24 luglio scorso e l’udienza preliminare è in corso. Mancino, preoccupato per l’inchiesta che lo riguardava, ha compiuto diverse diverse telefonate contattando anche lo stesso Napolitano. Il Capo dello Stato ha ritenuto lese le proprie prerogative e laConsulta gli ha dato ragione.

BAGNAI  

Esclusiva – Intervista all’economista Alberto Bagnai – Ecco perche’ l’Euro e’ insostenibile (1/3)

Di seguito l’intervista al Professor Alberto Bagnai, Professore associato di Politica economica, Facoltà di Economia, Uni. G.D’Annunzio, Pescara. Qui il CV del professore (http://www.bagnai.org/ ).
bagnai
D – Professore, sono note le sue tesi sull’Euro; perche’ questa crisi in Europa?
R – Non per fare il “precisino”, ma vorrei chiarire subito che quelle che in Italia sono indicate come le “mie” tesi sull’euro in realtà di mio hanno ben poco. Ci tengo sia per onestà intellettuale (non sarebbe bello attribuirsi idee altrui), sia per far capire quanto sia indietro il dibattito in Italia (dove tesi comunemente accettate all’estero ancora sembrano rivoluzionarie).
L’insostenibilità di una moneta unica in Europa era un fatto ben noto alla scienza economica e agli stessi politici che hanno promosso il progetto di unione monetaria, come oggi vede e dichiara perfino Luigi Zingales, uno degli araldi dell’ortodossia economica italiana. Sono stati del resto i politici stessi a dire che l’euro sarebbe servito a governare i popoli europei a colpi di crisi. Lo documento nel libro e nel mio blog, riportando le tante dichiarazioni pubbliche di Prodi, Monti, Padoa Schioppa, Attali, Juncker, ecc. Non è una sorpresa, non c’è nulla di originale, né di complottistico.
Il problema principale è che adottando un cambio fisso, un paese si priva di un normale meccanismo di risposta a shock negativi provenienti dall’esterno: la possibilità di aggiustare il valore della propria valuta alle mutate condizioni di mercato. Non c’è nulla di scandaloso né di immorale nel fatto che il prezzo di una valuta segua la legge della domanda e dell’offerta. Se glielo si impedisce, si crea una tensione che fatalmente si scarica sul mercato del lavoro. Lo dice benissimo Vittorio Da Rold sul Sole24Ore: in caso di problemi “o si svaluta la moneta (ma nell’euro non si può più) o si svaluta il salario”. Il problema è che la svalutazione (cioè il taglio) del salario, quella che oggi chiamiamo “svalutazione interna”, è un processo doloroso, lento, e soprattutto inefficace. Infatti, il taglio dei salari ha lo scopo di intercettare domanda estera offrendo prodotti a prezzi più contenuti, ma al tempo stesso distrugge la domanda interna.
La svalutazione del cambio, invece, permette un recupero di competitività più rapido. Basta confrontare i risultati conseguiti dalla Lettonia (che ha seguito la strada della svalutazione interna, massacrando la propria economia, come ricorda Mario Seminerio, altro economista ortodosso e pro-euro), e dalla Polonia, che invece dopo il crack Lehman del settembre 2008 ha lasciato svalutare lo zloty di quasi il 30%, risultando l’unico paese dell’Unione Europea con un tasso di crescita positivo nel 2009 (+1.6%). E notate che, una volta di più, questo risultato è stato ottenuto senza particolari costi in termini d’inflazione, che anzi in Polonia è scesa dal 4.2% al 3.4% fra 2008 e 2009, come ricordano Kawalec e Pytlarczyk.
Anche qui non c’è nulla di nuovo: nel mio ultimo libro documento svariati casi del genere. Il terrore dell’inflazione in caso di sganciamento non ha alcuna base storica né scientifica. Rimane allora la domanda: ma se rinunciare alla flessibilità del cambio fa tanti danni, impedendo di reagire rapidamente a una recessione, perché si sceglie questa strada palesemente sbagliata?
La risposta più plausibile a questa domanda, a mio avviso, è stata data da Roberto Frenkel e dai suoi coautori, partendo dall’analisi delle crisi dei paesi emergenti, fra i quali l’Argentina.
