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martedì 11 giugno 2013

L’incoerenza della Lettanomics



Enrico Letta ha messo il lavoro e la lotta alla disoccupazione al centro delle sua agenda di governo. Si tratta di (buoni) propositi che però mal si conciliano con la zelante accettazione dei vincoli europei (le famigerate politiche di austerity) più volte ribadita dallo stesso premier. Molte riserve suscita anche il “modello di crescita” sul quale si impernia la politica del nuovo governo: trasformare l’Italia nella “piattaforma logistica d'Europa” è davvero una buona soluzione per uscire dalla crisi? 

di Stefano Lucarelli

1. Introduzione 

Un governo di larghe intese difficilmente può proporre una linea coerente di politica economica. L’analisi economica delle istituzioni politiche (new political economy) – una linea di ricerca sviluppatasi a partire dalla scuola della Public Choice i cui risultati, costruiti su ipotesi comportamentali talora eroiche, sono senza dubbio da approfondire – mostra che il disavanzo fiscale sia tendenzialmente più elevato nei governi di coalizione, in cui il potere politico è più disperso. In tal caso infatti tenderà a prevalere una logica di gestione delle risorse pubbliche finalizzata a ridurre gli elementi conflittuali che caratterizzano le varie anime della coalizione[1]. Da qui sorge l’incoerenza che può segnare le politiche economiche messe in campo da un governo di larghe intese. 

Certamente tra i lettori ci sarà chi ricorderà l’aforisma di Giuseppe Prezzolini, secondo il quale “La coerenza è la virtù degli imbecilli”, oppure quello di Oscar Wilde, “La coerenza è l’ultimo rifugio delle persone prive di immaginazione”. Negli aforismi in effetti si può proteggere il buon senso, e forse quanto detto dagli artisti appena ricordati può valere per la coerenza intesa nel senso della logica matematica; in tal senso si dice coerente un sistema in cui non è dimostrabile nulla di contraddittorio, quando cioè non sono dimostrabili contemporaneamente un’espressione e la sua negazione. Dinanzi alla complessità della politica, del funzionamento delle istituzioni, degli imprevisti che sempre caratterizzano la storia, la coerenza logico-matematica può risultare dannosa. Ciò che invece conta è una coerenza di diversa natura, quella stessa che a ben vedere è data dal buon senso. Si può dire che un sistema economico e sociale è coerente se è in grado di cambiare nel corso del tempo quello che c’è da cambiare, facendolo in tempi ragionevoli. La coerenza di un sistema economico e sociale non riguarda tanto la capacità di mantenere semplicemente un sentiero di sviluppo, ma riguarda la capacità di costruire la propria evoluzione, riguarda cioè la capacità di governare dei processi complessi[2]

Il governo Letta ha quanto meno il pregio di aver presentato un’agenda chiara sin dal discorso con cui i ministri designati hanno chiesto la fiducia del Parlamento[3]. Il primo paragrafo del testo del discorso ha un titolo molto significativo – Un governo al servizio dell’Italia e dell’Europa – vera e propria chiave musicale che ci fa comprendere come leggere le note che compongono la sinfonia che segue. Gli altri punti del programma pongono temi rilevanti – le risorse per la crescita, la priorità lavorola riforma della politicala riforma delle istituzioni – che nelle intenzioni del Primo Ministro costituiscono degli impegni cui adempiere per rafforzare l’Italia e l’Europa, ma che rischiano di tradursi in riforme che, sotto la pressione dei vincoli imposti dalla stessa Europa alle politiche economiche nazionali, non aiuteranno il Paese a sollevarsi dalla recessione in cui è precipitato. 

La nostra tesi è che ciò che emerge dall’ordine del discorso, dalle parole posate, dai riconoscimenti generosi (da Napolitano a Bersani, sino a Brunetta) con cui il neo Presidente del Consiglio vorrebbe comunicare la sua abilità nel ricercare compromessi, siano indicazioni di politica economica estremamente disattente ai problemi di coerenza – nel senso da noi proposto – del sistema economico e sociale sia italiano, che europeo. 

