Con il governo Letta, quella sull’austerità è la ‘guerra precedente’
Non è corretto sostenere che i maggiori partiti italiani abbiano cambiato posizione sull’austerità (ora la parola d’ordine è: andare in Europa a contrattare una strategia diversa) a seguito del voto. Già durante la campagna elettorale, Berlusconi ha portato il PDL su posizioni più o meno keynesiane, arrivando a citare Krugman direttamente o implicitamente. Lo stesso Monti, dovendo perfino correre come tutti, ha dato una svolta netta al suo movimento: prima sostenendo che “oltre” al rigore serve la crescita, poi più esplicitamente sostenendo – ancora in carica come Presidente del Consiglio – che vi sarebbero stati margini per un sollievo dell’imposizione fiscale. A prima vista si potrebbe pensare che il richiamo alla crescita nonostante il rigore possa essere un riferimento alle presunte doti salvifiche delle “riforme strutturali”. Non è così: il DEF preparato per il 2013 prevede un deficit al 2,9%. Fosse solo perché le stime sulla crescita del PIL sono eccessivamente ottimistiche il deficit sarà, quantomenoex-post, superiore al famigerato parametro di Maastricht.
Anche a livello europeo, il Consiglio di marzo 2013 ha richiamato l’art. 126 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, che indica che prima di proporre l’apertura di una procedura di deficit eccessivo la “Commissione tiene conto anche dell’eventuale differenza tra il disavanzo pubblico e la spesa pubblica per gli investimenti”. Non è chiaro come questa ‘mini golden rule’ si concili con il cosiddetto Fiscal Compact (il Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria) che, essendo un Trattato internazionale – nemmeno ratificato da tutti gli Stati membri – non fa parte direttamente del diritto europeo e avrebbe forse un carattere cogente autonomo. Ad ogni modo, le istituzioni comunitarie hanno già mostrato come quando vi è la volontà politica le norme, più che applicarsi, si interpretano.
Tale volontà sembra in rapida costituzione se persino la Commissione, che aveva criticato il Fondo Monetario Internazionale difendendo l’austerità, ora si esprime per un “rallentamento della velocità” del risanamento fiscale: per bocca sia del presidente Barroso che del vice Olli Rehn. In seno al Consiglio Europeo, sembra che ora Hollande e Rajoy possano contare anche sul sostegno belga, olandese e italiano: dei grandi paesi membri, manca solo la Germania (e, tra le istituzioni, la BCE).
La trasformazione di Monti (e di Letta) è sintomatica, e se i leaders europei dovessero correre in elezioni politiche, anziché essere nominati in rappresentanza dei propri paesi, vedremmo molta meno austerità in giro. Ma non è solo il fattore elettorale a contare: l’approccio austerità cum riforme strutturali, implicando riduzione o stagnazione dei consumi e della spesa pubblica, si basa necessariamente sulla crescita delle esportazioni (ché non si vede come e perché gli investimenti dovrebbero crescere, se tutte le altre fonti di domanda non crescono). Questo è ripetutamente riconosciuto da uno dei massimi esponenti di questo approccio, il membro tedesco del Comitato esecutivo della Banca Centrale Europea, Jörg Asmussen. Ma proprio la dinamica delle esportazioni (in Italia e negli altri PIGS) lascia per ora molto a desiderare. Da un lato la domanda mondiale è in rallentamento (anche per colpa proprio dell’Europa), dall’altro puntare sulla competitività di prezzo (cioè ridurre i costi, in primis del lavoro, per ridurre i prezzi) non sembra precisamente la strategia più adatta per i paesi avanzati, a fronte di paesi extra-europei che hanno costi irraggiungibilmente bassi per noi.
A livello europeo, il risultato più probabile, ma non scontato, è una diminuzione degli sforzi di riduzione dei debiti pubblici, senza sconfessare la strategia precedente, anzi, argomentando magari che solo ora sarebbe possibile, proprio perché negli anni passati si sono fatti sforzi ‘importanti’. Questo significherà maggiore enfasi sul tema delle riforme strutturali, che diverranno il vero campo di battaglia. E’ svolta parziale e insufficiente, certo, ma il solo cambio di governo italiano non può comportare molto di più (dato il nostro debito pubblico, siamo come obesi che dicono che il digiuno fa male: certo che fa male, ma difficilmente saremo molto ascoltati proprio noi).
In Italia, l’austerità viene quindi superata principalmente sulla base del neo-keynesismo, riscoprendo il ruolo della domanda aggregata nel determinare il reddito nazionale, e quindi le potenzialità dell’intervento pubblico nell’economia anzitutto proprio per sostenere la domanda. Può essere quindi letta come una ‘vittoria concentrica’, quantomeno culturale, dell’ala sinistra del PD, in questo capeggiata da Fassina, così come di Brunetta. E’ quindi ironico che il governo nascente veda invece il primato degli esponenti centristi dei due schieramenti. Il dibattito ora – soprattutto ma non solo tra destra e sinistra – è se è meglio stimolare l’economia mediante riduzioni delle imposte o incrementi della spesa pubblica.
