εὕρηκα

εὕρηκα
HOME PAGE

domenica 30 giugno 2013

Lavori? Ti pago in natura: beni e servizi, anziché soldi

«L’Italia ora è virtuosa e rispettata» – dicono ai bimbi scemi – ma Pil, domanda interna, occupazione e investimenti vanno a fondo. Il governo dice che occorre una cura-shock per rilanciarli, per abbattere il cuneo fiscale e le tasse sul lavoro, ma non ha i soldi per farlo. Allora, in attesa di un’impossibile solidarietà tedesca (o europea, che dir si voglia), o si mette a stamparli, uscendo dall’euro, oppure li rapina dai conti correnti e in generale dal risparmio dei cittadini, deprimendo ulteriormente la domanda e aumentando la fuga delle aziende. Fortunatamente vi è una terza via: il governo istituisca di corsa un banco, un consorzio, un’agenzia nazionale o più agenzie regionali che organizzino il pagamento (parziale) del lavoro dipendente (e magari anche autonomo) mediante vouchers, ossia diritti di prelievo su un monte di beni e servizi messi a disposizione da imprese private e da enti pubblici.
Un mercato regolamentato e controllato di baratto multilaterale che genera e usa i “buba”, buoni-baratto. Il datore di lavoro paga il dipendente, in ticket restaurantparte, con un voucher spendibile per l’acquisto su una grande varietà di beni e servizi messi a disposizione di tutte le aziende che partecipano. Concetto analogo – ma sviluppato – ai noti tickets per i ristoranti, che sono spendibili anche al bar e al supermercato, e dati in base ai giorni lavorati. Giuridicamente, sono titoli di credito ad ottenere beni o servizi, quindi non sono moneta. Hanno circolazione pattizia e non forzosa (non imposta dalla legge). Quindi sono compatibili con Maastricht e tutto il resto. Il voucher ovvia all’inconveniente del baratto, ossia che se tu ed io vogliamo fare un baratto dobbiamo avere contemporaneamente da scambiare beni del medesimo valore e che interessino a entrambi.
Praticamente il governo, se non ha le palle per rompere con l’Eurosistema, invece di rapinare la gente, organizzi e garantisca un sistema di permute di lavoro e beni/servizi. I vouchers possono essere modulati su esigenze diversificate: ad esempio, possono comprendere o no, a seconda che il lavoratore ne abbia o no bisogno, l’alloggio o l’autovettura. In tal modo si consentirebbe ai lavoratori di soddisfare le loro esigenze vitali, e alle imprese di collocare i loro prodotti e servizi. Si sosterrebbero domanda e consumi, abbattendo i costi e il cuneo fiscale, perché i vouchers avrebbero un trattamento di vantaggio.
Sviluppo possibile e logico: in una seconda fase, i vouchers potrebbero divenire titoli di scambio non solo tra fornitori di lavoro e fornitori di beni/servizi, ma anche tra fornitori di beni/servizi e altri fornitori di beni/servizi, compresa la pubblica amministrazione, attraverso una camera di scambio-compensazione multilaterale. Ad esempio, la ditta che fornisce semilavorati metallici alla fabbrica di cucine riceve un voucher di 100.000 unità che può usare, in parte, per pagare i dipendenti, in parte per pagare l’energia elettrica; mentre la fabbrica di cucine vende cucine ricevendo in pagamento, per una parte, vouchers, e per il resto moneta. Nasce un buoni acquistocircuito di circolazione dei vouchers, che possono venire riutilizzati indefinite volte.
In tal modo si creano mezzi di pagamento esattamente corrispondenti a beni e servizi reali (compreso il lavoro), quindi mezzi di pagamento non inflativi, sostitutivi del liquido mancante nel sistema, che vanno ad aumentare gli scambi e a consentire i pagamenti dei debiti anche fiscali e previdenziali, prevenendo insolvenze, fallimenti, emigrazioni, licenziamenti, delocalizzazioni, riducendo il fabbisogno di credito bancario (che ora non viene erogato per mancanza di liquidità, appunto), e stimolando consumi e investimenti, nonché provvedendo a cibo, vestiario, mobilia, alloggio e trasporto per la gente. Senza rubare altri soldi ai cittadini e fermando l’avvitamento fiscale in atto. E favorendo, ovviamente, i produttori locali e nazionali.
Ricordo che sono 20 mesi che la produzione cala. Non prendere misure idonee, cioè di ricostituzione della disponibilità monetaria, dimostrerebbe definitivamente una volontà distruttiva dei governanti verso il paese, che li qualificherebbe come nemici pubblici a tutti gli effetti. Se politicanti e istituzioni sono troppo incapaci o asserviti agli interessi stranieri per fare quanto sopra, si muovano i sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro.
(Marco Della Luna, “Un banco del lavoro e dei prodotti per salvare l’economia”, dal blog di Della Luna del 12 giugno 2013).

