MARE E PETROLIO, L'ITALIA SARÀ IL NUOVO TEXAS?
Dieci piattaforme che già estraggono oro nero. Ma anche 202 concessioni di coltivazione, 117 permessi di ricerca, 109 istanze di permesso di ricerca, 19 concessioni di coltivazione, 3 istanze di prospezione. Le associazioni ambientaliste dicono basta alle trivelle nelle nostre acque.
“Il petrolio dell'Italia è il turismo”. Nonostante sia una frase fatta piuttosto stantia, sembra ormai che non ci creda più nessuno, tanto che nelle aree marine a maggiore vocazione turistica del nostro Paese ora si progetta di andare a trivellare per ricercare proprio il petrolio.
Un vero anacronismo in un mondo che è cambiato, che sta abbandonando le fonti fossili, e dove la competitività dell'Italia non sta certo nel rincorrere il Texas, ma nel valorizzare il patrimonio storico artistico e ambientale.
Eppure, come ricorda il Wwf, in Italia si contano già, a mare e sulla terraferma, 202 concessioni di coltivazione, 117 permessi di ricerca, 109 istanze di permesso di ricerca, 19 concessioni di coltivazione, 3 istanze di prospezione.
Sono decine di migliaia i chilomeri quadri di aree marine oggetto di richieste delle compagnie petrolifere per le loro attività di ricerca o di coltivazione dei giacimenti concentrate nello Jonio, nell’Adriatico centro-meridionale e nel Canale di Sicilia. Progetti che se approvati aggiungerebbero decine di nuove trivelle alle 10 piattaforme che già oggi estraggono petrolio dai mari italiani.
L’Italia è una sorta di paradiso fiscale per i petrolieri che grazie a leggi compiacenti si vedono ridotti a nulla il rischio d’impresa. Una scelta di politica energetica, che non trova giustificazioni valide neanche dal punto di vista economico, viste le ridicole quantità di petrolio in gioco, e che rischia di compromettere per sempre il futuro delle popolazioni coinvolte da possibili incidenti che metterebbero in pericolo ambiente, turismo, pesca e salute.
Greenpeace, Legambiente e Wwf chiedono a gran voce al ministro dell’Ambiente Andrea Orlando di esprimersi contro questo rilancio della produzione nazionale di idrocarburi.
Un vero anacronismo in un mondo che è cambiato, che sta abbandonando le fonti fossili, e dove la competitività dell'Italia non sta certo nel rincorrere il Texas, ma nel valorizzare il patrimonio storico artistico e ambientale.
Eppure, come ricorda il Wwf, in Italia si contano già, a mare e sulla terraferma, 202 concessioni di coltivazione, 117 permessi di ricerca, 109 istanze di permesso di ricerca, 19 concessioni di coltivazione, 3 istanze di prospezione.
Sono decine di migliaia i chilomeri quadri di aree marine oggetto di richieste delle compagnie petrolifere per le loro attività di ricerca o di coltivazione dei giacimenti concentrate nello Jonio, nell’Adriatico centro-meridionale e nel Canale di Sicilia. Progetti che se approvati aggiungerebbero decine di nuove trivelle alle 10 piattaforme che già oggi estraggono petrolio dai mari italiani.
L’Italia è una sorta di paradiso fiscale per i petrolieri che grazie a leggi compiacenti si vedono ridotti a nulla il rischio d’impresa. Una scelta di politica energetica, che non trova giustificazioni valide neanche dal punto di vista economico, viste le ridicole quantità di petrolio in gioco, e che rischia di compromettere per sempre il futuro delle popolazioni coinvolte da possibili incidenti che metterebbero in pericolo ambiente, turismo, pesca e salute.
Greenpeace, Legambiente e Wwf chiedono a gran voce al ministro dell’Ambiente Andrea Orlando di esprimersi contro questo rilancio della produzione nazionale di idrocarburi.
«LO STATO VUOLE TRASFORMARE IL CANALE DI SICILIA IN UNA CORSA A OSTACOLI SOTTO IL SEGNO DEL PETROLIO»
In primavera, sulla nave di Greenpeace “Arctic Sunrise”, ormeggiata a Trapani, gli amministratori locali siciliani – assessore regionale all'ambiente in testa – erano stati chiari nello schierarsi a fianco dei pescatori artigianali per dire no alle trivellazioni, ma evidentemente non basta. Vengono presentate richieste di autorizzazione spesso con un semplice “copia e incolla”, senza nessun reale studio di fattibilità, come ha denunciato l'associazione ambientalista, esibendo le carte di un procedimento di “Via” (Valutazione di Impatto Ambientale) in provincia di Ragusa, dove veniva indicato Ancona come porto più vicino.
«Dove tutte le navi passano, dove tutti i pescatori pescano, nel cuore più prezioso del Canale di Sicilia, lo Stato Italiano vorrebbe trasformare il tragitto, da libero qual è, a una corsa ad ostacoli sotto il segno del petrolio», denuncia Marco Costantini, responsabile mare del Wwf Italia.