2. Preservare i vincoli europei alle politiche economiche nazionali 

Nelle brevi dichiarazioni del 23 Aprile 2013 successive alle consultazioni del Presidente della Repubblica, l’onorevole Letta aveva emblematicamente definito essenziali il problema del lavoro che non c’è e quello della disoccupazione giovanile, riconoscendo addirittura la necessità “di far cambiar linea a una Unione Europea che, fino a oggi, su questi temi non ha dato risposte sufficienti”[4]. Eppure nel discorso per ottenere la fiducia del Parlamento, il primo riferimento all’Europa, che coincide con il primo punto dell’azione di politica economica di questo governo, consiste nell’accettazione di quei vincoli in cui, a ben vedere, è sintetizzata la moda imperante dell’austerity. Letta parla di “processo necessario di risanamento della finanza pubblica”, e lo fa indicando chiaramente una linea di continuità con l’operato del governo Monti. Paradossalmente, lo fa nello stesso periodo in cui è stata dimostrata la non fondatezza di uno dei principali lavori scientifici volti a sostenere l’esistenza di un nesso causale significativo che va dalla riduzione del rapporto debito pubblico/PIL all’incremento della crescita del PIL stesso: “Growth in a Time of Debt”. 

Per essere più precisi quel nesso causale – dato per scontato in Italia da tanti giornalisti, opinionisti ed anche da alcuni economisti che nonostante non abbiano mai fatto una ricerca scientifica sul tema specifico occupano spesso le colonne dei più prestigiosi quotidiani italiani – non è stato mai dimostrato[5]; ciò che invece gli eminenti economisti autori del lavoro su richiamato, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, hanno sostenuto è che i Paesi con un rapporto debito pubblico/PIL superiore al 90% hanno un tasso di crescita medio leggermente negativo[6]. La scoperta di un errore tecnico, e di alcune scelte molto opinabili nella selezione del campione utilizzato per le stime, ha smentito clamorosamente questo risultato. Senza entrare nelle intenzioni dei due economisti, ciò che più conta - come non ha mancato di notare Paul Krugman[7] - “è come il loro lavoro fu analizzato”. Infatti “gli appassionati dell’austerità strombazzarono che il supposto 90% come punto di non ritorno fosse un fatto provato e quindi un motivo per tagliare la spesa pubblica, anche a fronte di una disoccupazione di massa. Così il fiasco dei Reinhart-Rogoff deve essere visto nel più ampio contesto inerente la mania d’austerità: il desiderio ovviamente intenso dei policy makers, dei politici e degli esperti di tutto il mondo occidentale di voltare le spalle ai disoccupati e utilizzare la crisi economica come una scusa per tagliare i programmi sociali.” 

Tutto ciò non sembra scalfire le convinzioni del Primo Ministro Letta che considera probabilmente l’accettazione delle critiche provenienti dalla Germania nei confronti dei PIIGS[8], di conseguenza l’interpretazione totalmente errata e ideologica della crisi europea come una crisi scatenata a causa dello stato delle finanze pubbliche dei Paesi dell’Europa mediterranea + l’Irlanda, e la dipendenza non dichiarabile ma fattuale delle politiche monetarie della BCE dagli umori del sistema creditizio e finanziario all’ombra di Berlino, come passi necessari per giungere agli Stati Uniti d’Europa. In questa convinzione, espressa e confermata in tante occasioni[9], vi potrebbe essere anche una personale rielaborazione della correttezza (in realtà opinabilissima) della scelta impopolare presa dal suo maestro Nino Andreatta nel 1981: il così detto divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia, cioè il fatto che il finanziamento del fabbisogno pubblico non fosse più garantito dalla Banca Centrale, che anzi, per legge, non sarebbe più intervenuta per acquistare all’emissione i titoli di Stato. 