Api a rischio estinzione: in gioco il 90% del nostro cibo

Ora sappiamo esattamente cosa uccide le api: l’estinzione delle colonie di api in tutto il mondo non è un grande mistero come vorrebbero farci credere le aziende chimiche. Gli scienziati conoscono il problema: sanno che le api da miele stanno morendo per via dei pesticidi in agricoltura, della siccità, della distruzione del loro habitat naturale, del riscaldamento. I biologi, spiega Rex Weyler di “Greenpeace”, hanno trovato tracce di 150 diversi pesticidi chimici nel polline delle api, un cocktail mortale secondo Eric Mussen, apicoltore della University of California. Le aziende chimiche Bayer, Syngenta, Basf, Dow, DuPont e Monsanto hanno scrollato le spalle, come se il “mistero” fosse troppo complesso per essere decifrato. E comunque, «non hanno messo in atto alcun cambiamento in merito alle politiche sui pesticidi: dopotutto, la vendita di veleni a coltivatori in tutto il mondo è vantaggiosa». Come se non bastasse, l’habitat delle api selvatiche si riduce di anno in anno a causa dell’attività agroindustriale che distrugge praterie e foreste per lasciar spazio alle monocolture, contaminate dai veleni.
«Per fermare il processo di estinzione delle api, dobbiamo rivedere il nostro sistema agricolo malato e distruttivo», scrive Weyler in un intervento Aperipreso da “Come Don Chisciotte”, che indaga sulla scomparsa delle api. L’Apis mellifera, nativa d’Europa, Africa e Asia occidentale, sta letteralmente scomparendo, insieme all’ape mellifera orientale. Fenomeno tutt’altro che irrilevante: «Le api mellifere, sia selvatiche che domestiche, sono responsabili dell’80% dell’impollinazione del nostro pianeta», spiega lo specialista di “Greenpeace”. «Una sola colonia di api può impollinare 300 milioni di fiori ogni giorno». Un ruolo decisivo: se infatti i cereali sono principalmente impollinati dal vento, i cibi più salutari – frutta, noci e verdura – sono impollinati proprio dalle api, responsabili della sopravvivenza di qualcosa come «settanta delle 100 specie di colture alimentari dell’uomo, che corrispondono al 90% del nutrimento mondiale».
Tonio Borg, commissario europeo per la salute e le politiche dei consumatori, ha calcolato che le api «contribuiscono all’agricoltura europea per una cifra pari a 22 miliardi di euro (30 miliardi di dollari)». Nel mondo si stima che il valore dell’impollinazione connessa alla produzione di cibo per l’uomo, da parte delle api, superi i 265 miliardi di euro, 350 miliardi di dollari. «L’estinzione delle api è una sfida come il riscaldamento globale, l’acidificazione degli oceani e la guerra nucleare», avverte Weyler. «L’uomo difficilmente sopravvivrebbe ad un’estinzione totale delle api». Negli Usa, primo paese in cui le api hanno iniziato a scarseggiare, le perdite invernali raggiungono il 30-50% o peggio. Nel 2006 David Hackenberg, un apicoltore con 42 anni di esperienza, ha rilevato perdite del 90% tra i suoi 3.000 alveari. Lo stesso Dipartimento statunitense dell’agricoltura dimostra la scomparsa delle api: si è passati dai 6 milioni di alveari del 1947 ad appena 2,4 milioni di alveari nel 2008, una riduzione del 60%. «Il numero delle colonie di api operaie per ettaro fornisce una visione critica sulla salute delle colture». Negli Stati Uniti, tra le coltivazioni che richiedono impollinazione da api, il numero di colonie è diminuito del 90% rispetto al Tonio Borg1962: «Le api non fanno in tempo a sostituire le perdite invernali e subiscono la perdita del loro habitat naturale».
In Europa, Asia e Sud America il numero di perdite annuale è inferiore a quello degli Stati Unti, ma la tendenza è simile con una risposta più incisiva. La Rapobank sostiene che inEuropa le perdite annuali raggiungono il 30-35% e che il numero di colonie per ettaro è diminuito del 25%. Uno studio scientifico delle autorità europee per la sicurezza alimentare mostra che tre dei pesticidi più largamente utilizzati – Clothiniadina, Imidacloprid e Thiametoxam, a base di nicotina – costituiscono un rischio elevato per le api. Un report scientifico di “Greenpeace” identifica sette principali pesticidi mortali per le api, inclusi i tre colpevoli a base di nicotina, oltre a Clorpyriphos, Cypermethrin, Deltamethrin e Fipronil. I tre “neonecotinoidi” agiscono sul sistema nervoso dell’insetto e si accumulano nelle singole api e in intere colonie, anche nel miele che usano per sfamare le larve appena nate. Le api che non muoiono immediatamente subiscono effetti sistemici sub-letali, difetti dello sviluppo, debolezza e perdita dell’orientamento. «La scomparsa lascia scampo a poche api e quelle che sopravvivono sono deboli e devono lavorare di più per produrre miele in un habitat consumato. E’ questo – sottolinea Weyler – l’incubo che sta portando alla scomparsa delle colonie d’api».
L’Imidacloprid e il Clothianidin sono prodotti e commercializzati dalla Bayer, mentre la Thiamethoxam è fornita dalla Syngenta. Nel solo 2009 – rivela “Greenpeace” – questi tre veleni hanno raggiunto un giro d’affari di 2 miliardi di euro sul mercato mondiale. Quasi il 100% del mercato di pesticidi, piante e Ogm controllato da Syngenta, Bayer, Dow, Monsanto e DuPont. «Nel 2012, un tribunale tedesco ha condannato Syngenta per falsa testimonianza, per aver nascosto il report prodotto dalla multinazionale stessa che spiegava come il granturco geneticamente modificato avesse causato la morte del bestiame». Negli Usa, l’azienda ha sborsato 105 milioni Propaganda contro Obama, grande protettore della Monsantodi dollari per una causa collettiva per aver inquinato l’acqua potabile di oltre 50 milioni di cittadini con il suo pesticida Atrazine.
«Oggi – accusa Weyler – queste inquinanti aziende finanziano campagne da milioni e milioni di euro per negare le loro responsabilità in relazione alla scomparsa delle colonie d’api». Mentre la Commissione Europea ha proibito l’utilizzo dei “neonicotinoidi” per due anni e un divieto più lungo su altri pesticidi – intervallo che gli scienziati utilizzeranno per favorire il recupero delle api sul lungo termine – gli Stati Uniti tergiversano e intanto sostengono le aziende che producono e commercializzano i veleni mortali. Lo stesso Obama ha appena firmato il famigerato “Monsanto Protection Act“, scritto dai lobbisti della multinazionale, grazie al quale le compagnie biotecnologiche ottengono l’immunità nelle corti federali degli Stati Uniti per i danni causati alle persone e all’ambiente dai loro interessi commerciali.
Eppure, sostiene Weyler, le soluzioni esistono: a salvare le api basterebbe il buonsenso. Lo dicono gli scienziati, l’Europa e la stessa “Greenpeace”, nel rapporto “Bees in Decline”. Primo: proibire i sette pesticidi più pericolosi. Poi: proteggere la salute degli impollinatori preservando l’ambiente in cui vivono. E infine: ripristinare l’agricoltura biologica, che si sta rivelando la nuova tendenza verso il futuro e si stima che porterà ad una stabilizzazione della produzione di alimenti per l’uomo e alla protezione delle api e del loro habitat. Il Bhutan è il primo paese al mondo ad avere una politica agricola biologica al 100%. Il Messico ha proibito il granturco geneticamente modificato per proteggere le specie native. Lo scorso gennaio otto paesi europei hanno proibito le colture Ogm e l’Ungheria ha bruciato più di mille acri di granturco contaminato da varietà manipolate. In India, negli ultimi Rex Weylerdue anni, Vandana Shiva ha avviato, con un gruppo di piccoli agricoltori, una “resistenza biologica” contro l’agricoltura intensiva.
«L’agricoltura ecologica, o biologica, non è sicuramente una novità: è la tecnica agricola più utilizzata nella storia», ricorda Weyler. «Le colture biologiche resistono ai danni provocati dagli insetti, evitando le grandi monocolture e preservando la biodiversità». Inoltre, l’agricoltura “verde” ristabilisce i nutrimenti del terreno con la concimazione, evitando l’erosione del suolo dovuta al vento e al sole, senza ovviamente ricorrere all’impiego di pesticidi e fertilizzanti chimici. «Ripopolando e rinforzando le colonie d’api – dice “Greenpeace” – l’agricoltura biologica favorisce l’impollinazione, che a sua volta propizia il rendimento agricolo». E’ semplice: l’agricoltura “bio” sfrutta i servizi naturali dell’ecosistema, la filtrazione dell’acqua, l’impollinazione, la produzione di ossigeno e il controllo dei parassiti. «I coltivatori biologici hanno richiesto un miglior sistema di ricerca e sostegno da parte delle industrie, dei governi, dei coltivatori e del pubblico, per poter sviluppare tecniche di coltura biologica, migliorare la produzione e mantenere sano l’ecosistema». La “rivoluzione agricola” promuoverebbe Rachel Carson, autrice di "Primavera silenziosa"diete equilibrate nel mondo e supporterebbe le colture ad uso umano, evitando l’utilizzo di terreni per i pascoli e i biocombustibili.


«La questione delle api – conclude Weyler – è un avvertimento da parte dell’ecosistema». Gli oppositori delle grandi aziende si aggrappano alla presunta libertà di consumo, puntando solo al profitto di pochi, «ma l’accumulo di denaro non ci aiuterà contro l’estinzione, non riporterà i terreni perduti, né curerà le colonie di api del mondo». Secondo l’attivista di “Greenpeace”, «l’umanità subirà severe punizioni se non rimedia ai propri errori: l’equilibrio dei sistemi che regolano la Terra è delicato e potrebbe raggiungere il punto di non ritorno e collassare». Le api, nel loro piccolo, lavorano per un tornaconto modesto e marginale rispetto all’energia che bruciano per tenere in piedi l’agricoltura mondiale. Rachel Carson, ricorda Weyler, aveva predetto questi problemi mezzo secolo fa: la scomparsa delle colonie d’api è pericolosa quanto il riscaldamento globale e la distruzione delle foreste. Anche a noi saremo a rischio di estinzione: salvare le api significa salvare il pianeta.