D – Si riferisce al “ciclo di Frenkel”, descritto nel suo libro recentemente pubblicato Il Tramonto dell’Euro (http://www.amazon.it/Il-tramonto-delleuro-Alberto-Bagnai/dp/8897949282 )? Questo ciclo passa per le sette fasi che qui riassumo:
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Puo’ spiegarci brevemente questo “Romanzo di centro e periferia” e dirci a che punto siamo?
R – È un dato di fatto: tutte le crisi finanziarie degli ultimi trent’anni sono state precedute da un tentativo di fissazione del cambio fra un paese più forte (il “centro”) e un paese più debole (la “periferia”). Il vantaggio per il centro è ovvio: può prestare soldi alla periferia, lucrando interessi generalmente più alti che a casa propria, senza incorrere nel rischio di cambio. Anche la periferia inizialmente trae vantaggi: diventando “credibile”, accede a credito estero relativamente a buon mercato, che potrebbe usare per promuovere il proprio sviluppo. Il gioco quindi potrebbe essere a somma positiva, ma il problema è che viene sempre spinto troppo oltre.
Da un lato i creditori del centro prestano troppo, in modo irresponsabile, sapendo che alla fine qualcuno pagherà (o i debitori, o i contribuenti). Dall’altro, i debitori della periferia si indebitano troppo, e non sempre utilizzano i capitali presi in prestito per investimenti produttivi (infrastrutture, ricerca, ecc.). Attenzione, però: in un sistema capitalistico l’onere di verificare che il progetto finanziato sia valido incombe al creditore. Quando chiedete un prestito, la banca valuta il vostro merito di credito, no? Le banche del centro, però, evitano di farlo, e un motivo c’è. A voi sembra logico che il centro finanzi la periferia per renderla più forte, cioè per avere un concorrente temibile in più? Non lo è molto, vero? La periferia viene finanziata perché i suoi cittadini acquistino prodotti del centro, non perché si dotino di infrastrutture efficienti, che li mettano in concorrenza col centro stesso.
Insomma, la periferia, indebitandosi, diventa la “locomotiva” del centro, del quale acquista i beni. Questo è un altro ovvio vantaggio per i capitalisti del centro, che affiancano profitti industriali a quelli finanziari. Ma anche i politici e i capitalisti della periferia qualche vantaggio lo traggono. Utilizzando il pretesto del vincolo esterno, del “ce lo chiede l’Europa”, riescono a far ingoiare ai propri cittadini delle politiche di smantellamento dei loro diritti e di compressione dei loro redditi che altrimenti non sarebbero politicamente sostenibili.
Il gioco si basa sul credito facile erogato dal Nord. Prima o poi si presenta un evento che, mettendo in difficoltà i debitori, rende palese a tutti che i debiti accumulati sono insostenibili, e inizia la crisi.
Nel caso dell’Eurozona, la crisi dei subprime e poi lo scandalo Lehmann hanno messo in grossa difficoltà le banche tedesche, imbottite di titoli tossici. Lo stato tedesco ne ha salvate alcune, come spiega Adriana Cerretelli sul Sole24Ore, poi, quando la situazione è diventata insostenibile, ha cominciato a fare la voce grossa coi paesi dell’Eurozona (non potendola fare con gli Stati Uniti).
Notate bene che fin qui si parla di debito privato: nella fase preparatoria della crisi, l’economia periferica gira a pieno regime, lo Stato incassa imposte, quindi il debito pubblico scende, come stava scendendo in Irlanda, Spagna e Italia (per fare tre esempi). Quando i mercati si innervosiscono, i governi adottano risposte recessive (austerità) e il debito pubblico esplode. Ora siamo lì, nella sesta fase del ciclo. La settima sarà, come sempre è stato, lo sganciamento della periferia dal centro, cioè, nel caso dell’Eurozona, la dissoluzione dell’euro.
D – Parlando di Europa, Euro e gestione del processo di integrazione e della Crisi, ci puo’ spiegare le “colpe” della Germania in questi 15 anni, e quelle dell’Italia?
R – Rifaccio il precisino: non mi piace parlare di “colpe” in economia, e non la metterei in termini di antagonismo fra “Germania” e “Italia”. Bisogna ricordare sempre che “Germania” e “Italia” non sono due personaggi (uno buono e uno cattivo, a scelta di chi legge), ma due insiemi composti da tanti attori economici e sociali, non tutti ugualmente informati, non tutti ugualmente razionali.
