Ma gli americani che fanno? Quello che hanno sempre fatto: la guerra. «Ora dovremo dare una bella spazzolata alla Siria», diceva tempo fa un giovanotto, a cena ai tavoli di una pizzeria, in una città del nord. Indossava una tuta col tricolore e la scritta “Italia”. Era l’inizio del 2012: al film delle armi chimiche mancava ancora un anno e mezzo. Eppure, era come se il giovanotto lo conoscesse già: «Dovremo colpire la Siria – ripeteva, con aria grave – perché poi, lo sappiamo, ci aspetta lo scontro vero, quello con l’Iran». I commensali annuivano, attoniti, fingendo di capire: strana fiaba nera, ambientata in una geografia teoricamente prossima, mediterranea, eppure così remota e oscura, infestata di pericoli e di nemici incomprensibili. L’unico ambasciatore intellegibile, tra i misteri di quelle latitudini infide, era appunto il giovanotto con addosso la tuta militare – il solo volto amico momentaneamente a portata di mano. Con in tasca un messaggio chiarissimo e indiscutibile: guerra. Ma perché? Perché sì. Semplice: guerra contro il perfido dittatore Assad, come necessaria premessa per poi dare una lezione ai fanatici barbuti di Teheran.
La città della pizzeria era Torino, e proprio da Torino – millenni fa – secondo gli storici transitarono i soldati siriani della legione incaricata dai Cesari di presidiare la frontiera con le Gallie. Quei soldati siriaci, reclutati dall’Impero Romano in cambio di una paga dignitosa, restarono così a lungo sull’attuale territorio italiano – per proteggerlo – che ebbero il tempo di erigere statue alle loro divinità, nella valle in cui fu dislocato il contingente: la valle di Susa. Vista da lontano, a volte, la storia può sembrare uno scherzo, se gli stessi luoghi finiscono per fare notizia per motivi imprevedibili, a distanza di secoli. Siriani e persiani: era “solo” il 1951 quando il primo ministro iraniano Mohammad Mossadeq cacciò i parassiti inglesi e nazionalizzò la Anglo-Iranian Oil Company, cioè il petrolio del suo paese. La nomina a “uomo dell’anno”, l’applaudita performance all’Onu e la visita concessagli dal presidente Truman non gli valsero a superare l’embargo destinato a strangolare l’Iran, che aveva osato rivendicare i propri diritti sovrani, aspirando semplicemente alla sua quota legittima di futuro.
Mossadeq fu deposto dai consueti professionisti della guerra: un brutale golpe angloamericano rimise al potere il despota, lo Scià, signore della più feroce polizia segreta della regione. Di tutta questa storia, probabilmente, il giovanotto in pizzeria con la tuta blu non sapeva granché; l’unica cosa che pensava di sapere, forse, era che da molti anni l’Iran è governato da orde di barbuti forsennati, quindi di razza inferiore, verosimilmente medievali, primitivi e violenti. L’Iran, ovvero: l’altopiano a ridosso del Vicino Oriente in cui, oltre sei secoli prima di Cristo, comparve il pensiero di Zarathustra, primo fondamento – sulla faccia della Terra – della nozione religiosa occidentale, quella che riduce il rebus del mondo all’etica estrema della lotta decisiva, e mai risolta, tra il principio del bene e quello del male. Luce e tenebre: la sfida infinita che impone agli adoratori di Ahura Mazda di difendere l’umanità dalle “buie forze di Arimane”.
Contro l’invisibile impero del male si battè l’ultimo grande martire africano, il giovane Thomas Sankara: il suo paese, uno dei più poveri al mondo, non aveva petrolio ma solo magri campi di cotone. Ci basteranno quelli, disse alla conferenza panafricana di Addis Abeba nel 1987, purché la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale la smettano di ricattarci con le catene finanziarie del debito usuraio: a saldare il conto deve bastare una volta per tutte, di fronte alla storia, la memoria viva dei nostri antenati e il loro sangue di schiavi. Era così convincente, Sankara, così onesto e quindi così pericoloso, che lo misero a tacere per sempre, sparandogli, nel timore che la sua predicazione – luce contro tenebre – potesse contagiare i forzieri africani del Niger, della Mauritania, della Nigeria petrolifera, del Senegal, del Congo, del Kenya, del Camerun, tutti paesi in cui i giovani avevano cominciato a tifare per il coraggioso leader del Burkina Faso, l’unico capo di Stato ad aver avuto ilfegato di chiedere formalmente la liberazione del prigioniero Nelson Mandela.