Vale la pena riproporre alcuni passi di un articolo che Andreatta scrisse dieci anni dopo. In esso si trovano tante affermazioni che costituiscono molto probabilmente l’imprinting di un allievo come Letta, colmo di gratitudine, con una formazione da scienziato politico e privo degli strumenti di teoria economica necessari ad individuare le debolezze che caratterizzano le idee del maestro (il quale si mostra consapevole quanto meno di un grande problema, che di seguito mettiamo in luce utilizzando il carattere corsivo): 

“I miei consulenti legali mi diedero un parere favorevole sulla mia esclusiva competenza, come ministro del Tesoro, di ridefinire i termini delle disposizioni date alla Banca d' Italia circa le modalità dei suoi interventi sul mercato e il 12 febbraio 1981 scrissi la lettera che avrebbe portato nel luglio dello stesso anno al ‘divorzio’. Il termine intendeva sottolineare una discontinuità , un mutamento appunto di regime della politica economica ... Il divorzio non ebbe allora il consenso politico, né lo avrebbe avuto negli anni seguenti; nato come ‘congiura aperta’ tra il ministro e il governatore divenne, prima che la coalizione degli interessi contrari potesse organizzarsi, un fatto della vita che sarebbe stato troppo costoso - soprattutto sul mercato dei cambi - abolire per ritornare alle più confortevoli abitudini del passato. ... Senza presunzioni eccessive, questa lettera ha segnato davvero una svolta e il divorzio, assieme all’ adesione allo Sme (di cui era un' inevitabile conseguenza), ha dominato la vita economica degli anni 80, permettendo un processo di disinflazione relativamente indolore, senza che i problemi della ristrutturazione industriale venissero ulteriormente complicati da una pesante recessione da stabilizzazione. Naturalmente la riduzione del signoraggio monetario e i tassi di interesse positivi in termini reali si tradussero rapidamente in un nuovo grave problema per la politica economica, aumentando il fabbisogno del Tesoro e l’escalation della crescita del debito rispetto al prodotto nazionale. Da quel momento in avanti la vita dei ministri del Tesoro si era fatta più difficile e a ogni asta il loro operato era sottoposto al giudizio del mercato. ... Negli anni successivi non divenne certo popolare nei palazzi della politica, ma continuò ad assicurare legami fra la politica italiana e quella dell’ Europa.”[10] 

Letta sembra non ricordarsi la parte oggi più importante della lezione di Andreatta, il fatto cioè che la crescita del debito pubblico rispetto al PIL dipende sostanzialmente dalla spesa per interessi, che a sua volta è significativamente incrementata dopo il divorzio del 1981; egli ha invece continuato a più riprese a sostenere che l’Italia ha fatto nei decenni scorsi troppi debiti[11]. Ciò che invece Letta sembra aver fatto propria è l’idea che l’Italia abbia bisogno di vincoli esteri necessari a sostenere la propria credibilità politica dinanzi agli altri Paesi europei. 

Eppure alcuni obiettivi che il governo Letta fa propri non possono che comportare una forzatura di quei vincoli, non solo per essere attuati, ma anche per dare dei risultati significativi in termini occupazionali e commerciali. Ci riferiamo al progetto per il rilancio dell’occupazione dei giovani in Europa e ai project bondscon cui finanziare la ricerca, due temi su cui il Primo Ministro sembra riporre una grande fiducia, ma che se attuati alle condizioni attuali si rivelano dei palliativi. 

L’Unione Europea avrebbe stanziato per il 2014 6 miliardi di euro per il piano europeo Youth Garantee, che si tradurrebbe in agevolazioni fiscali sulle assunzioni dei giovani alle prime esperienze lavorative. La proposta che il Primo Ministro vorrebbe avanzare comporterebbe un’anticipazione già a partire da Giugno del piano. Occorre segnalare che all’Italia giungerebbero 500 milioni di euro, e che il piano prevede che i giovani si rivolgano ai centri per l’impiego i quali dovrebbero poi trovare le condizioni per attivare entro quattro mesi un contratto di stage o di apprendistato. Tutto ciò avverrebbe in un contesto in cui i datori di lavoro devono fare i conti con una lunga lista di problemi che difficilmente può garantire la riuscita del progetto: il calo degli ordinativi, la difficoltà crescente nel riscuotere i crediti vantati, l’acuirsi delle condizioni alle quali è possibile avere credito da parte delle banche. Occorre inoltre ricordare che il tasso di disoccupazione giovanile in Italia nell’Aprile del 2013 è pari al 40,5% (dati Istat), dichiarano di essere in cerca di lavoro 656 mila giovani (tra i 15 e i 24 anni) che rappresentano il 10,9% della popolazione. 

