ECONOMIX – Recensione del libro di M. Goodwin
M. Goodwin (illustrazioni di D. E. Burr ), Economix, Milano, Gribaudo-Feltrinelli, 2013. € 16.90
Economix non è un saggio propriamente detto e M. Goodwin non è un economista. Eppure Economix rende alla comprensione dell’economia, dei suoi processi e dei suoi reali meccanismi, un servizio molto maggiore di tanti saggi scritti da veri economisti. Il libro è una storia a fumetti che sviluppa 291 pagine, leggibili in un week end, seguendo un triplice filo che raramente s’incontra in opere più accreditate. Il primo filo è la semplice storia dell’economia occidentale moderna, cosa successe, quando e perché. Il secondo filo è tessuto col primo ed è il contraltare teorico che qualche volta anticipa i fatti, più speso li accompagna, una storia del pensiero economico. Il terzo filo che si lega a gli altri due è lastoria politica che si dipana tra i fatti storici e le teorie economiche di supporto. Intorno a questo tessuto principale, concorrono squarci di politica estera, scienze ambientali, psicologia e storia militare.
Goodwin è un ricercatore free-lance che si è portato qualche decina di libri in un posto isolato, li ha letti e studiati ed ha ricostruito quanto letto e studiato al servizio di quei lettori che da una parte sarebbero anche incuriositi dal fatto economico tanto importante quanto sfuggente, dall’altra ne sono repulsi dalle alte ed impenetrabili mura del linguaggio disciplinare e dalla frantumazione della comprensione economica in modelli eccessivamente astratti. Ciò crea un danno grave. Siamo determinati all’economia ma pochi sanno di ciò che li determina. Ciò che ci giudica non è a sua volta giudicato.Ne consegue un grave deficit democratico e questa minorità diventa il presupposto su cui si fonda il dominio di quelle élite che manovrano non solo i fatti economici e politici, ma anche l’opinione sommaria che noi ne abbiamo. Tant’è che la tesi del tutto condivisibile del nostro esploratore dell’universo economico è che, in fondo, l’economia è un discorso sul potere, verità antica ma oggi celata dietro una narrazione che vorrebbe fare del fatto economico la risultante di ferree leggi della natura umana. Come se esistessero “ferree leggi” nella natura umana…
L’economia che nasce “politica” nel IV° capitolo della Ricchezza delle nazioni di A. Smith e tale rimane ancora in Marx, diviene dalla metà del XIX° secolo economics, ovvero scienza in sé per sé. Da allora, anche per via dell’adozione sistematica del matematese, il linguaggio e la logica propria dello sguardo scientifico già secondo Galileo e poi Newton, il pensiero economico divorzia progressivamente dalla radice umana, sociale, politica. L’auto-fondazione della nuova scienza astratta, deve postulare alcuni presupposti non fondati, né fondabili nel reale, a da questi discendere le linee terse delle sue modellizzazioni. Il tutto viene fatto, passando gli inestricabili grovigli dei rapporti tra uomo e fatti economici dentro un marchingegno semplificatore da cui escono alcuni punti archimedei con i quali alzare il mondo economico al livello del mondo newtoniano.
L’uomo economico è il concetto più scandaloso. La riduzione di un soggetto che ha animato secoli di descrizioni filosofiche, poetiche, drammaturgiche, artistiche, psicologiche, sociologiche, antropologiche, religiose, storiche, ad una black box comportamentale per cui esiste solo l’interesse individuale, l’egoismo, la razionalità con cui processiamo bisogni e soluzioni ai bisogni in vista della nostra unilaterale utilità. Ridicolo, eppure su questo c’è chi frequenta anni di corsi universitari e prende pure un attestato di conoscenza. Tant’è.
Il gioco economico risulta dalle sole coordinate della domanda e dell’offerta e la risultante tende immancabilmente all’equilibrio. Gli attori economici hanno tutti le stesse e precise informazioni per cui la razionalità delle interrelazioni economichenon è turbata da asimmetrie. Questo mondo, che è un fumetto di per sé, prevede di contro che ogni attore economico tanto sul lato della domanda che su quello dell’offerta, sia una monade piccina, e vi sia quindi piena e perfetta concorrenza, presupposto del fatto che è il mercato con le sue leggi di funzionamento auto-regolatorie a dominare le dinamiche che vengono poi appunto “osservate scientificamente”. Il tutto è posto in non luoghi senza tempo, per cui non c’è geografia, società, stati, geopolitica, storia, ambiente e natura a disturbare la meccanica celeste dell’interesse individuale che proietta curve sinuose ingabbiate in rassicuranti assi cartesiani. Dal ridicolo al grottesco, eppure… .
