di Angelo d’Orsi
Sono numerosi i paradossi, le bizzarrie, le nemesi storiche che promanano dalla conclusione (ancora provvisoria) del caso Ruby, che ha visto alla sbarra con capi di imputazioni tanto infamanti, per la prima volta nella storia delle “moderne democrazie”, un presidente del Consiglio (oggi ex, ma quando la vicenda è cominciata era in carica), leader di una forza politica che è la seconda del paese, oltre che capo di un impero imprenditoriale, che spazia in vari settori, segnatamente nell’informazione e comunicazione.
Un giornalista straniero, alla domanda se fosse a Milano per l’importanza del processo, ha replicato che no, non per la sua importanza, ma per la sua bizzarria. Il primo dato è che il signor Berlusconi Silvio dopo aver inanellato la più lunga catena di processi della storia, malgrado il suo potere finanziario, a dispetto della campagna di menzogne e altre volgarità contro i magistrati orchestrata da giornalisti iscritti al suo libro paga, e asserviti, incappa in una sentenza che, anche se dovesse essere rivista o cancellata, rimarrà come una “lettera scarlatta” nel suo curriculum, come un marchio di oscena bruttezza morale, come un timbro di vergogna incancellabile.
Il potere del denaro, la corruzione dei testimoni (a cominciare dalla stessa signora “Ruby”, che ha dichiarato a suo tempo che l’imputato le aveva offerto enormi somme di denaro e altri benefici in cambio del suo silenzio ossia delle menzogne necessarie, poi infatti sopraggiunte, con il rovesciamento delle prime dichiarazioni), le reti televisive, la macchina da guerra dei suoi organi di stampa (dal “Giornale” a “Sorrisi e Canzoni”…), un esercito di avvocati pronti ad ogni bassezza giuridica pur di “portare a casa il risultato”, non sono stati sufficienti a proteggere l’imputato. In altre parole, la sentenza mostra che Berlusconi non è onnipotente. E che un Tribunale può metterlo in ginocchio, semplicemente applicando un principio elementare della civiltà giuridica liberale: il principio dell’uguaglianza davanti alla legge. Una banalità che nello specchio sordido dell’Italia immersa ancora nel berlusconismo appare come eversiva.
La seconda “bizzarria” è che il ”vizietto” – già parecchio tempo fa denunciato come “malattia” dalla ex moglie dell’ex premier, la signora Lario – del Cavaliere, giustificato, e persino elogiato dai suoi più squallidi e irosi sostenitori, in prima fila Giuliano Ferrara, l’ateo devoto ora defensor fidei, ora pronto alla lode dello “smutandamento” (quello fisico, perché quello morale l’ha egli stesso praticato in prima persona da decenni), polemizzando contro la “sinistra bacchettona” (l’ultimo suo slogan è un sintomatico “Siamo tutti puttane”: proferito da lui è impossibile dagli torto): quel vizietto, dunque, era apparso finora nella sua irrefrenabile forza: l’energia sessuale, il vigore erotico del cavaliere (opportunamente sorretto da mezzi farmaceutici, ma del resto hanno tentato di convincerci della eterna giovinezza del Nostro), primus inter pares in una corte di quasi (o ultra) ottuagenari, suoi compagni di “serate eleganti”. Erano insomma fin qui il simbolo del successo: la perdurante virilità del maschio traduceva, agli occhi del popolo seguace dei Tg di Emilio Fede, degli editoriali di “Libero”, et similia, la inscalfibile forza politica del leader. E che il denaro fosse il collante fra l’una dimensione e l’altra, il vero argomento forte del “matador” sessuale, come del politico, non costituiva fin qui, agli occhi di una vasta opinione pubblica, motivo di scandalo. La sentenza grida – a quel popolo, ma anche a tutti gli altri, in Italia e fuori – che tutto ciò fa letteralmente schifo.