project bond sono emissioni obbligazionarie riservate a investitori qualificati (società coinvolte nella realizzazione di infrastrutture stradali, reti di telecomunicazione, reti elettriche e di trasporto del gas e altri servizi di rilevanza pubblica) in grado di finanziare nuovi progetti di pubblico interesse, o anche di terminare opere incompiute. L’iniziativa europea “Prestiti obbligazionari Europa 2020” prevede che la Banca Europea per gli Investimenti sostenga parte del rischio entro la percentuale massima del 20%[12]. Letta vorrebbe prevedere nuovi ambiti di applicazione per rilanciare le attività di ricerca e sviluppo, in relazione – ci pare di comprendere – ai settori hi-tech, dell’ambiente e dell’energia. 

È verissimo che la ricerca e sviluppo come quota del PIL, soprattutto quella fatta privatamente dalle imprese (la così detta BERD) è molto bassa in Italia, ma il problema che sembra sfuggire a Letta è che, se si confrontano correttamente le rispettive strutture industriali, le imprese italiane spendono in ricerca quanto le loro omologhe negli altri Paesi[13]. Il problema sta nella specializzazione del sistema produttivo italiano, il quale, prima in seguito alla particolarissima declinazione che la politica industriale nazionale ha assunto a partire dal processo di convergenza verso l’unione monetaria europea, poi in seguito alla deflazione competitiva perseguita dalla Germania[14], appare tecnologicamente in ritardo. Iproject bond per finanziare la ricerca nelle imprese difficilmente potrebbero trasformare il sistema produttivo italiano senza una politica di programmazione nazionale che guidi un cambiamento strutturale volto a sostenere la produzione di beni in grado, da un lato, di ridurre la dipendenza delle imprese italiane dai beni strumentali prodotti all’estero, dall’altro di aspirare a riconquistare quote di mercato estero nei settori a più alto valore aggiunto[15]

Tuttavia una politica industriale nazionale del genere comporta necessariamente la possibilità di escludere le spese per investimenti dal conteggio del deficit dello Stato – punto su cui lo stesso Mario Monti cercò invano di convincere all’inizio del suo mandato la signora Merkel. Certo i project bond potranno sempre trasformarsi in incentivi di cui potranno beneficiare ipoteticamente nuove sedi italiane di grandi multinazionali impegnate in quei mercati in cui la specializzazione produttiva necessita della ricerca. In tal caso alcuni effetti positivi, quanto meno in termini occupazionali, potrebbero esserci, saremo tuttavia molto distanti dalla realizzazione di un sistema nazionale di innovazione e di un modello di crescita stabile. Soprattutto legheremo il nostro destino non tanto all’Europa, come auspicato da Enrico Letta, quanto alle scelte strategiche di alcuni capitalisti dei Paesi del Nord Europa. 

3. Grande coalizione e politiche incoerenti. L’esempio dell’Imu e Expo 2015
 Il 5 Maggio, in una nota trasmissione televisiva, il conduttore ha chiesto al neo Primo Ministro delucidazioni circa l’impegno di abolire l’Imu. Il punto è percepito come una delle condizioni dalla quale dipende la stabilità di questo governo. La risposta è significativa: “Parlare di Imu è riduttivo. Il tema è la casa. ... Il nostro è un Paese che ha visto negli ultimi tempi il crollo dell’edilizia, il crollo dell’edilizia ha buttato giù profondamente l’economia italiana ... nel mio programma c’è scritto con chiarezza che andrà superata l’Imu così come è stata costruita, andrà messo, con grande impegno, un progetto che abbia a che fare con gli affitti agevolati per le giovani coppie; terzo, sempre in materia fiscale, bisogna rilanciare il tema delle ristrutturazioni, incentivate fiscalmente, ecologiche ed eco-compatibili.”[16] Letta si sforza di dare un messaggio che rinvia in effetti ad un modello di crescita che, a determinate condizioni, può presentare una certa coerenza, senza per questo essere esente da critiche importanti. Sebbene ciò su cui vorremmo porre maggiormente l’attenzione, come si vedrà, è il gioco delle parti che per tutto Maggio ha caratterizzato le due diverse anime del consiglio dei ministri, sino al consiglio implicito ricavabile dalle recentissime Considerazioni finali da parte del Governatore della Banca d’Italia, l’ipotetico modello di crescita che il Primo Ministro sembra avere in mente merita alcune considerazioni. 