L’economics è forse l’unica (presunta) scienza che non ha una sua epistemologia, non ha cioè un pensiero critico che controlla come quella disciplina pensa. Essa è verbo incarnato, simile al pensiero religioso ed il fatto che la regina delle scienze, la fisica, sia essa forse più di altre, dotata di una corposa epistemologia sembra non turbare affatto gli intellettuali economici. Intimamente credo essi pensino che l’economics sia scienza “più scientifica” addirittura della fisica poiché invece di usare la matematica per descrivere la realtà, si usa la matematica per derivarne il concetto stesso di realtà. Forse è per questo che dai corsi universitari di economia (sopratutto anglosassoni) è stato per lo più espulso il corso di Storia dell’economia. Non c’è nulla di meglio che accoppiare in parallelo storia dei fatti economici e storia del pensiero economico per rendere evidente la distanza drammatica tra la storia economica reale e la fisica economica astratta. Questo tra storia e scienza è un dissidio profondo. La prima porta a verità contingenti e relative, la seconda a verità generali ed assolute. Il problema invero non è nel disputare su quanto sia più opportuna l’una o l’altra poiché i due approcci dovrebbero riferirsi a fenomeni di natura diversa. Il problema è nell’attribuzione del campo, se cioè l’economia rivela leggi permanenti quali si hanno in taluni fenomeni della natura (scienza) o se si debba occupare di fenomeni umani (storia). Così come il razionalismo scientista annichilì gli ultimi singulti del dominio teologico-scolastico e Marx-Nietzsche-Freud seppellirono la credibilità della metafisica filosofica, si aspetta ora che qualcosa o qualcuno intervenga per cancellare questo pensiero deviato dal novero della storia delle idee umane. Forse non qualcuno anche perché critici del pensiero economico ci sono stati e ci sono sempre più in abbondanza anche se fuori dell’accademia. Questo dominio di idee scombinate, la liberazione dal loro irrazionale potere, avverrà quando la struttura storico-sociale-culturale che sorreggono crollerà e manifesterà palesemente la sua mancanza di realismo adattativo. Prima è difficile visto il ruolo ideologico che esercitano. Credo però che non manchi molto al verificarsi di questo momento.
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Il lavoro di Goodwin ha il suo taglio epistemico. L’autore simpatizza per un A. Smith che come altri hanno notato risulta autore tanto citato quanto poco letto ed antipatizza per D. Ricardo definito simpaticamente “il più impostante sconosciuto della storia”. Legge Marx come deviato dal suo opporsi dialettico a Ricardo il che fa di Marx un utile critico dell’economia politica del tempo, ma uno scarso contributore del pensiero economico realista. Addebita al trio Jevons-Walras-Marshallil delitto di presunzione scientifica ma recupera poi alcuni dubbi ed un certo relativismo del Marshall maestro di J.M.Keynes. Esalta l’inglese e citando la restaurazione scientista di P. Samuelson, arriva alla condanna di M. Friedman e più in generale della wave monetarista e neo-liberale. L’economia realista ovvero quella storica, risulta sempre bilanciata sulla mixed economy (stato e mercato) e sull’equilibrio tra occupati (che sono poi consumatori), produzione e profitti. L’economia metafisica ovvero quella teorica interviene quando il sistema devia da i suoi equilibri generali e la classe del capitale, usando o alleandosi con certa politica, esagera i profitti a scapito del rapporto tra produzione e occupazione (consumo) condendo l’operazione con il fatidico “meno stato, più mercato”. La parte storica è particolarmente centrata sugli Stati Uniti d’America e sul ruolo devastante dei trust prima e delle corporations poi e poco o niente sull’Europa. Ricca la parte finale su i problemi dei limiti ambientali, sulla globalizzazione, sulla recente depravazione finanziaria di cui comunque si ricorda puntualmente la cointeressenza ”politica”.
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Non è necessario condividere l’impostazione istiuzional-keynesiana delle opinioni di Goodwin per godere delle sue fatiche. Così presentata la storia economica, con storia delle idee economiche e storia della politica economica, diventa una buona approssimazione della realtà. Certo molto sintetizzata ed a grana molto grossa, ma la perdita di risoluzione è conseguenza di una sorta di principio di indeterminazione della conoscenza che tanto meno precisa sarà, quanto più ampia e generale sceglierà di essere. Quello che emerge con distinzione inequivocabile e la tesi iniziale: l’economia è condizionata dalle forme che prende l’esercizio del potere in una civiltà, in una nazione, nel gioco delle classi. Il disegno generale sarà utile per tutti coloro che non vogliono imbarcarsi nel processo di composizione della conoscenza tramite lo studio di decine di testi di più discipline e utile anche come sintesi architettonica da cui trarre curiosità specifiche da approfondire una volta inquadrato il disegno generale. Utile anche a quei competenti che non sono usi a considerare le tre storie della trama, intrecciate assieme.
La nuova democrazia reale che auspichiamo, passa prima per la democrazia della conoscenza, poiché spesso è proprio su questa asimmetria conoscitiva che le élite fondano la propria giustificazione. Questo libricino, pur nei suoi limiti auto-evidenti, è un buon contributo ad una democrazia della conoscenza su di un argomento che oggi comprime la democrazia stessa. Per questo lo salutiamo con viva simpatia.