Le scene che imputati e testimoni non prezzolati hanno raccontato, le intercettazioni ambientali (quelle che la destra vorrebbe cancellare con il sostegno di una parte persino del PD), superano di molto l’immaginazione di un cittadino medio, quello che pure legge giornali solo saltuariamente, paga le tasse borbottando, vota a ogni elezione sempre meno convinto…: le esibizioni e leperformances delle fanciulle bisognose, delle igieniste dentali, delle ragazze sfortunate salvate da quel mecenate, sono materiale che sarebbe stato rifiutato dalla peggiore cinematografia italiana degli anni Sessanta, a base di giovannone cosce-lunghe, sexy-infermiere, supplenti che ballano con tutta la classe e suorine emule della povera Monaca monzese; rifiutato non tanto per la sua volgarità, quanto per la sua banalità sconcertante. L’uomo speciale, colui che si disse secondo soltanto a Gesù Cristo, il re Mida che trasformava in oro tutto ciò che toccava, il superman che “se ne fa sette” in una notte (vedi conversazioni telefoniche con una signora ai primi tempi dell’emergere del “sistema prostituivo”), cade: la fortuna si rovescia in sfortuna, l’eros appare morbo, le conquistate si ribellano, o anche quando tacitate opportunamente con i trenta o trentamila o trecentomila denari, si rivelano: merce, pura merce. E rivelano quel sistema grottesco oltre che osceno al cui centro stava lui, assiso, come Minosse “che giudica e manda”: giudica la procacità e la disponibilità delle prede, e le riserva a sé o le condivide con i suoi compagni di merenda. Il sistema, disvelato nella sua miseria, crolla. Il gioco giunge a un mesto finale di partita.
Terzo dato interessante: la televisione che ha costruito la fortuna imprenditoriale e politica, dunque anche umana, e sessuale (se così ci si può esprimere) del Cavaliere, si trasforma in quella “gogna mediatica” che tante volte lui stesso ha enunciato e denunciato nelle sue intemerate contro i magistrati di sinistra, la televisione di sinistra, la stampa di sinistra… : un intero mondo “di sinistra” che congiura instancabile contro di lui, per invidia. La televisione impietosamente, inevitabilmente, impudicamente dovrà continuare a parlare di prestazioni a pagamento, di corruzione di minori, di giochetti mediocremente perversi, di farmaci e aggeggi che vorrebbero rappresentare “ausili” erotici, e invece ci si mostrano nella loro grottesca natura meramente mercantile. Proprio come le tette e i culi, e altri anatomici dettagli femminili lodati in intercettazioni telefoniche tra vecchi maiali che contrattano la merce con sensali e ruffiane. Il paradosso è anche questo: avevamo creduto che la gestione economica della prostituzione fosse ormai confinata in zone di marginalità: le maman nigeriane, i papponi slavi o senegalesi, le organizzazioni criminali albanesi.
Il processo Ruby ci rivela un mondo di cui non avevamo cognizione. Ai massimi livelli di status sociale le donne vengono comprate, rivendute, al “principe” (ricordate una delle più impunite tra le signorine di Arcore, la mitica Terry De Nicolò? Ne avevo scritto io stesso qui, a suo tempo) per il tramite di improbabili figuri di “imprenditori” (detti anche faccendieri) e di figurine, in vesti (succinte, peraltro) di accompagnatrici, suggeritrici, “istruttrici”. Il processo ci ha aperto uno squarcio, che la corte ha giudicato perfettamente corrispondente alla verità effettuale, su un intreccio maleodorante di ragazze che vogliono avere immediata disponibilità di contante, che ambiscono all’appartamento nel centro di Milano, che non possono indossare “straccetti da 300 euro” (sempre Terry dixit), con personaggi dell’infotainment televisivo, ramoscelli e arbusti del sottobosco politico, elementi che vivono ai margini della legalità, e veri e propri avanzi di galera. La sentenza ha detto, al di là del dato giuridico, inoppugnabile: Tutto questo fa schifo. Non può essere tollerato, in nome di chissà quali privilegi. E deve cessare.