In linea con il precedente governo Monti, il fine principale consiste nell’attrazione di capitali stranieri in Italia, nella forma di investimenti diretti esteri, creando opportunità di business[17]. In più rispetto al precedente governo c’è l’accento posto sul presunto ruolo trainante dell’edilizia. A questo schema andrebbero ricondotte anche le considerazioni sul made in Italy e su Expo 2015 – che Letta ha definito nel suo discorso di insediamento “grande occasione che non dobbiamo mancare” ed “evento strategico” – ma che a ben guardare rappresenta un evento che rischia di alimentare orizzonti di redditività di breve periodo. Il progetto Expo è stato per molto tempo solo un brand che ha incontrato enormi difficoltà nel coinvolgimento delle banche finanziatrici. Esso si concretizzerà, soprattutto, in enormi padiglioni istallati in aree agricole nel hinterland milanese, che al termine dell’evento saranno snaturate e risulteranno pronte per nuovi permessi di edificazione. Ciò rischia di alimentare l’eccesso di offerta, che nonostante la crisi dell’edilizia, continua a caratterizzare molte recenti costruzioni soprattutto nel Nord del Paese[18]

In sintesi Letta sembra aver in mente un’affermazione mal pensata, ma spesso riproposta soprattutto dal centro-sinistra: occorre trasformare l’Italia nella piattaforma logistica d'Europa. Come ha ricordato a più riprese uno studioso esperto di economia regionale ed urbana, Antonio Giulio Calafati, diventare la piattaforma logistica d'Europa sta conducendo alla concretizzazione disordinata di un faraonico programma infrastrutturale per vedere transitare le merci attraverso il nostro territorio. Il dibattito politico e l’informazione pubblica sono vittime di ciò che Calafati definisce un blocco cognitivo: si diffonde la certezza che da questo transito si avranno benefici economici collettivi. La sola eccezione al blocco cognitivo è rappresentata dai movimenti di protesta, nei confronti dei quali, nonostante l’appoggio espresso da molti amministratori locali, si programma e si realizza una repressione estremamente calibrata sotto l’attenzione vigile della Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri, colei che già nel precedente governo – dove fu Ministro dell’Interno – si è dimostrata più in grado di richiamare dinanzi a questi episodi la ragion di Stato

Expo 2015 ha cominciato a raccogliere i capitali necessari alla sua realizzazione solo dopo che sono emerse alcune condizioni coerenti con questo modello di crescita, estremamente instabile, e caratterizzato da alti costi sociali. Da qui emerge un indizio: forse il declino italiano nasce proprio dall’incapacità di fornire un resoconto attendibile, pertinente e fondato, degli effetti delle politiche pubbliche[19]

Torniamo all’Imu. Negli ultimi giorni di Maggio, dopo critiche molto ben argomentate sollevate da economisti e da esperti di ragioneria pubblica[20] - alle quali vorremo aggiungerne un’altra ricordando lo stato di grande incertezza in cui sono cadute le finanze di molti Comuni, anche virtuosi, dopo l’abolizione dell’Ici, situazione che paradossalmente è stata acuita dalle modalità con cui l’Imu è stata introdotta[21] - non si sono fatti passi avanti rispetto all’espediente tecnico già dichiarato nel discorso del 29 Aprile: la sospensione decisa dal Consiglio dei Ministri della prima rata di pagamento del tributo fino al 16 Settembre, nell’attesa che il governo riformi l’imposta. 

