Succede che la lezione degli anni ’30 non è stata appresa. E la lezione di quella crisi e del modo in cui soprattutto gli Usa riuscirono a uscirne è che bisogna mettere al primo posto la creazione di posti di lavoro da parte dello Stato. Solo l’occupazione rimette in giro salari, stipendi e dunque persone che spendono. Se un paese ha come il nostro 4 milioni di disoccupati e altrettanti di male occupati, questo significa che sta vivendo molto al di sotto delle proprie possibilità. Quando parlo di intervento pubblico non intendo nulla di parassitario o assistenziale. Si possono concentrare gli sforzi in cose utili, in opere pubbliche ad alta intensità di lavoro. Bisogna mettere a progetto l’idea di piena occupazione. Il problema è che essa è stata messa in crisi dal pensiero neoliberale, il quale afferma che un paese funziona quando ha almeno il 5 o 6% di disoccupati, altrimenti c’è il rischio di inflazione.

— Sta citando Milton Friedman.

Non solo lui, ma una lunga lista di economisti che ritengono che il tasso di disoccupazione non deve scendere sotto il 5 o 6% altrimenti si crea inflazione. Su ciò basti ricordare la sigla famosa o tasso che si chiama Nairu (Non accelerating inflation rate of unemployment). In tutta l’Unione si parla ossessivamente di crescita, mentre bisogna parlare dei mezzi per creare il più rapidamente possibile occupazione di buona qualità.

— L’Italia possiede il 40% dei beni artistici del mondo. Questo settore non potrebbe divenire, attraverso un piano adeguato di investimenti, un volano eccezionale per l’economia?

Certamente. Quello è uno, ma ce ne sono parecchi. Ad esempio, abbiamo le scuole che non sono a norma per il 50%. Abbiamo un territorio dove ogni volta che piove ci scappa il morto. C’è tutta la questione del risparmio energetico, perché gli edifici costruiti fino ad ora disperdono il 40% dell’energia consumata nell’ambiente. Ci sono numerosi campi per rilanciare l’occupazione.

— Ma gli investimenti pubblici sono una chimera, considerato che non abbiamo una Banca centrale che finanzi la spesa dello Stato.

In effetti, i progetti che vedono lo Stato come datore di lavoro di ultima istanza o, come diceva Federico Caffè, occupatore, presuppongono l’esistenza di una Banca centrale che firmi gli assegni necessari per occupare milioni di persone. Questa è la formula più radicale e astratta del modello della piena occupazione. Ma anche su scala europea ci sono studi che propongono il datore di lavoro di ultima istanza in forme ridotte: non possiamo occupare 4 milioni di persone, ma forse possiamo occuparne 1 o 2 milioni a un costo di 20-25 miliardi di euro l’anno.

— Sì, ma la locomotiva d’Europa dice no anche agli Eurobond, quindi stiamo parlando di qualcosa di teoricamente possibile ma realmente impraticabile.

Certo, oggi è politicamente impraticabile, però non bisogna arrendersi. Anche al di là di quanto detto poco prima, c’è tutta la questione della leva fiscale. I bilanci pubblici non sono stati disastrati dalle pensioni troppo generose, dalla sanità che costa troppo o dai servizi sociali. Sono stati disastrati in parte dalle garanzie e dalle erogazioni concesse al sistema finanziario (4,6 trilioni di euro dal 2008 al 2011 secondo Barroso). Sono stati svuotati dalle politiche fiscali in favore delle imprese e dei ricchi. Parliamo ad esempio di centinaia di miliardi di euro che non sono entrati nelle casse pubbliche a causa dell’abolizione delle tasse di successione o dell’abolizione delle imposte sulle grandi fortune. La politica fiscale è centrale nella redistribuzione del reddito: in Italia in 30 anni 15 punti di Pil sono passati dai redditi da lavoro alla rendita. Si tratta dello spostamento di circa 200 miliardi di euro l’anno. Ora, come si è fatta una politica che ha mosso risorse dal basso verso l’alto, è possibile pensare a una politica che in modo molto moderato pompi un bel po’ di miliardi dall’alto verso il basso.

— Dallo scoppio della bolla speculativa nel 2007 non si è fatto nulla per riformare il sistema finanziario. Circolano derivati per trilioni di dollari. C’è chi parla di oltre 600, una cifra rispetto alla quale il Pil mondiale è poca cosa.

Non c’è dubbio. Ho indicato quali sono le riforme necessarie per mettere le briglie al sistema finanziario, affinché torni ad essere il servitore dell’economia reale e non il suo padrone. Tra queste, alcune come la regolazione dei derivati giacciono come progetti davanti al parlamento europeo. Il problema non è solo che hanno superato nuovamente la soglia dei 700 trilioni di dollari ma che per il 90% sono scambiati over the counter, cioè al banco come banali transazioni fra privati e quindi sfuggono a qualsiasi tipo di intervento o regolazione. E’ come un’enorme polveriera lasciata senza sorveglianza, ed è un gravissimo errore dei politici europei aver speso tante energie per discutere del debito pubblico ed essersi fermati sul cammino verso una riforma del sistema finanziario. Il Pil mondiale nel 2011 è stato pari a 62-63 trilioni di dollari e questo significa che nel mondo i derivati valgono 12 volte il Pil. La sproporzione è enorme e la regolazione urgente. Bisogna ricordare che la prima grande banca del mondo che collassò nel 2008 fu la Northern Bank. Secondo il governatore della Banca d’Inghilterra, Mervyn King, la cosa costò allo Stato britannico, che comunque ha facoltà di stampare moneta, 1,4 trilioni di sterline, poco meno di 2 trilioni di euro. Poi però succede che bisogna moltiplicare per 9 le tasse universitarie altrimenti il bilancio pubblico soffre.

— Nel suo libro si mette a fuoco la situazione del rapporto interclasse e si legge la crisi presente proprio a partire da ciò: la classe dei lavoratori è attraversata da differenze, divisioni e frammentazioni oggettive.

Nei paesi emergenti la situazione si sta modificando: sono leggermente aumentati i salari e sono aumentate le rivendicazioni di tipo sindacale, si è firmato qualche contratto non del tutto contro i lavoratori. Ma le distanze tra i lavoratori dei paesi emergenti e quelli dei paesi benestanti restano grandi. Penso che in campo sindacale si sarebbe dovuto fare di più per espandere salari e diritti nei paesi emergenti. Sia i sindacati dei paesi benestanti che le forze politiche hanno fatto ben poco per ridurre il conflitto interclasse, come se le condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori nei paesi emergenti non fossero state create e imposte dalle corporations americane ed europee. Bisogna capire che la competizione fra i lavoratori nel mondo è stata creata e voluta da americani ed europei. Uno dei più grandi inganni è rappresentare questa situazione come se fosse qualcosa di nuovo e indipendente dai paesi ricchi, mentre invece tutto è stato sistematicamente realizzato dalle classi dominanti americane ed europee. Pare che le sinistre europee non l’abbiano capito: battersi per migliorare le condizioni dei lavoratori nei paesi emergenti è la strategia migliore per ripristinare la dialettica fra le classi.