Altra area critica è il mar Jonio: cinquemila i chilometri quadrati di fondali sotto la minaccia delle trivelle. Sono attive 10 richieste per la ricerca di petrolio, di cui 8 sono in corso di Valutazione di Impatto Ambientale. Una è in fase di rigetto (si tratta della richiesta della NorthernPetroleum, che riguarda oltre 700 chilometri quadri al largo di Cirò Marina, mentre una è in fase decisoria, ovvero ha finito il suo iter ed è in attesa dei decreti autorizzativi (si tratta della richiesta di Apennine Energy per un’area a ridosso della costa tra le Marine di Sibari e Schiavonea).
«Dove tutte le navi passano, dove tutti i pescatori pescano, nel cuore più prezioso del Canale di Sicilia, lo Stato Italiano vorrebbe trasformare il tragitto, da libero qual è, a una corsa ad ostacoli sotto il segno del petrolio», denuncia Marco Costantini, responsabile mare del Wwf Italia.
Altra area critica è il mar Jonio: cinquemila i chilometri quadrati di fondali sotto la minaccia delle trivelle. Sono attive 10 richieste per la ricerca di petrolio, di cui 8 sono in corso di Valutazione di Impatto Ambientale. Una è in fase di rigetto (si tratta della richiesta della NorthernPetroleum, che riguarda oltre 700 chilometri quadri al largo di Cirò Marina, mentre una è in fase decisoria, ovvero ha finito il suo iter ed è in attesa dei decreti autorizzativi (si tratta della richiesta di Apennine Energy per un’area a ridosso della costa tra le Marine di Sibari e Schiavonea).
LA CORSA ALL'ORO NERO È RIPARTITA A TUTTA VELOCITÀ ANCHE NEL MAR IONIO
«Purtroppo, negli ultimi anni è ripartita a tutta velocità la corsa all’oro nero anche nel mar Ionio, soprattutto da quando è stato cancellato il divieto di ricerca ed estrazione di petrolio nel Golfo di Taranto, con un colpo di spugna normativo inserito nell’estate 2011 nel decreto di recepimento della direttiva sulla tutela penale dell’ambiente. Senza alcun pudore, si è utilizzato un provvedimento che avrebbe dovuto rafforzare le misure di tutela ambientale contro gli eco criminali per inserire un comma che in realtà ha riaperto alle attività di ricerca, prospezione ed estrazione di idrocarburi in tutto il Golfo di Taranto. Un comma assolutamente fuori tema che risponde unicamente agli interessi delle compagnie petrolifere», spiega Francesco Tarantini, presidente di Legambiente Puglia.
Governo e Parlamento possono fare qualcosa perchè la cartolina delle vacanze estive dei prossimi anni non sia macchiata dal petrolio: già abbiamo il relitto della Costa Concordia di fronte al Giglio a dimostrazione della fragilità dei nostri ecosistemi marini, e purtroppo negli ultimi mesi sono stati diversi i fenomeni di spiaggiamento o sversamento in mare di prodotti petroliferi, alle isole Egadi, a Gela, solo per citarne alcuni, e l’ultimo proprio in questi giorni dalla raffineria dell’Eni di Taranto.
Bisognerebbe iniziare col rivedere le scelte politiche in materia energetica dell’ex ministro dello sviluppo economico Corrado Passera, abrogando le norme pro-trivelle a partire dall’articolo 35 del decreto sviluppo approvato dal Governo Monti. Come sottilineano gli ambientalisti in coro, «vengono cedute migliaia di chilometri quadri di mare alle società petrolifere, in nome di una presunta indipendenza energetica che durerebbe appena sette settimane, stando ai consumi attuali e alla stima delle riserve accertate sotto il mare italiano. Di gran lunga migliore sarebbe invece il vantaggio economico, ambientale e occupazionale che il nostro Paese potrebbe ottenere indirizzando gli investimenti in campo energetico sull’efficienza e lo sviluppo delle energie rinnovabili»
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Governo e Parlamento possono fare qualcosa perchè la cartolina delle vacanze estive dei prossimi anni non sia macchiata dal petrolio: già abbiamo il relitto della Costa Concordia di fronte al Giglio a dimostrazione della fragilità dei nostri ecosistemi marini, e purtroppo negli ultimi mesi sono stati diversi i fenomeni di spiaggiamento o sversamento in mare di prodotti petroliferi, alle isole Egadi, a Gela, solo per citarne alcuni, e l’ultimo proprio in questi giorni dalla raffineria dell’Eni di Taranto.
Bisognerebbe iniziare col rivedere le scelte politiche in materia energetica dell’ex ministro dello sviluppo economico Corrado Passera, abrogando le norme pro-trivelle a partire dall’articolo 35 del decreto sviluppo approvato dal Governo Monti. Come sottilineano gli ambientalisti in coro, «vengono cedute migliaia di chilometri quadri di mare alle società petrolifere, in nome di una presunta indipendenza energetica che durerebbe appena sette settimane, stando ai consumi attuali e alla stima delle riserve accertate sotto il mare italiano. Di gran lunga migliore sarebbe invece il vantaggio economico, ambientale e occupazionale che il nostro Paese potrebbe ottenere indirizzando gli investimenti in campo energetico sull’efficienza e lo sviluppo delle energie rinnovabili»
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