In un’intervista dello scorso 7 maggio, Dani Rodrik ha lanciato la sua requisitoria contro le tendenze di pedagogia e istruzione economica che dominano praticamente incontrastate dagli anni ’80 in molte università nordamericane ed europee. Dopo circa un ventennio dalla fine del capitalismo moderato e keynesiano, sia i cittadini che gli intellettuali chiedono a gran voce un ripensamento dei fondamenti deontologici su cui è stata costruita l’economia neoliberista. L’ondata di privatizzazioni, spesso selvagge e quasi mai democratiche, ispirata alla distorta reinterpretazione delle tesi di Adam Smith da parte dei Chicago Boys di Milton Friedman e Von Hayek durante gli anni ’70, ha infatti letteralmente cannibalizzato ogni ambito delle società capitalistiche avanzate. Dal lavoro quotidiano alle impostazioni aziendali, dalla politica economica alle università, non esiste un settore che non sia stato almeno lambito da questo sciagurato uragano. Il falso mito della “fine della storia” e del raggiungimento di una non meglio specificata situazione di arrivo e culmine ottimale di tutte le vicende umane hanno piagato e torto le società occidentali nella loro interezza.
Ma il fallimento della “finanzializzazione” aleatoria e surreale dell’economia e della politica unita alla secca smentita che la natura ha dato alle tesi liberiste di ingegneria economica, sta costringendo tutti ad un doveroso ripensamento. “L’economia contemporanea nell’America del nord ha un grande difetto, e cioè che ci si focalizza più sul metodo che sulla totalità delle prospettive storiche e sociali. I programmi per i dottorandi creano matematici e statisti piuttosto che economisti. Per diventare un vero economista è necessaria la conoscenza della storia, della sociologia e di tutte quelle discipline che non ti vengono chieste nel corso di laurea. Molti si laureano senza aver mai riflettuto sui problemi sociali o senza aver mai approfondito null’altro se non la matematica e l’economia. Tuttavia l’attuale sistema fondato sulla gerarchia e sugli incentivi premia più le competenze meramente tecniche che l’interesse verso le questioni rilevanti e la ricerca. E questo fa sì che si tenda ad abbracciare certi valori che portano a glorificare il mercato e demonizzare l’azione pubblica”, così Rodrik spiega la sua tesi. La sua idea richiama da vicino una delle scommesse intellettuali più grandi del secolo scorso: quella dell’egemonia culturale. E le parole di Gramsci negli anni ‘40 a tal proposito, sono state una veritiera e sfortunatamente corretta predizione dell’imposizione a livello teorico e pratico (nelle università, nei centri di potere principali e a capo degli Stati più potenti al mondo – Reagan, Tatcher, Pinochet -) della pseudo-cultura neoliberista.
Ora che il fallimento conclamato di chi ha voluto fare dell’economia una scienza esatta è sotto gli occhi di tutti, il punto sta nel comprendere come muoversi. Le parole di Rodrik, se da un lato prospettano un cambio di rotta nella mentalità delle prossime generazioni di economisti, dall’altro sono contraddette dalla sua più celebre teoria. Rodrik, infatti, è famoso nel mondo accademico avendo dimostrando che spesso riforme tecnicamente perfette e in grado di migliorare la condizione di molti, non vengono messe in pratica. E questa pare essere proprio una di quelle.
di Fabrizio Leone
Ma il fallimento della “finanzializzazione” aleatoria e surreale dell’economia e della politica unita alla secca smentita che la natura ha dato alle tesi liberiste di ingegneria economica, sta costringendo tutti ad un doveroso ripensamento. “L’economia contemporanea nell’America del nord ha un grande difetto, e cioè che ci si focalizza più sul metodo che sulla totalità delle prospettive storiche e sociali. I programmi per i dottorandi creano matematici e statisti piuttosto che economisti. Per diventare un vero economista è necessaria la conoscenza della storia, della sociologia e di tutte quelle discipline che non ti vengono chieste nel corso di laurea. Molti si laureano senza aver mai riflettuto sui problemi sociali o senza aver mai approfondito null’altro se non la matematica e l’economia. Tuttavia l’attuale sistema fondato sulla gerarchia e sugli incentivi premia più le competenze meramente tecniche che l’interesse verso le questioni rilevanti e la ricerca. E questo fa sì che si tenda ad abbracciare certi valori che portano a glorificare il mercato e demonizzare l’azione pubblica”, così Rodrik spiega la sua tesi. La sua idea richiama da vicino una delle scommesse intellettuali più grandi del secolo scorso: quella dell’egemonia culturale. E le parole di Gramsci negli anni ‘40 a tal proposito, sono state una veritiera e sfortunatamente corretta predizione dell’imposizione a livello teorico e pratico (nelle università, nei centri di potere principali e a capo degli Stati più potenti al mondo – Reagan, Tatcher, Pinochet -) della pseudo-cultura neoliberista.
Ora che il fallimento conclamato di chi ha voluto fare dell’economia una scienza esatta è sotto gli occhi di tutti, il punto sta nel comprendere come muoversi. Le parole di Rodrik, se da un lato prospettano un cambio di rotta nella mentalità delle prossime generazioni di economisti, dall’altro sono contraddette dalla sua più celebre teoria. Rodrik, infatti, è famoso nel mondo accademico avendo dimostrando che spesso riforme tecnicamente perfette e in grado di migliorare la condizione di molti, non vengono messe in pratica. E questa pare essere proprio una di quelle.
di Fabrizio Leone
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