Ora tra i paradossi il maggiore è che la condanna, pesantissima, e grave nelle conseguenze, in quanto ai sette anni di reclusione si aggiunge l’interdizione dai pubblici uffici (perenne!), giunge proprio mentre l’antagonista politico di Berlusconi (del suo raggruppamento politico-affaristico), condivide con lui la responsabilità di governo, in un esperimento politico diciamo bislacco. E a questo punto, come non chiedersi: che farà il PD? Che dirà il presidente della Repubblica che questo governo volle e impose? E il presidente del Consiglio, Letta (la parentela in questo momento con l’altro Letta, il maior, pesa), potrà continuare a ripetere che le vicende giudiziarie berlusconiane sono esterne e non possono interferire con l’azione del suo Ministero, che prosegue indefesso la propria opera di risanamento economico...?
Forse tra i tanti meriti (giuridici, morali, simbolici) di questa sentenza dovremo riconoscergliene uno aggiuntivo, ma decisivo; di aver rivelato anche a chi lo accettava “per necessità”, la natura “impropria”, l’insostenibilità, diciamo pure, di questo governo, e, forse, di portarlo alla fine. O quanto meno di mettere davanti a una scelta decisiva il Partito democratico: Berlusconi aveva sentenziato che questo governo poneva fine a trent’anni di guerra civile italiana. Il prezzo della “pacificazione”, ovviamente, per lui, era l’impunità. Se questa cade, che farà? La dirigenza del PD attenderà che siano i Brunetta e le Santanché a decretare la fine dell’esperimento delle “larghe intese” o avrà uno scatto di dignità e di orgoglio, in nome di quei milioni di concittadini e concittadine che sentono arrivare dalle carte processuali, veicolate dalla sentenza, un insopportabile odore di putrescenza?
(24 giugno 2013)
Sono numerosi i paradossi, le bizzarrie, le nemesi storiche che promanano dalla conclusione (ancora provvisoria) del caso Ruby, che ha visto alla sbarra con capi di imputazioni tanto infamanti, per la prima volta nella storia delle “moderne democrazie”, un presidente del Consiglio (oggi ex, ma quando la vicenda è cominciata era in carica), leader di una forza politica che è la seconda del paese, oltre che capo di un impero imprenditoriale, che spazia in vari settori, segnatamente nell’informazione e comunicazione.
Un giornalista straniero, alla domanda se fosse a Milano per l’importanza del processo, ha replicato che no, non per la sua importanza, ma per la sua bizzarria. Il primo dato è che il signor Berlusconi Silvio dopo aver inanellato la più lunga catena di processi della storia, malgrado il suo potere finanziario, a dispetto della campagna di menzogne e altre volgarità contro i magistrati orchestrata da giornalisti iscritti al suo libro paga, e asserviti, incappa in una sentenza che, anche se dovesse essere rivista o cancellata, rimarrà come una “lettera scarlatta” nel suo curriculum, come un marchio di oscena bruttezza morale, come un timbro di vergogna incancellabile.
Il potere del denaro, la corruzione dei testimoni (a cominciare dalla stessa signora “Ruby”, che ha dichiarato a suo tempo che l’imputato le aveva offerto enormi somme di denaro e altri benefici in cambio del suo silenzio ossia delle menzogne necessarie, poi infatti sopraggiunte, con il rovesciamento delle prime dichiarazioni), le reti televisive, la macchina da guerra dei suoi organi di stampa (dal “Giornale” a “Sorrisi e Canzoni”…), un esercito di avvocati pronti ad ogni bassezza giuridica pur di “portare a casa il risultato”, non sono stati sufficienti a proteggere l’imputato. In altre parole, la sentenza mostra che Berlusconi non è onnipotente. E che un Tribunale può metterlo in ginocchio, semplicemente applicando un principio elementare della civiltà giuridica liberale: il principio dell’uguaglianza davanti alla legge. Una banalità che nello specchio sordido dell’Italia immersa ancora nel berlusconismo appare come eversiva.