Fermiamo l’accanimento contro la Costituzione

rlavalle
È in corso un attacco alla Repubblica e alla Costituzione; non parlo del precipitare verso il presidenzialismo che è di tutto il PDL, degli ex fascisti e di una parte consistente anche del Partito democratico: questo si discuterà quando si entrerà nel merito delle riforme costituzionali.
Parlo della legge costituzionale che detta nuove e fantasiose procedure per la modifica della Costituzione, che il governo Letta d’accordo con Napolitano ha purtroppo presentato come uno dei punti fondamentali del suo programma e che, con arbitraria procedura d’urgenza, è in questo momento in discussione al Senato.
Tale legge non è una legge che direttamente modifica la Costituzione, ma la “deroga”, in quanto prescrive una procedura non costituzionale per la revisione costituzionale; è una legge di modifica che sarà la madre di tutte le modifiche e che perciò giustamente dai Comitati Dossetti è stata chiamata “legge grimaldello”.
Si tratta infatti dell’arma che mancava per le agognate riforme della Seconda parte della Costituzione, la quale, finora, grazie agli strumenti di garanzia che la presidiano, ha resistito a tutti i venti e le maree. Il grimaldello sta per l’appunto nel disegno di legge costituzionale che, accantonando l’art. 138 della Carta che la protegge, scardina le porte d’ingresso della revisione costituzionale e mette la Costituzione, resa in tal modo “flessibile” da rigida che è, alla mercé dell’attuale maggioranza parlamentare, innaturale e iconoclasta; e nello stesso tempo impedisce che si facciano, rispettando le regole, le vere e puntuali riforme che sono opportune e coerenti (a cominciare dalla differenziazione del bicameralismo, con la novità di un Senato della Repubblica e delle autonomie).
La battaglia per far fallire questa legge interrompendone l’iter parlamentare, è dunque la battaglia estiva da fare, e la più urgente. La normativa che sancisce la deroga dovrebbe essere infatti approvata in seconda lettura (trattandosi di una legge costituzionale) tra l’ottobre e il novembre prossimi, e il tempo è poco perché si tratta di convincere il Parlamento a far cadere la legge, o almeno a non approvarla con la maggioranza dei due terzi, ciò che permetterebbe il ricorso al referendum popolare per una sua conferma o bocciatura.
Il tempo è poco anche perché in questi mesi, prima che la legge grimaldello vada in vigore, bisognerebbe modificare la legge elettorale “Porcellum”; dopo non sarà più possibile perché la riforma elettorale entrerà nel pacchetto delle riforme costituzionali e quindi se ne parlerà tra due anni, e nel frattempo il “Porcellum”sarà blindato come immodificabile, sicché o non si potranno sciogliere le Camere o si dovrà votare ancora una volta con la legge vigente, che ci ha procurato i Parlamenti deformi che sappiamo.
Ma perché questo accanimento per cambiare la Costituzione, che giunge fino al tradimento dei principi e delle regole su cui essa è fondata?
Il governo, che si è autoproclamato dominus e arbitro della riforma costituzionale, ha presentato al Senato una relazione che accompagna il disegno di legge grimaldello, dicendone tutto il bene possibile.
Ma la vera relazione, negli stessi giorni, è quella che si ricava da un documento della Jp Morgan, la famosa banca d’affari americana che ha così grandi responsabilità nelle speculazioni che innescarono nel 2008 la crisi mondiale. Per quanto la si possa accusare di avventatezza, la Morgan di capitalismo se ne intende. E in un documento del 28 maggio scorso ha scritto, nero su bianco, che la colpa del dissesto economico europeo è delle Costituzioni nate dopo la caduta delle dittature, e “rimaste segnate da quell’esperienza”: insomma delle Costituzioni antifasciste. Esse mostrerebbero una forte influenza delle “idee socialiste” (l’apporto dei cattolici e dei liberali è ignorato) ragion per cui è oggi difficile applicare le misure di austerità; infatti a causa di quelle Costituzioni i Parlamenti sono troppo forti nei confronti dei governi, le regioni troppo influenti sui poteri centrali, ci sono le tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori e – addirittura! – c’è “la licenza di protestare se sono proposte modifiche sgradite dello status quo”.
Già si era detto che la convinzione dominante a Bruxelles e a Francoforte (cioè nella Banca e nelle istituzioni europee e nella Banca tedesca) fosse che per affrontare la concorrenza internazionale si dovrebbero abbandonare “molte delle conquiste della civiltà europea degli ultimi cinquant’anni”, ed ecco che i banchieri americani danno il nome a queste conquiste da cancellare: sono le Costituzioni.
In Italia si sta provvedendo. Glielo lasceremo fare?
Raniero La Valle

(29 giugno 2013)