Andando nell’ordine che lei propone, sicuramente una certa leadership politica tedesca ha la responsabilità di aver badato agli interessi economici del proprio paese in modo egoistico e miope, violando l’obbligo di “stretto coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri” stabilito dall’art. 119 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea. Chi rinfaccia il fatto che “la Germania è stata più brava perché ha fatto prima le riforme” dimostra una totale ignoranza dei principi della costruzione europea. “Stretto coordinamento” significa che le riforme si sarebbero dovute decidere e attuare insieme. Invece non solo non è stato così, ma per sorpassare a destra l’Europa, il governo tedesco ha sfacciatamente violato il Trattato di Maastricht, come spiego nel mio blog. Questo perché la riforma del mercato del lavoro, che moderava i salari introducendo flessibilità (cioè precarietà), prevedeva in contropartita una serie di ammortizzatori sociali che gravavano e gravano sul bilancio pubblico tedesco. Il contenimento dei salari tedeschi (riconosciuto dai responsabili politici tedeschi), è stato insomma finanziato con spesa pubblica, con aiuti massicci alle imprese (sotto la forma indiretta di spesa sociale per integrare i salari dei lavoratori).
Mi sembra che nessuno comprenda che dovremmo essere in un’Unione per cooperare, non per competere. Tutti danno per scontato il contrario. Il comportamento del governo tedesco, che ha esasperato la dinamica centro/periferia in Europa, è stato deprecato per questo motivo da organizzazioni internazionali come l’Ufficio Internazionale del Lavoro delle Nazioni Unite (per citarne uno).
Il problema del modello mercantilista tedesco è che è di corto respiro. Non c’è nessuna particolare virtù nel contenere i salari, deprimendo la domanda interna, per vendere di più all’estero. Questa strategia è ingiusta e ottusa per due motivi. Il primo, è che le imprese tedesche sono diventate più competitive sostanzialmente perché i lavoratori tedeschi non hanno beneficiato della loro maggiore produttività (e infatti in Germania la disuguaglianza fra i redditi è aumentata, come ci ricorda l’Economist, al punto che il governo ha cercato di manipolare un recente rapporto sulla povertà). Ricordiamoci sempre che chi ci parla di una Germania “vincitrice” omette di ricordarci che in Germania il numero dei “perdenti” sta crescendo, e questo male comune non è un mezzo gaudio, ma una fonte di preoccupazione: ricordiamoci che il popolo tedesco reagisce con una certa veemenza alle crisi economiche.
Il secondo motivo è che se vuoi crescere sulla domanda altrui, perdi anche quando vinci. Guardate cosa sta succedendo. Nel 2012 la Germania ha avuto una crescita infima, circa la metà di quella prevista a inizio anno. Perché? Perché se cresci solo sulla domanda estera, di fatto impoverisci i tuoi partner commerciali, che devono indebitarsi per comprare i tuoi prodotti. Quando saltano per aria, ti trovi senza mercato di sbocco e smetti di crescere anche tu, che è esattamente quello che sta succedendo adesso alla Germania.
Guardi che questo fatto, ignorato da molti italiani, è perfettamente chiaro ai tedeschi meno ottusi. Le faccio due esempi: si ricorda di quando l’ex cancelliere Helmut Schmidt ha dichiarato che la politica condotta dalla Merkel non era molto intelligente? E le segnalo che alcuni economisti europei si sono recentemente riuniti a Bruxelles per presentare un manifesto di solidarietà europea, basato sull’ipotesi che la Germania accetti di sganciarsi dall’eurozona. Da chi era rappresentata la Germania? Da Hans-Olaf Henkel, già a capo della “Confindustria” tedesca. Non stiamo parlando di personaggi di secondo piano.
D – Secondo lei l’Italia dovrebbe uscire dall’Euro: crede che ce lo consentiranno? Come andrà a finire?
R – L’euro è insostenibile. Chi parla di salvarlo con “più Europa” vaneggia. In tutti i paesi membri, dall’Italia, alla Germania, all’Olanda, si stanno mettendo in discussione i meccanismi di trasferimento di reddito fra regioni che hanno finora garantito la coesione territoriale. In Italia c’è la Lega Nord, in Germania ci sono i politici bavaresi. E voi pensate che un bavarese, che è stufo di pagare per un sassone, voglia invece farlo per un calabrese?! Voi pensate che chi vuole “meno Germania” voglia “più Europa”? Potete scordarvelo!
