Crisi, poveri lavoratori: come non farcela anche con un posto fisso
Non solo precari e disoccupati: cresce in Italia il fenomeno dei "working poor", persone che hanno un reddito (relativamente) sicuro, ma è troppo basso per garantire una vita dignitosa. Colpa di stipendi inferiori rispetto agli altri paesi europei, mala gestione del passaggio all'euro, costo del lavoro, disuguaglianze crescenti. Tutti i numeri, e qualche soluzione possibile, nel libro inchiesta "Senza soldi", di Walter Passerini e Mario Vavassori
Frustrazione. Scontentezza. Paura di non farcela. Provate a chiedere a colleghi e amici «quanto guadagni?» e, nel 99% per cento dei casi, riceverete un’identica risposta: «Meno di quanto merito, meno di quanto mi occorre».
Una risposta veritiera, secondo Walter Passerini e Mario Vavassori, autori del libro Senza soldi. Sottopagati, disoccupati, precari (Chiare Lettere), che denuncia una situazione allarmante: avere un posto di lavoro non sconfigge la povertà, e a far parte della numerosa schiera dei working poor - ilavoratori poveri – non sono solo i precari (per i quali 1000 euro al mese di cinque anni oggi fa sono un miraggio), ma anche i lavoratori dipendenti, pubblici e privati. Amministratori delegati a parte – con uno stipendio medio, nel 2011, di 920.644 euro lordi, 100.000 più del 2012 – colletti bianchi e blu «ormai vivono dinamiche salariali identiche». Ma a soffrire sono anche dirigenti e quadri (categoria, quest’ultima, che tuttavia resiste meglio di tutte alla crisi), sottolineano gli autori (Passerini, giornalista, è anche coautore del libro Senza pensioni).
«Si è rotto il binomio lavoro-sicurezza, mentre l’art. 36 della Costituzione, secondo cui il lavoro dovrebbe assicurare al lavoratore e alla sua famiglia una vita dignitosa e libera, sembra non valere più», scrivono gli autori. Insomma oggi si può essere poveri e insicuri pur avendo un lavoro, pur se ad altissima utilità sociale, come nel caso di infermieri o maestri, o ad elevato contenutointellettuale.
Il problema resta il binomio tra una tassazione altissima (47,6 per cento nel 2011, con un fiscal drag che si “mangia” eventuali aumenti), e stipendi molto bassi: in media 19.150 euro, contro i 29.677 del Regno Unito, 25.128 della Germania, 22.677 della Francia, 21.111 della Spagna (in pratica, un italiano guadagna 1900 euro, contro 2600 della Germania, 2950, nel Regno Unito, 270 in Norvegia, 3050 in Svizzera).
Il colpevole principale resta, però, soprattutto, un’inflazione che – a causa anche di un mal gestitopassaggio all’euro – ha annullato l’aumento delle buste paga. Che sono cresciute negli ultimi dieci anni (+122,2% per gli operai, 123,6 per gli impiegati, 129 per i quadri, 121,3 per i dirigenti), ma solo a livello nominale, visto che i prezzi di beni e servizi sono aumentati del 133,1%.
Sotto accusa, anche, le politiche salariali e retributive degli ultimi anni, che hanno puntato a un’uguaglianza generica, finendo per «appiattire i differenziali e non individuare né costruire vere pratiche di meritocrazia». Neanche bonus e premi aggiuntivi allo stipendio di base hanno consentito di fare la differenza, perché la quota variabile dello stipendio resta bassa «e questo la dice lunga sulla forza di accordi sindacali non in grado di innestare un circolo virtuoso e consolidare prassi positive». L’unico ascensore sociale resta quello meno meritocratico, ossia l’anzianità.
Il risultato è un aumento dal 6,9 all’11,1% delle persone che soffrono di una grave deprivazione materiale (con difficoltà a pagare bollette, riscaldarsi e mangiare adeguatamente, permettersi auto ed elettrodomestici). E una crescita delle disuguaglianze, con il 20% più ricco delle famiglie italiane che detiene il 37,4% della ricchezza.
Anche tra gli impoveriti la situazione non è identica: se la passano peggio, nulla di nuovo, i giovani(il 40% di loro è disoccupato, mentre ha perso drammaticamente terreno la busta paga di quelli che riescono ad entrare e aumenta il differenziale tra giovani e anziani professionisti). E, insieme ai giovani, le donne, discriminate sia dall’assenza di servizi, sia dalla quota di retribuzione variabile sistematicamente inferiore a quella degli uomini («le imprese hanno poco interesse a incentivare le donne, anche quando occupano le posizioni più elevate»); sia, infine, al momento della pensione(1595 euro contro 1165 per le pensioni di anzianità, 562 contro 811 per le pensioni di vecchiaia).
Come se ne esce? Gli autori non hanno dubbi. «Se i salari sono bassi, anche i consumi ne risentono, in una pericolosa spirale al ribasso. Il rapporto debito Pil va attaccato e rimosso agendo sulla crescita». Per questo c’è bisogno di una vera e propria battaglia culturale a favore del lavoro in tutte le sue forme. Occorre poi abbassare gli oneri fiscali e contributivi, ma soprattutto vincere la sfida della produttività e insieme quella del merito. Un valore ancora sempre sconfitto sul campo.
Nel frattempo, si potrebbe cominciare ad applicare il tetto di 300.000 euro ai manager pubbliciprevisto dalla Corte dei conti e oggi ancora sforato da molte cariche, dal capo della polizia al ragioniere generale dello stato e al capo di Gabinetto, dagli ad di società come Ferrovie, Poste,Anas, Rai ai presidenti delle Authorities. E magari provare a chiedersi come mai, mentre l’Europa è sempre più attenta ai guadagni milionari dei top manager, da noi i controllori spesso facciano anche la parte dei controllati, mentre agli stipendi milionari corrispondano sempre gli stessi nomi. Di cui il libro, ricco di cifre, riporta in dettaglio nomi e guadagni.
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