sabato 29 giugno 2013

Rivoluzione democratica: potere al Parlamento Europeo

Un’Europa “normale”, cioè finalmente democratica, al posto del Palazzo degli Orrori che ci sta torturando in base ad un piano eversivo, golpista: costringerci alla resa fino a svendere i nostri beni ai padroni della Terra dopo aver demolito gli Stati sovrani, la loro economia e il sistema dei diritti a garanzia dei cittadini. Tutto questo, grazie alla complicità di partiti-canaglia ridotti a “maggiordomi” dell’élite mondiale, quella dei “proprietari universali” che – come in un nuovo medioevo feudale – pretendono per sé tutto il potere, grazie al micidiale ricatto della finanza e al ferreo controllo su una moneta non più nostra. Per cancellare l’incubo c’è una sola via: il recupero politico della piena sovranità democratica. Punto numero uno: costruire una grande coalizione che pretenda un’Europa non più nemica. Un’Europa solidale, che lavori per il bene del 99% anziché per la sua rovina, a esclusivo beneficio – come avviene oggi – della super-casta planetaria, quella delle lobby onnipotenti che dettano, letteralmente, le direttive della nostra condanna. La Commissione Europea? Va semplicemente abolita. Gli europei meritano un governo democratico, emanato dal loro Parlamento regolarmente eletto.
E’ l’idea-forza del “Manifesto per l’Europa” redatto da “Alternativa”, laboratorio politico fondato da Giulietto Chiesa. Tra i firmatari, economisti e Emergenza bambini, volto drammatico della crisi grecaintellettuali di varia provenienza, dall’italo-danese Bruno Amoroso al console italiano in Francia, Agostino Chiesa Alciator, passando per liberi pensatori come Piero Pagliani e Pierluigi Fagan. Documento presentato in anteprima il 17 giugno a Bruxelles di fronte a gruppi, associazioni e partiti europei provenienti da Italia, Germania, Danimarca, Spagna, Grecia, ma anche Russia, Bulgaria, Estonia e Lettonia. Il piano: collegare risorse nazionali, mobilitare forze, puntare a una convergenza europea su una piattaforma democratica comune, in vista delle elezioni del 2014. Da tutti i paesi membri deve salire, per la prima volta nella storia, la voce di chi pretende che cambino innanzitutto le regole, perché l’attuale Unione Europea sembra costruita appositamente per produrre crisi, recessione, povertà e disperazione.    
Esplicito il linguaggio del documento: «Un club planetario a vocazione totalitaria sta distruggendo l’Europa dei popoli, la nostra vita, la nostra democrazia, la nostra libertà». Futuro in pericolo: «Gradualmente, senza che ce ne rendessimo conto, siamo stati consegnati nelle mani di un’oligarchia senza patria e senz’anima, il cui unico collante è il delirio di onnipotenza derivante dal possesso del denaro infinito che essa crea». Sul banco degli imputati, i veri dominatori: i proprietari finali delle azioni di banche, fondi e corporation internazionali, «persone che nessuno di noi conosce, che nessuno ha mai eletto ma che determinano le nostre vite». Sostenuti da Parlamenti formalmente eletti ma in realtà nominati dall’alto, questi oligarchi «hanno consegnato il potere politico ed economico – un tempo prerogativa degli Stati – a strutture prive di ogni legittimazione democratica». Sono le impalcature di un nuovo ordine mondiale in via di costruzione: «Si tratta di un’ipotesi eversiva e autoritaria che i pochissimi, e Draghi e Merkel, due super-potenti detestati in tutta Europagià smisuratamente ricchi, vogliono imporre a moltitudini ormai impoverite».
Un disegno aberrante, fondato sull’illusione della crescita infinita e destinato a produrre caos e guerre, poiché rifiuta di constatare la fine dell’era dell’abbondanza. Gli oligarchi, consapevoli del crescere della protesta popolare, si preparano a reprimerla: «Sanno della precarietà dell’inganno con cui hanno usurpato il potere, sanno che le loro presunte leggi economiche e monetarie sono una truffa globale. E sanno che il denaro virtuale mediante il quale ci dominano è destinato e finire in cenere». Per questo destabilizzano quel che resta delle nostre istituzioni democratiche e introducono nuove norme-capestro, «mentre si apprestano ad allungare le mani sulle ricchezze materiali ancora disponibili: territori, acqua, cibo, fabbriche, risparmi, storia, monumenti, “risorse umane”: se non li fermiamo le compreranno, a prezzi stracciati, privatizzandole con l’immensa massa di denaro virtuale, trasformato in debito, che stanno creando dal nulla a ritmi vertiginosi».
Alla fine resteranno intere popolazioni – cioè tutti noi – ridotte in miseria, ignoranza e schiavitù, senza più beni nédiritti, e quindi senza futuro. La Grecia? E’ l’esempio pratico di una strategia già in atto. L’unica possibile salvezza economica è necessariamente di stampo keynesiano: esattamente l’opposto dei diktat della Troika. In sostanza: rimettere gli Stati nelle condizioni fare spesa pubblica e investire per i cittadini, dando respiro all’economia. Con che soldi? Anche con l’euro, trasformando la Bce in “prestatore di ultima istanza”, a patto però che Francoforte diventi un soggetto pubblico, di esclusiva proprietà delle singole banche centrali dei paesi europei, completamente nazionalizzate. Oppure, piano B: ripristinare le valute nazionali, come la lira, mantenendo l’euro – eventualmente – come divisa unitaria per gli scambi internazionali. Serve una rivoluzione finanziaria fondata sulla trasparenza: fine della speculazione, messa al bando dei titoli tossici e delle agenzie di rating, separazione tra banche d’affari e banche di raccolta, con divieto – per queste ultime – di mettere in pericolo, Fame, il calvario della Greciamediante operazioni a rischio, i capitali destinati al sostegno dell’economia reale.
In sintesi, riassume il documento di “Alternativa” nella sua parte economico-finanziaria, si tratta di abbandonare immediatamente l’opzione della triplice deregulation – borsistica, valutaria e doganale – adottata nei vigenti trattati europei in ossequio al liberismo più ottuso ed estremo. Più moneta circolante, grazie a banche nazionalizzate: e lo spettro dell’inflazione? E’ possibile neutralizzarlo «con svalutazioni che accompagnino il differenziale d’inflazione residuo, per esempio tra Stati Uniti e Unione Europea». Quanto alla prevedibile speculazione borsistico-valutaria, può essere bloccata da adeguati vincoli, mentre «le esportazioni di capitali e le delocalizzazioni contrarie all’interesse nazionale possono essere contenute all’interno della Ue dai vincoli valutario-doganali: si potrà così finalmente fondare la ricostituzione del sistema produttivo europeo sulla base della sua domanda interna, in regime di pareggio tendenziale dell’export-import».
Capitolo fondamentale, la domanda interna – quella che oggi è crollata, producendo lo sfacelo che stiamo vivendo. Non si scappa: per riattivarla servono possenti investimenti pubblici. Dove trovare i soldi? Tassando i grandi patrimoni e le rendite finanziarie, ma soprattutto finanziando la spesa pubblica con bond collocati presso le future banche pubbliche: «Perfino l’attuale Trattato di Lisbona consente alla Bce di prestare allo 0,50%, esattamente come li presta a tutte le banche private dell’Eurozona (è così che fanno regolarmente i tedeschi), o “alla giapponese”, ossia forzosamente e al medesimo tasso, presso le banche private che operano nei vari territori nazionali, quale prezzo della licenza bancaria». Ciò che pesa, del debito pubblico, non è il suo valore assoluto e neppure il suo rapporto con il Pil, ma solo l’ammontare degli interessi annui netti, elevati e protratti nel tempo. Il professor Bruno Amoroso«L’assurdo consiste oggi nel collocarli sui mercati finanziari, notoriamente speculativi: è la trappola dello spread».
In Italia, «basterebbe riportare in mano pubblica la Cassa Depositi e Prestiti, o creare un polo bancario pubblico in grado di ricevere il denaro al tasso praticato dalla Bce per le banche private». Così, «si otterrebbe un risparmio secco di 80 miliardi di euro», sui 90 miliardi  di soli interessi «che vengono ogni anno regalati alla speculazione». Problema: «E’ chiaro che abbandonare le tradizionali ricette liberiste in favore di queste ricette anti-liberiste vuol dire fare l’interesse della stragrande maggioranza della popolazione». Banche pubbliche, denaro a basso costo: se queste misure venissero adottate dai 17 paesi membri dell’Unione Europea, si dovrà regolare al loro interno il pareggio tendenziale dell’import-export, che oggi registra uno sbilancio di circa 150 miliardi l’anno, verso la Germania, da parte dei Piigs. Anche la Francia, conti alla mano, dovrebbe trovare conveniente associarsi ai paesi del Mediterraneo nella grande vertenza europea da cui può nascere la salvezza comune.
A monte, ovviamente, si impongono scelte drastiche preliminari: stracciare il Trattato di Maastricht, archiviare il Trattato di Lisbona, rifiutare in blocco il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio. Maastricht e Lisbona «costituiscono le basi dell’aggressione finanziaria contro i popoli europei». L’Europa ha di fronte un bivio drammatico: il suo suicidio a orologeria, o una vera e propria rivoluzione. L’Europa di domani «deve avere un governo democratico e una banca centrale che realizzi la politica di un tale governo, e non viceversa». Gli Stati che decideranno di far parte di questa nuova Europa «non dovranno essere considerati come degli stakeholder di minoranza di un’impresa, ma dovranno essere Stati sovrani che delegano parte della loro sovranità soltanto ed esclusivamente a un livello superiore di governo, che sia altrettanto democratico di quelli che sarà chiamato a coordinare». L’adesione a questa nuova Europa non potrà che essere decisa dai popoli: «Ad essi, e solo ad essi, spetterà – via referendum – la decisione Giulietto Chiesafinale dell’adesione».
“Alternativa” delinea le tappe di un processo costituente, organizzato dalle attuali istituzioni europee «ma con la partecipazione, in ogni fase, delle società civili, delle popolazioni e dei Parlamenti nazionali». Nella nuova “Europa 2.0” sarà il Parlamento Europeo, «unica istituzione attualmente espressione delle istanze dal basso», a svolgere un ruolo decisivo a partire dalla sua nuova legislatura, prevista per il 2014. Tra un anno, gli elettori europei dovranno assolutamente avere la possibilità di votare un programma comune, per riaprire il futuro. Prima richiesta: una Assemblea Costituente Europea, formata da tutte le componenti: autorità di Bruxelles, rappresentanti del 27 Parlamenti nazionali, capi di Stato e di governo, Parlamento Europeo e Forum Sociale composto da associazioni, gruppi, comitati, partiti, sindacati, enti di autogoverno e di governo delle istituzioni dei livelli sottostanti della società civile e politica.
Missione del Forum, la trasparenza. Ovvero: valutare il procedere dei lavori e diffondere informazioni per portare il lavoro costituente al centro dell’attenzione del dibattito pubblico europeo. Operazione perestrojka, per riformare l’Unione Europea e farne finalmente un soggetto pubblico pienamente legittimo, con un governo democratico emanato dal Parlamento Europeo, diretta espressione della volontà dei cittadini. Solo un sogno? Forse non più. Il laboratorio di “Alternativa” si è messo in moto, a livello europeo, per provare a tessere una trama capace di costringere la politica a dare le risposte che tutti attendono. Una sfida che ha di fronte ostacoli smisurati e nemici potentissimi. Ma proprio la drammaticità della crisi potrebbe bruciare i tempi: se l’epoca dei “maggiordomi” sta davvero finendo, l’Europa dei cittadini potrebbe decidersi a pretendere di essere governata da istituzioni degne, indipendenti e democratiche.