Jacques Sapir ha calcolato che per tenere insieme i paesi dell’Eurozona occorrerebbero, in aggiunta ai trasferimenti già previsti dal bilancio della Commissione, almeno altri 257 miliardi di euro all’anno, sostanzialmente a carico della Germania. Questo è il costo economico del “più Europa”. Nessun politico può seriamente pensare di proporlo agli elettori. Paolo Manasse, economista ortodosso, giunge alle medesime conclusioni, perché non ce ne sono altre.
Quindi, inutile girarci intorno: come decine di altre unioni monetarie nell’ultimo secolo, anche l’Eurozona dovrà sciogliersi. L’Italia, come paese sovrano (fino a prova contraria) non deve chiedere il permesso a nessuno, tanto più che, come ho ricordato, altri paesi hanno pesantemente violato i trattati europei, ponendo le basi di questa crisi.
Gli studi che circolano evidenziano tutti, unanimemente, che l’Italia trarrebbe il massimo vantaggio (o il minimo danno) da uno scioglimento dell’Eurozona: i vostri lettori sicuramente conoscono lo studio di Bank of America che a luglio scorso ha portato questo risultato all’attenzione del grande pubblico.
Il nostro problema è quello di essere in balìa di una classe politica che ha sistematicamente mentito sulla moneta unica, un vero Partito Unico Dell’Euro che dispone di tutti i mezzi di informazione e li usa in modo terroristico. In questo senso ripongo più fiducia nella Germania. Quando alla leadership tedesca sarà chiaro che sta segando il ramo dov’è seduta, le sarà facile tirarsi fuori dall’Eurozona: basterà continuare a mentire dicendo (come ha fatto per anni) che la crisi è colpa dei pigri del Sud (e non delle banche del Nord che hanno alimentato squilibri per sostenere le industrie del Nord). Gli elettori del Nord prima o poi reagiranno chiedendo la secessione. Il paradosso è che la secessione converrebbe di più agli elettori del Sud, ma a questi non viene nemmeno consentito di discuterne serenamente!
D – Professore, perche’ in Europa e nel mondo sono cosi’ importanti parametri come l’ammontare del Debito e Deficit Pubblico, mentre sono assai meno noti parametri come la Bilancia dei Pagamenti e la Posizione Netta sull’Estero?
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R – L’attenzione si focalizza sul debito pubblico per motivi puramente ideologici. Ormai è appurato che le crisi finanziarie degli ultimi trent’anni sono state causate da elevato indebitamento privato (con l’estero), in presenza di debito pubblico stabile o decrescente. Tutti lo sanno. È quello che gli economisti chiamano un “fatto stilizzato”. Perfino il Trattato di Maastricht, come molti ignorano, prevedeva che l’indebitamento estero dei paesi fosse tenuto sotto controllo, come quello pubblico. Ma per quello pubblico si è stabilito un parametro (il 3% del Pil), mentre per quello estero no. Perché? Per due motivi. Primo, perché limitare l’indebitamento pubblico significa ridurre il peso del “nemico” ideologico, cioè dello Stato, mentre limitare l’indebitamento estero, che è per lo più privato, significherebbe limitare l’azione dei “mercati”. Secondo, perché in un’Europa costruita e gestita dai “vasi di ferro”, il debito estero dei vasi di coccio tornava utile (visto che, come abbiamo detto e ripetuto, si convertiva in acquisti di beni dei paesi forti).
Che l’indebitamento estero vada limitato non è l’idea di uno strampalato professore di provincia. Dopo aver usato il credito/debito estero come una clava per sbriciolare i paesi del Sud, la Commissione Europea, candidamente, ammette che c’è un problema, e nella sua “procedura contro gli squilibri macroeconomici”, promulgata a fine 2011, stabilisce limiti proprio per le variabili delle quali gli economisti riconoscono da tempo l’importanza: il debito privato, il debito estero, il deficit estero.
Naturalmente la stalla si chiude quando i buoi sono scappati, semplicemente perché le chiavi della stalla sono state date ai ladri di bestiame: le grandi banche del Nord. Ricapitolando: che il debito estero sia più pericoloso di quello pubblico lo sanno e lo sapevano tutti: economisti, politici, e tecnici della commissione (che infatti pongono sul debito estero un vincolo quantitativo più stringente che su quello pubblico). Non se ne parla nei media per motivi ideologici e di convenienza: se la gente capisse che il problema sono gli squilibri esteri, capirebbe che il problema è l’euro, e per la finanza del Nord finirebbe la pacchia.