Nel 2013, l’imperatore elettivo e Premio Nobel per la Pace che siede sul trono di Lincoln, il leggendario presidente assassinato dai cannibali proprio come Martin Luther King e John Fitzgerald Kennedy, ora si affanna a tracciare “linee rosse” inquinate con armi chimiche. Come se non sapessimo che, già all’inizio del 2012, la vulgata circolante – persino presso i soldati semplici della periferia imperiale – non prevedeva altro che l’imminenza di inevitabili punizioni, non per forza chirurgiche e tantomeno intelligenti come certi missili, o “pulite” come la micidiale tempesta scatenata dai droni, gli aerei invisibili senza pilota che macellano comodamente anche i bambini, dall’alto dei cieli e in mezzo ai deserti, evitando così l’imbarazzo dello strazio in mondovisione offerto dagli sventurati di Fallujah e di Gaza, bruciati vivi dal fosforo bianco.
Come sospettavano gli zoroastriani dell’Iran, il grande architetto che ha progettato lo spettacolo – nonostante l’enorme vantaggio di cui dispone, fondato soprattutto sull’arte antichissima della menzogna – non può avere sempre partita vinta. Lo dimostrerebbe l’incredibile manifestazione di autentica gioia liberatoria offerta da un video finito miracolosamente su Internet, che mostra soldati israeliani in divisa scatenarsi in una festa, insieme a coetanei palestinesi, in una discoteca di Hebron. Li attenderà una dura punzione, avverte l’amministrazione militare di Tel Aviv. Ma intanto quelle immagini parlano da sole: demoliscono cent’anni di odio, senza bisogno di parole. «Qui la gente vive bene, come dappertutto, finché non arrivano i politici», dice il buon veterinario macedone al reporter di guerra, nel film “Prima della pioggia”, pellicola che racconta l’atroce mattatoio balcanico da una retrovia defilata, anch’essa insidiata dal veleno nazionalista che minaccia di metter fine alla secolare convivenza tra etnie, in quel caso slavi e albanesi.
I politici, questi politici: ridotti quasi sempre a recitare una piccola parte, non potendo in realtà decidere quasi nulla, essendo stato disabilitato – con la massima cura – il loro rischioso rapporto democratico con la vasta plebe degli elettori. L’epoca delle grandi decisioni, come sosteneva Pasolini, è possibile che sia finita molto tempo fa, tra i rottami dell’aereo che trasportava Enrico Mattei e il suo inaccettabile paradigma: pagare il giusto, anziché depredare i paesi petroliferi. Morte violenta, allora. Oppure, boicottaggio spietato – come nel caso di un altro grande italiano, Adriano Olivetti. Fine della storia? Così ragliavano i falsi profeti, alla caduta dell’impero sovietico. E invece la storia continua, se è vero che oggi l’immensa macchina di propaganda dell’Occidente armato sembra essersi inceppata, almeno per ora, di fronte al diniego della Germania, alla fermezza della Russia e soprattutto allo schiacciante verdetto dei sondaggi d’opinione: il cittadino medio occidentale, quello bombardato a tradimento l’11 Settembre a New York, forse non ne può più di sanguinose pagliacciate. Non si fida più della lingua biforcuta dei media, e pretende un briciolo di verità. Probabilmente non ne può più nemmeno della guerra, questa guerra asimmetrica e senza fine, presentata come destino inevitabile. Voglia di luce, contro l’asfissia della tenebra. Questo dice la danza sfrenata dei giovani di Hebron, israeliani e palestinesi: non è detto che il peggior futuro sia già scritto.
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