Pacchi e cacciaballe come sempre sul lavoro

GIORGIO CREMASCHI 

A ben guardare sulla stampa, le uniche soddisfazioni visibili per i provvedimenti del governo sul lavoro, a parte che da Letta stesso, vengono da Berlusconi e dai gruppi dirigenti di CGIL CISL UIL.
Berlusconi è andato da Letta e poi dal Capo dello Stato, il quale evidentemente non ha problemi a ricevere frequentemente un pluricondannato per reati gravissimi, e ha espresso pieno sostegno al governo e al suo operato. Se evidentemente così il capo del PDL cerca di far dimenticare i devastanti guai con la giustizia, i gruppi dirigenti di CGIL CISL UIL mostrano ancora una volta di aver dimenticato cosa deve dire e fare un sindacato in momenti come questi. In Portogallo oggi si sciopera contro l’austerità, qui da noi i leader dei grandi sindacati approvano misure ridicole che stanno alle politiche di austerità come una ciliegina vecchia su una torta andata a male. (…)
Il provvedimento del governo non riduce di una sola unità l’ammontare complessivo della disoccupazione, ma semplicemente la ridistribuisce in piccola quota.
Il ministro Giovannini, che come ex capo dell’ISTAT sa come far ballare i numeri davanti a mass media ottusi e bendisposti, ha detto che questa misura ridurrà del 2% la disoccupazione giovanile sotto i trent’anni e subito il suo annuncio è stato rilanciato come un fatto enorme.
Facciamo un piccolo conto. Il governo ha annunciato che con i suoi provvedimenti ci saranno 200000 assunzioni di giovani. Se questo fosse vero e, come dice Giovannini, corrispondesse ad un calo del 2% dell’ammontare complessivo della disoccupazione giovanile, vorrebbe dire che questa assomma a ben 10 milioni di persone, un numero forse superiore a tutta la popolazione tra i 18 e i 30 anni…
Evidentemente non è così e Giovannini ci dice tra le righe, dove i mass media di regime non guardano e non fanno guardare, che la riduzione della disoccupazione giovanile sarà molto inferiore alle assunzioni previste, diciamo a spanne attorno a un decimo.
Quindi la disoccupazione giovanile viene ridotta di 20000 persone. È le altre 180000? Ammesso che si verifichino tutte, esse saranno chiaramente assunzioni di giovani che non riducono la disoccupazione perché le aziende avevano già programmato di farle.
Tito Boeri su La Repubblica afferma che le attuali assunzioni di giovani sono 120000 al mese. Il programma del governo è scaglionato su 4 anni…
Quindi i soldi pubblici andranno soprattutto a quelle medie e grandi aziende che vanno meglio di altre e che avevano comunque bisogno di assumere. Un puro regalo.
Ma i 20000 di Giovannini? Bè temo che a quelli corrispondano altrettanti licenziamenti per lavoratrici e lavoratori di altre fasce di età.
Non bisogna mai dimenticare infatti che tutti gli indicatori economici dicono che la disoccupazione complessiva aumenterà. Quindi i posti di lavoro che si perdono sono di più di quelli che si creano e se si incentivano le assunzioni per una certa fascia di età, ovviamente altre generazioni vengono licenziate di più
In concreto avremo aziende che si libereranno delle e dei dipendenti con più di 50 anni per assumere giovani che pagano con un salario molto basso e sui quali sono sgravate dai contributi. E siccome si va in pensione a 70 anni e ci sono già schiere di esodati, è chiaro che le aziende licenzieranno per assumere.
È la famosa staffetta generazionale, condannata da quella associazione sovversiva che è l’Organizzazione del lavoro delle Nazioni Unite. Perché, afferma l’ILO, in realtà distrugge lavoro buono e reddito.
Quindi la sostanza è che le misure del governo daranno qualche piccolo risultato nella direzione voluta solo se verranno licenziati padri e madri per far posto ai figli.
In una condizione di crisi e recessione ci sono solo due modi per ridurre davvero la disoccupazione. Il primo e fare investimenti che creino lavoro aggiuntivo, il secondo è quello di ridurre l’orario tra gli occupati per redistribuire il lavoro tra più persone.
Il governo rifiuta entrambe queste vie nel nome dell’austerità europea, e dunque può solo tirare la coperta sempre più stretta da un lato o dall’altro, aumentando la precarietà e la disoccupazione complessiva.
Non è un caso che il piano giovani sia accompagnato dalla davvero notevole impresa di essere riusciti a peggiorare la legge Fornero, agevolando ancor di più le assunzioni a termine e senza controllo.
Le ricette sul lavoro del governo Letta sono dunque le solite misure liberiste che si adottano in tutta Europa, con fallimento progressivo. Il paese che da più anni governa il mercato del lavoro con pacchetti di misure come quelle appena decise è la Spagna: l’unico grande stato europeo con una disoccupazione complessiva e giovanile superiore alla nostra.
Quindi queste misure falliranno e sprecheranno, come tutte le politiche del lavoro degli ultimi venti anni che ora sono ben sintetizzate da un governo che raccoglie il fallimento della destra e quello del centrosinistra.
Del resto questa sintesi fallimentare non si esprime solo sul lavoro. Su tutto il governo delle larghe intese o rinvia, o vende fumo, o fa il gioco delle tre carte.
Si rinvia l’IVA e intanto si aumentano le tasse qua e là. Si vota una pausa di riflessione parlamentare sugli F 35 e la si fa coincidere con una pausa dei lavori prevista dal contratto di acquisto degli aerei, che viene confermato.
Si rinvia, si confezionano pacchi mediatici, si cacciano balle con la faccia seria e rigorosa.
Forse la soddisfazione di Berlusconi è più di fondo: se lui è al tramonto, la sua eredità culturale e politica si consolida nel regime delle larghe intese.
Giorgio Cremaschi
(27 giugno 2013)

Se questa è caccia all’evasore



Contribuenti e conti in banca sono ormai schedati fino all'ultimo euro. Eppure il fisco ripesca solo il 4 per cento dei soldi che gli spetterebbero. Perché i governi non vogliono perdere il consenso di milioni di elettori.

di Stefano Livadiotti e Giulia Paravicini, da L'Espresso, 28 giugno 2013
Attilio Befera, "Artiglio" per chi gli rimprovera un supposto eccesso di severità nella gestione della macchina fiscale italiana, ha fatto un sogno. Il grande capo dell'Agenzia delle entrate e di Equitalia, il suo braccio armato per la riscossione delle tasse, vorrebbe mettere le mani su Palantir, un software di analisi dei big data messo a punto tre anni fa negli Stati Uniti, sviluppato da un fondo di investimento della Cia e oggi adottato in Italia dai Carabinieri del Ros, il Raggruppamento operativo speciale.

Del misterioso Palantir, capace di incrociare una quantità illimitata di dati, utilizzando algoritmi di ultima generazione per scoprire relazioni invisibili, si parlò quando Osama Bin Laden registrò un video davanti a uno scorcio montagnoso sul quale una manciata di minuti dopo piombò una raffica di missili, che non lo centrò in pieno solo perché nel frattempo si era spostato in tutta fretta. Se con Palantir l'allora leader di Al Qaeda ha rischiato la pelle, gli evasori fiscali italiani potrebbero continuare a dormire tra due guanciali. Non tanto perché il sistema made in Usa non ha proprio le caratteristiche adatte per la caccia ai furbetti delle dichiarazioni dei redditi, come assicura chi ha avuto modo di prendere parte a una delle riservatissime presentazioni organizzate in Italia. Quanto perché l'evasione-monstre del nostro Paese, pur essendo una delle principali cause dei conti pubblici che non tornano mai, e di una pressione fiscale effettiva ormai schizzata per i contribuenti onesti a quota 53 per cento, oggi come ieri non è quasi mai stata affrontata davvero come un'emergenza nazionale.

Befera c'entra poco e niente: è un grand commis e non va dove lo porta il cuore, ma dove gli chiede il governo di turno. Che non ha mai voglia di regalare alle forze di opposizione una formidabile quota di consenso elettorale. E, come ebbe a ricordare quel galantuomo dell'allora numero uno della Confcommercio, Sergio Billé, prima di finire agli arresti domiciliari e poi beccarsi una condanna a tre anni per corruzione, il mondo del lavoro autonomo e della piccola impresa vale qualcosa come dieci o dodici milioni di voti. Chi non ne intercetta almeno una fetta si può scordare di vincere le elezioni.

NEL BUNKER SOTTERRANEO

Palantir potrebbe rivelarsi insomma l'ennesima presa in giro. Che la (mancata) lotta all'evasione sia un problema di volontà politica e non di strumenti operativi è più di un sospetto per chiunque abbia avuto l'opportunità di visitare, all'estrema periferia di Roma, dalle parti della via Laurentina, il blindatissimo quartier generale della Sogei, la società di informatica del fisco italiano, collegata a 300 diverse banche dati (dall'anagrafe tributaria al registro navale), a loro volta alimentate da qualcosa come diecimila enti pubblici.