La seconda “bizzarria” è che il ”vizietto” – già parecchio tempo fa denunciato come “malattia” dalla ex moglie dell’ex premier, la signora Lario – del Cavaliere, giustificato, e persino elogiato dai suoi più squallidi e irosi sostenitori, in prima fila Giuliano Ferrara, l’ateo devoto ora defensor fidei, ora pronto alla lode dello “smutandamento” (quello fisico, perché quello morale l’ha egli stesso praticato in prima persona da decenni), polemizzando contro la “sinistra bacchettona” (l’ultimo suo slogan è un sintomatico “Siamo tutti puttane”: proferito da lui è impossibile dagli torto): quel vizietto, dunque, era apparso finora nella sua irrefrenabile forza: l’energia sessuale, il vigore erotico del cavaliere (opportunamente sorretto da mezzi farmaceutici, ma del resto hanno tentato di convincerci della eterna giovinezza del Nostro), primus inter pares in una corte di quasi (o ultra) ottuagenari, suoi compagni di “serate eleganti”. Erano insomma fin qui il simbolo del successo: la perdurante virilità del maschio traduceva, agli occhi del popolo seguace dei Tg di Emilio Fede, degli editoriali di “Libero”, et similia, la inscalfibile forza politica del leader. E che il denaro fosse il collante fra l’una dimensione e l’altra, il vero argomento forte del “matador” sessuale, come del politico, non costituiva fin qui, agli occhi di una vasta opinione pubblica, motivo di scandalo. La sentenza grida – a quel popolo, ma anche a tutti gli altri, in Italia e fuori – che tutto ciò fa letteralmente schifo.
Le scene che imputati e testimoni non prezzolati hanno raccontato, le intercettazioni ambientali (quelle che la destra vorrebbe cancellare con il sostegno di una parte persino del PD), superano di molto l’immaginazione di un cittadino medio, quello che pure legge giornali solo saltuariamente, paga le tasse borbottando, vota a ogni elezione sempre meno convinto…: le esibizioni e leperformances delle fanciulle bisognose, delle igieniste dentali, delle ragazze sfortunate salvate da quel mecenate, sono materiale che sarebbe stato rifiutato dalla peggiore cinematografia italiana degli anni Sessanta, a base di giovannone cosce-lunghe, sexy-infermiere, supplenti che ballano con tutta la classe e suorine emule della povera Monaca monzese; rifiutato non tanto per la sua volgarità, quanto per la sua banalità sconcertante. L’uomo speciale, colui che si disse secondo soltanto a Gesù Cristo, il re Mida che trasformava in oro tutto ciò che toccava, il superman che “se ne fa sette” in una notte (vedi conversazioni telefoniche con una signora ai primi tempi dell’emergere del “sistema prostituivo”), cade: la fortuna si rovescia in sfortuna, l’eros appare morbo, le conquistate si ribellano, o anche quando tacitate opportunamente con i trenta o trentamila o trecentomila denari, si rivelano: merce, pura merce. E rivelano quel sistema grottesco oltre che osceno al cui centro stava lui, assiso, come Minosse “che giudica e manda”: giudica la procacità e la disponibilità delle prede, e le riserva a sé o le condivide con i suoi compagni di merenda. Il sistema, disvelato nella sua miseria, crolla. Il gioco giunge a un mesto finale di partita.