Nella consultazione in streaming con i rappresentanti del MoVimento 5 Stelle, in vista della formazione del Governo, di fronte alla domanda se il suo futuro governo ritenesse opportuno ricontrattare il Fiscal Compact, Enrico Letta si è espresso in favore di un ‘growth compact’ che prevedesse una golden rule che scomputi dal calcolo del deficit le spese anche “per investimenti in capitale umano”. Date le dimensioni della spesa pubblica per l’istruzione in rapporto al PIL, una tale prospettiva sembra piuttosto inverosimile (e significherebbe il superamento di fatto perfino dei vincoli al deficit pubblico, in qualche misura). Ma comunque, Letta sembra disposto per il verso giusto.
Tutto bene dunque? Nient’affatto. Joan Robinson etichettò il neokeynesismo come ‘keynesismo bastardo’ perché di Keynes riprendeva i suggerimenti interventisti in tema di politica macroeconomica, ma ignorava i richiami alla necessità di cambiare l’analisi del mercato, che si continua ad assumere come un meccanismo efficiente, in grado di auto-equilibrarsi a parte alcune ‘frizioni’ o ‘rigidità’.
Oggi, questo approccio permette di rivalutare il ruolo dello Stato, ma sembra tuttora dedicare troppa poca attenzione a ciò che non va nel mercato.
Questa invece dovrebbe invece diventare ‘la guerra di quest’anno’ (parafrasando il detto che i generali combattono sempre la guerra precedente). Accenno ad alcuni temi che meritano ognuno una discussione approfondita, per dare un’idea dei problemi cui mi riferisco (l’ordine è casuale):
- le ‘banche zombie’ sono la causa prima del credit crunch, e il deleveraging(riduzione dell’indebitamento) nel settore finanziario, in primis bancario, è unaforte causa della recessione attuale, forse anche più rilevante delle politiche fiscali restrittive. Certamente, i due problemi sono legati a doppio filo, perché tra sofferenze nei bilanci delle banche e andamento dei titoli del debito pubblico il rapporto di causalità è bidirezionale. Serve quindi urgentemente un’unione bancaria che preveda soluzioni europee a problemi che i singoli Stati da soli non sembrano riuscire a risolvere.
- gli squilibri delle bilance dei pagamenti permarranno, con o senza golden rule. Occorre ribadire che da un punto di vista post-keynesiano è il debito estero ad essere problematico, non (generalmente) il debito pubblico. Perché gli Stati in deficit (i PIGS, poi GIPSI) possano ridurre il proprio debito estero, i paesi in surplus (in primis la Germania) devono accettare di veder ridurre la propria posizione esterna netta, ovvero devono presentare un deficit delle partite correnti quantomeno rispetto a questi Stati (il punto è un po’ tecnico, me ne scuso).
- le istituzioni europee e dell’area dell’euro continuano ad essere inappropriate, alimentando la speculazione contro i paesi periferici dell’euro, e in generale rallentando o impedendo una soluzione alla crisi. Non c’è solo un problema di democrazia ma anche di assenza di un soggetto pubblico che affianchi il mercato (ad esempio che finanzi la spesa in infrastrutture materiali e immateriali a livello europeo, che regoli e supervisioni l’economia in modo uniforme, ecc.), mancano gli strumenti che potrebbero fare dell’euro una valuta internazionale di riserva (ad es. gli eurobonds), va riformato il mandato della BCE (senza bisogno di cambiarne lo Statuto, peraltro).
- la regolazione della finanza (si pensi ai problemi di too-big-to-fail, i meccanismi di retribuzione dei managers, la regolazione dei derivati scambiati over-the-counter, solo per citare alcuni esempi) non è un problema moralistico ma economico: per ora, i paesi industrializzati stanno lentamente uscendo dalla crisi solo tramite la creazione di inflazione degli asset (leggi: bolle finanziarie). Non precisamente un modello di sviluppo sostenibile, ed è sbagliato l’approccio di chi guarda alla finanza al più come un’appendice dell’economia reale.
- il declino italiano esiste, non è solo una conseguenza della più recente crisi economica. E’ in primis un problema di mancata crescita della produttività, protrattosi per decenni ormai. Certamente, il primo motore della crescita della produttività sono gli investimenti, ma c’è anche una corresponsabilità delle politiche intraprese finora, che ad esempio hanno tentato di creare occupazione “per legge” tramite riforme del lavoro che hanno, sì, parzialmente ridotto la disoccupazione, ma al prezzo di ritardare ulteriormente il necessario cambiamento strutturale della nostra industria verso le produzioni a maggior valore aggiunto.
La posizione neokeynesiana (a tratti perfino statalista), se non si affianca ad una di maggiore regolazione del mercato, sia ancora largamente insufficiente per farci uscire dalla crisi.
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