Nove ettari, circondati da un muro grigio di cemento armato, dove lavorano 1.900 dipendenti, la metà ingegneri, fisici, matematici e biologi, alcuni dei quali dotati del nulla osta di segretezza, una sorta di certificato rilasciato dalle autorità e necessario a chi per lavoro maneggia informazioni particolarmente sensibili. Sotto terra c'è un bunker di quattromila metri quadrati, al quale chi è autorizzato può accedere solo dopo la verifica delle impronte digitali. Dentro non si incontra anima viva. In compenso ci sono, ben allineati, 1.500 server, con una potenza di fuoco di un milione di miliardi di byte, tenuti al fresco da un sistema di tubature sotterranee che convoglia acqua a sei gradi di temperatura. Il tutto è a prova di attentato o di terremoto: un collegamento dedicato lungo cento chilometri trasferisce in tempo reale la massa di dati in un sito militarizzato che si trova poco fuori dai confini del Lazio, all'interno di una caserma della Guardia di Finanza.

Il riassunto delle informazioni di interesse fiscale di ciascun contribuente è contenuto in un sistema denominato Serpico, come il famoso poliziotto newyorkese interpretato da Al Pacino (in realtà è l'acronimo di Servizi per i contribuenti), in grado di processare 24.200 informazioni al secondo. Basta digitare un codice fiscale e salta fuori tutto ciò che riguarda la persona e anche il suo nucleo familiare: quanto dichiara di guadagnare, qual è il suo patrimonio immobiliare, le bollette delle utenze domestiche, le macchine e le motociclette che tiene in garage, le polizze assicurative, le eventuali iscrizioni a palestre e centri sportivi e le spese sopra i 3 mila euro (3.600 con l'Iva).

Non solo. Da lunedì 24 giugno ci saranno tutti i dati sui rapporti bancari e finanziari (entro il 31 ottobre aziende di credito e intermediari dovranno trasmettere quelli del 2011): saldi finali e iniziali e somma dei movimenti su conti correnti, conti di deposito, gestioni patrimoniali, fondi comuni, derivati, fondi pensione, gli estratti conto delle carte di credito e perfino gli accessi alle cassette di sicurezza. Mettendosi davanti a un computer e analizzando questi flussi di denaro gli 007 del fisco potranno compilare delle liste di contribuenti a rischio, sui quali accendere un faro. Lotta dura agli evasori, finalmente? Martedì 25 giugno, a "Porta a porta", Befera c'è andato più che con i piedi di piombo. Parlando di misura straordinaria. E addirittura auspicando un ritorno alla normalità.

In realtà, Serpico non ha neanche bisogno di essere interrogato: è lui stesso ad avvertire gli ispettori quando si imbatte in un contribuente che dichiara un reddito incompatibile con il suo tenore di vita. Insomma, un vero Grande Fratello, cui non sfugge davvero nulla. Eppure abbiamo un'evasione fiscale che nessuno sa davvero quanto sia grande, il che la dice lunga. Ma che stime come quelle del britannico Richard Murphy, inserito da "International Tax Review" nell'elenco delle cinquanta persone più influenti al mondo in materia di fisco e fondatore di Tax Justice Network, collocano intorno a quota 180 miliardi di euro l'anno.

Una cifra rispetto alla quale, secondo l'Agenzia delle entrate, nel 2011 sarebbero stati recuperati 12,7 miliardi. Già così sarebbe un po' poco. Ma non è neanche vero. Perché 5,5 miliardi vengono da dichiarazioni presentate, ma le cui imposte non sono state poi versate. Il recupero di evasione attraverso accertamento si ferma a 7,2 miliardi e cioè al 4 per cento tondo del totale. Briciole: secondo l'Ocse, su questo fronte facciamo peggio solo di Turchia e Messico. Equitalia, si è scoperto nei giorni scorsi, dovrebbe riscuotere 545 miliardi, che in parte risalgono addirittura al Duemila. Una cifra virtuale, dato che molti dei contribuenti iscritti ai ruoli risulteranno oggi insolventi o addirittura già falliti. Una macchina fiscale faraonica, all'avanguardia tecnologica, dunque, per un risultato davvero misero.

Delle due l'una: o la visita guidata che fa apparire la sede della Sogei come il quartier generale della Nasa è una sceneggiata ben costruita, oppure quando suona il campanello d'allarme di Serpico all'Agenzia delle entrate, alla quale vengono girate tutte le segnalazioni, si tappano per bene occhi e orecchie. La storia che è montata negli ultimi mesi intorno alla revisione del cosiddetto redditometro suggerisce che sia senz'altro buona la seconda ipotesi.

Il nuovo strumento, come già il vecchio, è stato concepito per mettere a confronto entrate e uscite dei contribuenti, allo scopo di individuare quelli sospetti e dunque meritevoli di un approfondimento. Nella nuova versione nella valutazione del tenore di vita sarebbero dovute entrare, oltre alle spese certe, come per esempio l'acquisto di un'automobile, anche quelle presunte, calcolate sulla base di griglie di dati Istat tarate sulle caratteristiche del contribuente (dalla professione alla composizione del nucleo familiare, fino alla dimensione del comune di residenza). Spese stimate, dunque, attribuite salvo prova contraria.
Befera ha annunciato che il nuovo redditometro era pronto proprio nel pieno della campagna elettorale per le ultime elezioni politiche. Con ciò dimostrandosi molto ingenuo o molto furbo. Già, perché non ci voleva un veggente per immaginare che sarebbe scoppiato il finimondo. Come infatti è regolarmente successo. Monti, all'epoca premier, ha subito parlato di bomba a orologeria piazzata sotto palazzo Chigi dal suo predecessore. Silvio Berlusconi si è affannato a negare ogni paternità del nuovo strumento di indagine fiscale, dal quale lesto ha preso le distanze. Prontamente imitato dall'allora segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. Per non parlare di Beppe Grillo, che ha incitato le sue folle a dare direttamente fuoco a Equitalia.

Alla fine, il nuovo redditometro è stato di fatto neutralizzato. Prima è arrivata una franchigia di 12 mila euro. Se lo scostamento tra dichiarazione e consumi è al di sotto di quella soglia, allora non se ne fa niente: mille euro tondi al mese di sospetta evasione passano in cavalleria. Poi è stata introdotta una nuova barriera: perché il redditometro possa entrare in funzione, lo scostamento tra entrate e uscite deve risultare superiore al 20 per cento (ma pare che agli ispettori sia stato chiesto di intervenire solo davanti a una forchetta ben più ampia di quella fissata ufficialmente). Quindi è stata praticamente cancellata la novità delle griglie dell'Istat per pesare presuntivamente i consumi, che entrerebbero in ballo solo in un secondo tempo dell'eventuale accertamento e alle quali il contribuente potrebbe opporsi dimostrando di avere abitudini o caratteristiche particolari (e vai a sapere se chi porta a spasso, e non per scelta, una zucca pelata potrà contestare la spesa per il barbiere). Infine, l'Agenzia delle entrate ha annunciato che il suo nuovo strumento di punta per la lotta all'evasione verrà utilizzato in non più di 35 mila casi. Una scelta più che eloquente, se si pensa che lo scorso novembre Befera aveva parlato di 4,3 milioni di nuclei familiari, in pratica uno su cinque, che vive in un modo incompatibile con quanto dichiarato al fisco. La caccia grossa punterebbe dunque su un po' meno di un evasore per ogni cento sospettati (35.000 su 4.300.000 fa lo 0,8 per cento). Una piroetta che non è sfuggita ai magistrati contabili: «Decisioni ondivaghe e contrastanti», hanno scritto a maggio gli uomini della corte dei Conti. Anche perché l'operazione di sabotaggio al redditometro è solo l'ultimo di una serie di favori elargiti a piene mani dalla politica al popolo degli evasori (vedere il box a pagina 32)

PRIMATO EUROPEO NEL LUSSO

L'Italia non è un Paese povero, ma un povero Paese, per dirla con Charles De Gaulle. Abbiamo l'1 per cento della popolazione mondiale e il 5,7 per cento del totale della ricchezza netta planetaria. Un recente studio della Bundesbank dice che il patrimonio medio delle famiglie italiane (163.900 euro) è più del triplo di quelle tedesche (51.400). Secondo la Banca d'Italia, che ha valutato la ricchezza dei nuclei familiari a fine 2011 in 8.619 miliardi di euro, siamo nei primi 20 posti (su 200) nella graduatoria mondiale in termini di ricchezza netta pro capite. Per gli analisti del Crédit Suisse, gli italiani con oltre un milione di dollari (prima casa inclusa) sono un milione e 400 mila. L'Associazione italiana private banking conta 606 mila nuclei familiari con oltre 500 mila euro (immobili esclusi). E il mercato nazionale dei beni di lusso valeva, nel 2012, 15 miliardi. Risultando così, secondo l'Eurispes, il primo in Europa. Però l'80 per cento (il 96 al Sud) di coloro che presentano la dichiarazione Isee per l'accesso a prestazioni o servizi sociali è pronto a giurare di non avere neanche un conto corrente o un libretto di risparmio. Dev'essere proprio che i soldi li tengono sotto il materasso.