Il garante del tanto lavoro che occorrerebbe svolgere, è un ex uomo di Banca d’Italia, il Ministro dell’Economia e delle Finanze, Fabrizio Saccomanni. Un Ministro che, per l’appunto, non può trascurare i punti di vista che il Governatore della Banca Centrale propone tra le righe dei suoi interventi. Nelle recentiConsiderazioni finali, Ignazio Visco ha utilizzato parole che, sebbene non si riferiscano mai esplicitamente all’imposta sulla prima casa, sono estremamente chiare: “Riduzioni di imposte, necessarie nel medio termine, pianificabili fin d’ora, non possono che essere selettive, privilegiando il lavoro e la produzione: il cuneo fiscale che grava sul lavoro frena l’occupazione e l’attività d’impresa. L’evasione distorce l’allocazione dei fattori produttivi, causa concorrenza sleale, è di ostacolo alla crescita della dimensione delle imprese, aumenta il carico tributario per i contribuenti in regola. Va contrastata anche nella dimensione sovranazionale. Un contributo importante a migliorare la correttezza fiscale può derivare da interventi di semplificazione e razionalizzazione delle imposte e degli adempimenti. La certezza delle misure fiscali e il loro attento ed equilibrato disegno possono incidere sulle aspettative, quindi sulla domanda, più e meglio di sgravi immediati ma dall’incerta sostenibilità.”[22] 

Ci pare che le parole espresse dal Governatore Visco possano tradursi nel modo seguente: l’eliminazione dell’Imu non è necessaria, anzi porre al centro dell’agenda governativa questo tema può contribuire ad incrementare l’incertezza che caratterizza da troppo tempo l’intero sistema tributario italiano, e che ha effetti negativi sulla domanda effettiva. I veri problemi del sistema tributario italiano riguardano due punti innanzitutto: 1. la riduzione della differenza fra quanto pagato dal datore di lavoro e quanto incassato effettivamente dal lavoratore (il così detto cuneo fiscale); 2. la lotta all’evasione fiscale. 

4. Chi è Golia? 

L’attuale Presidente del Consiglio ha concluso il suo discorso alle Camere richiamando un celebre racconto biblico, e proponendo una interessante sequela di metafore: 

“Davide ‘prese in mano il suo bastone, si scelse cinque ciottoli lisci dal torrente e li pose nella sua sacca da pastore, nella bisaccia; prese in mano la fionda e si avvicinò a Golia’. Noi, dal ‘torrente’ delle idee sulle quali ci siamo confrontati abbiamo scelto i nostri ‘ciottoli’, le nostre proposte di programma. La ‘fionda’ l’abbiamo in mano insieme, governo e Parlamento. Ma di Davide ci servono il coraggio e la fiducia. Il coraggio di mettere da parte quella ‘prudenza politica’ che spinge a evitare il confronto con le nostre paure, a rimanere nella valle e, se proprio decidiamo di muoverci, a farlo con indosso l’armatura. Il coraggio di affrontare la sfida liberandoci dell’armatura, forse lo abbiamo trovato. La fiducia è quella che chiediamo al Parlamento e agli italiani.” Diamo pure fiducia al nostro Davide e facciamo eroicamente finta che egli sia stato in grado di scegliere i ‘ciottoli’ più adeguati alla situazione e che la ‘fionda’ di cui si è armato sia effettivamente quella capace di lanciare quei ciottoli nel modo migliore. Eppure le nostre perplessità non verrebbero meno: non ci appare casuale il fatto che in questa affastellata stipa di figure non sia spiegato cosa rappresenti Golia. Purtroppo un Davide che non sappia individuare il gigante nemico che deve abbattere partirebbe con il piede sbagliato. Soprattutto nel caso in cui Golia fosse quell’Unione Monetaria Europea – un’Europa senza Europa – della quale l’onorevole Letta sembra proclamarsi fedele servitore. 

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