Terzo dato interessante: la televisione che ha costruito la fortuna imprenditoriale e politica, dunque anche umana, e sessuale (se così ci si può esprimere) del Cavaliere, si trasforma in quella “gogna mediatica” che tante volte lui stesso ha enunciato e denunciato nelle sue intemerate contro i magistrati di sinistra, la televisione di sinistra, la stampa di sinistra… : un intero mondo “di sinistra” che congiura instancabile contro di lui, per invidia. La televisione impietosamente, inevitabilmente, impudicamente dovrà continuare a parlare di prestazioni a pagamento, di corruzione di minori, di giochetti mediocremente perversi, di farmaci e aggeggi che vorrebbero rappresentare “ausili” erotici, e invece ci si mostrano nella loro grottesca natura meramente mercantile. Proprio come le tette e i culi, e altri anatomici dettagli femminili lodati in intercettazioni telefoniche tra vecchi maiali che contrattano la merce con sensali e ruffiane. Il paradosso è anche questo: avevamo creduto che la gestione economica della prostituzione fosse ormai confinata in zone di marginalità: le maman nigeriane, i papponi slavi o senegalesi, le organizzazioni criminali albanesi.
Il processo Ruby ci rivela un mondo di cui non avevamo cognizione. Ai massimi livelli di status sociale le donne vengono comprate, rivendute, al “principe” (ricordate una delle più impunite tra le signorine di Arcore, la mitica Terry De Nicolò? Ne avevo scritto io stesso qui, a suo tempo) per il tramite di improbabili figuri di “imprenditori” (detti anche faccendieri) e di figurine, in vesti (succinte, peraltro) di accompagnatrici, suggeritrici, “istruttrici”. Il processo ci ha aperto uno squarcio, che la corte ha giudicato perfettamente corrispondente alla verità effettuale, su un intreccio maleodorante di ragazze che vogliono avere immediata disponibilità di contante, che ambiscono all’appartamento nel centro di Milano, che non possono indossare “straccetti da 300 euro” (sempre Terry dixit), con personaggi dell’infotainment televisivo, ramoscelli e arbusti del sottobosco politico, elementi che vivono ai margini della legalità, e veri e propri avanzi di galera. La sentenza ha detto, al di là del dato giuridico, inoppugnabile: Tutto questo fa schifo. Non può essere tollerato, in nome di chissà quali privilegi. E deve cessare.
Ora tra i paradossi il maggiore è che la condanna, pesantissima, e grave nelle conseguenze, in quanto ai sette anni di reclusione si aggiunge l’interdizione dai pubblici uffici (perenne!), giunge proprio mentre l’antagonista politico di Berlusconi (del suo raggruppamento politico-affaristico), condivide con lui la responsabilità di governo, in un esperimento politico diciamo bislacco. E a questo punto, come non chiedersi: che farà il PD? Che dirà il presidente della Repubblica che questo governo volle e impose? E il presidente del Consiglio, Letta (la parentela in questo momento con l’altro Letta, il maior, pesa), potrà continuare a ripetere che le vicende giudiziarie berlusconiane sono esterne e non possono interferire con l’azione del suo Ministero, che prosegue indefesso la propria opera di risanamento economico...?
Forse tra i tanti meriti (giuridici, morali, simbolici) di questa sentenza dovremo riconoscergliene uno aggiuntivo, ma decisivo; di aver rivelato anche a chi lo accettava “per necessità”, la natura “impropria”, l’insostenibilità, diciamo pure, di questo governo, e, forse, di portarlo alla fine. O quanto meno di mettere davanti a una scelta decisiva il Partito democratico: Berlusconi aveva sentenziato che questo governo poneva fine a trent’anni di guerra civile italiana. Il prezzo della “pacificazione”, ovviamente, per lui, era l’impunità. Se questa cade, che farà? La dirigenza del PD attenderà che siano i Brunetta e le Santanché a decretare la fine dell’esperimento delle “larghe intese” o avrà uno scatto di dignità e di orgoglio, in nome di quei milioni di concittadini e concittadine che sentono arrivare dalle carte processuali, veicolate dalla sentenza, un insopportabile odore di putrescenza?
(24 giugno 2013)
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