Certo: una cosa è il patrimonio; un'altra il reddito. Un poveraccio può anche ereditare dalla nonna un comò stipato di sterline d'oro e diventare ricco d'improvviso. Ma non capita poi così spesso. Tra le due grandezze c'è una qualche relazione. I dati Ocse raccolti a palazzo Koch dicono che alla fine del 2011 in Italia la ricchezza nazionale media era pari a otto volte il reddito disponibile lordo delle famiglie. Strano: negli Stati Uniti, per esempio, il rapporto è 5,3. Qualcosa non torna.

E quel qualcosa è proprio l'evasione fiscale. Un fenomeno massiccio, ma dai contorni sfocati: a differenza che in Inghilterra, dove viene calcolata ogni anno fino all'ultimo penny, da noi non esistono dati ufficiali. Così, bisogna affidarsi alle elaborazioni dei centri studi. I numeri di Tax Research UK parlano chiaro. Dicono che in Italia si registra un'evasione pari al 27 per cento del gettito complessivo (e che da sola vale più di un quinto del totale europeo), mentre la Germania sta a quota 16 per cento e la Francia al 15. La Confcommercio stima il fenomeno in 154 miliardi; la Confindustria in 124,5. Difficile dire chi abbia ragione. L'unica cosa certa è che siamo a livelli tali da consentire la realizzazione di un vero e proprio miracolo come quello del 2009 (ultimo dato disponibile), quando gli italiani hanno speso 918,6 miliardi dopo averne dichiarati 783,2 (lordi, per giunta). E chissà da dove è arrivata la differenza.

IL SEGRETO DI PULCINELLA

L'analisi delle dichiarazioni per classi di reddito fotografa un Paese di morti di fame. Il 27 per cento dei 41 milioni di contribuenti dichiara niente. O talmente poco che al dunque, tra detrazioni e deduzioni, non versa al fisco un euro bucato. Tra coloro che qualcosa pagano, la pattuglia più nutrita (oltre 6,5 milioni) è quella che si colloca tra i 15 e i 20 mila euro di reddito, seguita da quella di chi ne racimola tra i 20 e i 26 mila. Nel Paese che rappresenta il sesto mercato al mondo per il consumo di champagne, solo 31.752 fortunati ammettono di riuscire a portare a casa più di 300 mila euro l'anno.

Dove si annidino, si fa per dire, gli evasori è il segreto di Pulcinella. Se si mettono a confronto le dichiarazioni dei redditi con i dati di un'indagine campionaria a partecipazione anonima (e quindi presumibilmente veritiera) della Banca d'Italia, vengono fuori tassi di evasione pari all'83,7 per cento per i proprietari di immobili, al 56,3 per i lavoratori autonomi e gli imprenditori e al 44,6 per i dipendenti o pensionati che svolgono anche un'attività privata. Il risultato è che nel 2011 il fisco, secondo un'elaborazione della Lef (l'Associazione per la legalità e l'equità fiscale), ha pesato per l'82 per cento su chi ha un impiego fisso e chi ha raggiunto l'età per starsene ai giardinetti. Nel 2012 (per il 2011) i titolari dei negozi di abbigliamento e calzature hanno dichiarato in media 6.500 euro. Cioè un terzo dei loro commessi (la dichiarazione media dei dipendenti è di 20 mila euro). E poco più della metà della soglia di povertà, fissata a 1.011 euro al mese per una famiglia di due persone.

La Guardia di Finanza quando fa i controlli potrebbe anche andare alla cieca. Nei primi dieci mesi del 2012 a Palermo ha colto in castagna l'85,95 per cento dei commercianti cui ha fatto visita, scoprendo che si guardavano bene dal rilasciare scontrini o ricevute fiscali (a livello nazionale, tra gennaio e maggio 2013, le verifiche sono andate a segno nel 33 per cento dei casi). Il fatto è che, nonostante un esercito di oltre 90 mila persone tra dipendenti dell'Agenzia e Guardia di Finanza (negli Usa sono centomila, ma il loro Pil è otto volte superiore al nostro) di controlli in Italia se ne fanno pochi. Quelli veri sono non più di 250 mila, ha scritto la Corte dei Conti: uno ogni 20 potenziali evasori. Non basta. Anche coloro che vengono stanati, se decidono di opporsi alle richieste del fisco, hanno ottime possibilità di farla franca: nel 2011 le commissioni tributarie regionali hanno dato loro ragione nel 43,4 per cento dei casi. Risultato: il tasso di riscossione di Equitalia è sceso nel 2012 all'1,94. E non ci sarebbe da sorprendersi se calasse ulteriormente, dopo che il governo di Enrico Letta ha pensato bene di spuntare ulteriormente le armi della società di riscossione (vedere il box a pagina 31)

L'ESEMPIO DELLA SVEZIA

Il 22 giugno del 2013 il professor Angelo Panebianco ha avuto un'alzata d'ingegno. E ha scritto sul "Corriere della Sera": «Per contrastare, come è doveroso fare, l'evasione fiscale, non basta, anche se è ovviamente necessario, usare gli strumenti repressivi: bisogna anche ridurre in modo cospicuo le tasse. Soltanto una riduzione della pressione fiscale, infatti, può spingere l'evasore, o il potenziale evasore, a rifare il calcolo delle proprie convenienze, a cambiare la propria valutazione dei vantaggi e dei rischi dell'evasione».

Non è così. Intanto, come annota il rapporto Eurispes 2013, «in Italia i livelli di tassazione sono sostanzialmente in linea con quelli dei più importanti Paesi industrializzati: per esempio, per un reddito di 45 mila euro l'imposizione media italiana ammonta al 29,8 per cento e quella tedesca al 30,4». E poi: pensare che la via maestra per sconfiggere l'evasione sia il ribasso delle aliquote è semplicemente sbagliato.

Basta prendersi la briga di leggere quanto scrive uno studioso come Alessandro Santoro, professore di Scienza delle finanze e Politica economica a Milano Bicocca ed ex consulente tributario del ministero delle Finanze, nel saggio "L'evasione fiscale", pubblicato dal Mulino: «Il confronto internazionale indica che Paesi dove il livello delle aliquote è da sempre più elevato del nostro sono invece caratterizzati da livelli di evasione molto più ridotti. Ad esempio, secondo i dati riportati in uno studio di qualche anno fa da Alberto Alesina e Mauro Marè, alla metà degli anni Novanta l'evasione in Norvegia o in Svezia era pari o di poco superiore al 10 per cento del Pil, un livello inferiore alla metà di quello italiano, a fronte di una pressione tributaria ben superiore». Scrive ancora Santoro: «L'evasione non sembra un fenomeno recente in Italia: sempre Alesina e Marè ricordano che gli italiani evadevano molto anche quando le aliquote, e la pressione tributaria complessiva, erano ben al di sotto della media europea». La controprova la fornisce una ricerca elaborata nel 2011 da Contribuenti.it: in Svezia il fisco si porta a casa il 56,4 per cento dei redditi dei contribuenti, ma l'evasione è ferma a quota 7,6 per cento.

Soprattutto in un Paese come l'Italia, dove la quota di lavoratori autonomi è altissima (sono il 24 per cento del totale, contro una media Ue del 13), c'è un solo modo di combattere davvero la piaga dell'evasione: il contribuente deve essere convinto che il fisco sa tutto di lui e che quindi se prova a barare sarà immediatamente scovato e ne pagherà le conseguenze. «Il problema è la percezione del fattore di rischio», conferma Murphy a "l'Espresso". I partiti la pensano in un altro modo. Come lo ha spiegato senza troppi giri di parole Angelino Alfano, che non è un viandante ma il vice presidente del consiglio: «Noi non vogliamo inseguire gli evasori con i cani». Ecco.

(28 giugno 2013)

venerdì 28 giugno 2013

Piano del lavoro? Non scherziamo



Con il suo "piano per il lavoro" il governo si conferma in grado più di disfare che di fare: dall’Imu, alla Tobin tax, all’Iva, agli F35, è tutto un rinvio in attesa di tempi migliori. Il "pezzo forte" del decreto è il ripristino sotto smentite spoglie della fiscalizzazione degli oneri sociali degli anni ’80 e ’90: ma l’esperienza passata è eloquente circa l’inefficacia di incentivi temporanei alle assunzioni.

di Tito Boeri, da Repubblica, 27 giungo 2013
La buona notizia è che da ieri gli annunci di roboanti “piani del lavoro” prossimi venturi dovrebbero essere finiti. I reiterati annunci di sgravi fiscali e contributivi sulle nuove assunzioni delle ultime settimane avevano spinto i datori di lavoro a rinviare le assunzioni in attesa di questi provvedimenti.Così facendo hanno preparato il terreno per sprechi di denaro pubblico, dato che queste assunzioni premiate dalla nuova normativa ci sarebbero state comunque, anche senza gli incentivi dello Stato.

La cattiva notizia è che gli unici provvedimenti davvero efficaci che sono stati varati ieri sono quelli che rimuovono una serie di oneri burocratici introdotti, per scoraggiare l’abuso della “flessibilità cattiva”, dalla legge 92. Quella che passerà ai posteri come la riforma Fornero del mercato del lavoro viene così modificata a meno di un anno dalla sua entrata in vigore. In questa scelta, il governo si conferma in grado più di disfare che di fare. Sembra trovare consenso al suo interno soprattutto nel rimettere mano a misure varate da esecutivi precedenti, come nel caso delle norme sulla pignorabilità della prima casa o di quelle sulle funzioni di Equitalia. Al di là del merito del disfare, non è certo tornando indietro che si danno quei segnali di svolta che gli investitori, i mercati e le famiglie si attendono oggi dalla politica economica in Italia.

Il piano per il lavoro ripristina sotto smentite spoglie la fiscalizzazione degli oneri sociali degli anni ’80 e ’90. La riduzione del 33 per cento del costo del lavoro corrisponde infatti alla somma dei contributi versati da datori di lavoro e dipendenti alle casse dell’Inps. Gli sgravi riguardano le sole assunzioni di persone con meno di 30 anni fino all’esaurimento delle risorse disponibili e possono avere una durata massima di 18 mesi. L’esperienza passata è eloquente circa l’inefficacia di incentivi temporanei alle assunzioni. Il bonus assunzioni del 2001, meno generoso di quello contemplato ieri dal governo, era costato molto più del previsto imponendo al governo di introdurre lotterie (i cosiddetti rubinetti) nella concessione del sussidio per evitare una voragine nei conti dello Stato. E quando c’è incertezza circa chi potrà davvero beneficiare degli sgravi, finiscono per fruirne solo i datori di lavoro che avrebbero assunto comunque. Difficile che un datore di lavoro decida di creare posti di lavoro a tempo indeterminato davvero aggiuntivi in virtù di un contributo pubblico che poi potrebbe non essere erogato. 

I due miliardi spesi nel 2002 per i bonus assunzioni, alla prova dei fatti, non hanno creato posti di lavoro aggiuntivi, nonostante anche allora la legge mettesse una serie di paletti per evitare che i datori di lavoro utilizzassero i fondi per finanziare posti già creati. Non dissimile l’esperienza degli incentivi fiscali alla trasformazione di contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato (e alla stabilizzazione di contratti precari) introdotti pochi mesi fa, nell’ottobre 2012. I fondi disponibili sono stati esauriti in meno di un mese e stime preliminari (si veda il contributo di Bruno Anastasia su lavoce. info) ci dicono che 2/3 degli incentivi sono andati a imprese che avrebbero comunque assunto quei lavoratori. A Torino addirittura la totalità degli sgravi sarebbe andata a imprese che non hanno modificato le loro politiche del personale dopo il varo della legge.

Anche nel caso dei provvedimenti varati ieri, gli stanziamenti sono limitati. Si parla di circa 150 milioni all’anno per i prossimi 4 anni. Ai salari medi di giovani con meno di 30 anni, questo vuol dire circa 23.000 lavori che ogni anno fruiranno dell’incentivo. Per dare un’idea della portata dell’intervento, bene ricordare che oggi in Italia tra disoccupati, lavoratori scoraggiati, cassintegrati a zero ore e sottoccupati, ci sono più di 7 milioni di persone in condizioni di disagio occupazionale. Come si diceva prima, molto difficile che siano posti aggiuntivi. E i lavoratori assunti, soprattutto nelle piccole imprese, potrebbero venire licenziati non appena lo sgravio si interrompe, come evidenziato dall’esperienza della Spagna con provvedimenti di conversione di contractos temporales in contratti a tempo indeterminato. Come spiegano documenti ufficiali di governo e parti sociali iberiche, queste misure creano dei veri e propri caroselli in cui le imprese assumono lavoratori fino a quando durano gli aiuti, per poi licenziarli subito dopo e magari assumere altri lavoratori per fruire nuovamente degli incentivi.

L’esaurimento dei fondi disponibili potrebbe intervenire molto presto. Ogni mese in Italia ci sono circa 120.000 assunzioni di persone con meno di 30 anni. Questo significa che, anche senza contare il probabile incremento delle assunzioni subito dopo l’entrata in vigore del provvedimento, i fondi potrebbero venire esauriti in meno di una settimana. Forse per questo il governo ha pensato di introdurre requisiti aggiuntivi: i beneficiari devono essere disoccupati da almeno sei mesi oppure avere solo la licenza media oppure ancora devono venire da famiglie monoreddito. Al di là della natura più o meno discutibile di alcune di queste restrizioni, ci vorranno controlli accurati (dunque burocrazia) per verificare il rispetto di questi requisiti.

Il governo poteva essere più coraggioso nel varare riforme a costo zero per le casse dello Stato, ad esempio introducendo quel canale di ingresso alternativo al precariato che la legge 92 non ha saputo definire. Poteva anche stabilire per legge che i lavoratori esodati possono cominciare a ricevere almeno la pensione integrativa, una misura a costo zero per le casse dello Stato e importante per il futuro della previdenza complementare.

Si potevano anche definire delle priorità nella destinazione delle poche risorse disponibili e in quelle che, speriamo, arriveranno dalla spending review, se mai si inizierà a farla sul serio. Ad esempio, era possibile cominciare a introdurre sgravi fiscali o sussidi condizionati all’impiego per i salari più bassi, destinando a questi interventi tutte le risorse disponibili invece di disperderle in tanti rivoli di importo limitato (il decreto varato ieri ha misure che valgono meno dello stipendio annuale di un singolo calciatore!).

Ma questo è un governo debole, che sin qui, oltre agli annunci, ha proceduto soprattutto di rinvio in rinvio – dall’Imu, alla Tobin tax, all’Iva, agli F35– in attesa di tempi migliori. Non sappiamo giudicare se potranno, a bocce ferme, arrivare davvero tempi migliori negli equilibri politico- parlamentari. Ma è certo che la nostra economia non andrà meglio se non si riprende il cammino delle riforme economiche e se non si dimostra nei fatti, oltre che nelle parole, di accordare priorità al lavoro.

Postscriptum:
Come volevasi dimostrare, i diritti per partecipare all’aumento di capitale Rcs non valgono più nulla. Banca Intesa, come ricordavamo una settimana fa, li ha acquistati a caro prezzo dai membri del patto di sindacato che non hanno partecipato all’aumento. Perché questo regalo? Non si potevano utilizzare queste risorse per erogare credito a chi crea posti di lavoro e valore anche per gli azionisti di Banca Intesa? 

(27 giugno 2013)