Sarebbe davvero tanto facile mettere fine alla piaga della disoccupazione? Ebbene sì. Basta aumentare la spesa pubblica a deficit per creare subito posti di lavoro. Problema: «Chi ha il potere in mano non ci vuole credere». Qualcuno di quei potenti, scandisce il Premio Nobel americano per l’economia, Paul Krugman, «ha una sensazione viscerale che la sofferenza sia un bene». Lo dicevano anche alcuni “padri” dell’Eurozona, come l’ex ministro prodiano Tommaso Padoa Schioppa, che auspicava «riforme che vi facciano soffrire». La mania delle élites? Far pagare (a noi) un prezzo per i “peccati” del passato, «anche se i peccatori di allora e chi soffre oggi sono dei gruppi sociali di persone completamente diverse». Qualcuno di quei potenti, accusa Krugman, vede nella crisi una magnifica opportunità per smantellare tutta la rete di sicurezza sociale. «E quasi tutti, nelle élites politiche, prendono le parti di una minoranza benestante che in realtà non sta sentendo molto dolore».
In un intervento sul “New York Times” ripreso da “Come Don Chisciotte”, Krugman indica nella clamorosa sconfessione pubblica dei guru di Harvard il possibile punto di arresto del cataclisma che ha falcidiato i diritti sociali, in tutto l’Occidente neoliberista e in particolare nell’Eurozona, dove la spesa pubblica è sostanzialmente “vietata” da norme inaudite come il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio. Misure che paralizzano Stati già impoveriti e neutralizzati, nella loro capacità finanziaria, dalla perdita della facoltà sovrana di gestire la moneta per soccorrere la popolazione nei momenti di crisi, riattivando l’economia. «Quelli di noi che hanno passato anni a dibattere contro una austerità fiscale avventata hanno appena passato due belle settimane», ammette Krugman, riferendosi allo studio con il quale l’università del Massachusetts ha appena “smontato” il famosissimo studio di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, secondo cui itagli al bilancio pubblico producono crescita.
I dati erano sbagliati, confessano gli stessi Reinhart e Rogoff, che arrivano a prendersela addirittura con “Excel”, il programma di calcolo utilizzato per monitorare lo scenario macroeconomico mondiale. Peccato che quei dati, più che “sbagliati”, fossero gravemente incompleti: mancavano quelli – decisivi – sui paesi che ribaltano le conclusioni e dimostrano il contrario. E cioè che i tagli producono solo crisi, mentre è proprio la spesa pubblica a deficit che risolleva l’economia reale. Il dramma, dice Paolo Barnard, è che quello studio così cinicamente manipolato è diventato la Bibbia dogmatica di tutti i “tagliatori di teste” del mondo, in particolare quelli di Bruxelles: sono stati proprio i falsari di Harvard a fornire ai “cannibali” europei il pretesto “scientifico” per organizzare la più devastante crisi sociale della storia moderna, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, creata proprio con la chiusura dei rubinetti pubblici in nome di un’ideologia che considera il denaro non uno strumento sociale pubblico, riproducibile all’infinito dallo Stato, ma un bene privato da tesaurizzare già al momento dell’emissione.
Se oggi stanno perdendo credibilità gli studi accademici che, con le loro teorie, giustificavano l’austerità, dice Krugman, «anche i più duri della Commissione Europea e di altre istituzioni stanno ammorbidendo la loro retorica». Segnali che indicano l’inizio di un possibile disgelo, in vista di una rivoluzione copernicana imposta dalla durezza della crisi. Ma a pesare in modo determinante è ancora la superstizione che ha guidato l’egemonia delle élites, impaurite dalle conquiste della democrazia: il welfare come strategia di stabilità sociale attraverso il benessere diffuso, i diritti democratici come fondamentale investimento collettivo. E’ tutto molto semplice, dice Barnard: il grande business ha bisogno di crisi per moltiplicare i suoi profitti, perché i veri affari nascono dal lavoro sottopagato che favorisce la concentrazione di immensi capitali per la speculazione finanziaria senza regole. Risolvere la crisi, quindi, va conto gli interessi di chi l’ha costruita a tavolino, per edificare un dominio egemonico totalitario e ricavare larghissimi margini di vantaggio in un mondo polverizzato dalla globalizzazione e condizionato dalla crescita esplosiva delle nuove potenze e dal boom demografico planetario che assottiglia la disponibilità di risorse vitali.
Per le élites, “smontare” lo Stato democratico è il primo passo fondamentale per affermare un nuovo potere di tipo oligarchico, che si richiama direttamente al feudalesimo medievale: la stagione dei diritti è finita, la paura del futuro comincia dal terremoto economico del presente e produrrà sudditi là dove c’erano cittadini. Com’è potuto avvenire? Il peccato originale, secondo gli economisti keynesiani, sta tutto nella colpevolizzazione disonesta dello Stato, temuto dalle élites in quanto detentore unico del potere supremo: l’emissione sovrana di moneta, per sostenere la spesa pubblica. La principale menzogna del neoliberismo: far credere che lo Stato si debba amministrare come un’azienda, o come una famiglia – due soggetti che, a differenza dello Stato, il denaro possono solo guadagnarlo, non certo crearlo dal nulla. E’ la cosa più importante da capire, insiste Krugman: «L’economia non è come gestire una famiglia». Elementare: «Le famiglie guadagnano quello che possono, e spendono tanto quanto pensano sia prudente spendere». Restano a valle della fonte: non sono loro a stabilire quanto denaro c’è in circolazione.
Le opportunità di spesa e di guadagno sono due cose ben diverse, sottolinea Krugman: per l’economia, intesa come sistema complessivo, «il reddito e la spesa sono interdipendenti tra di loro: la mia spesa è il tuo reddito, e la tua spesa è il mio reddito. Se tutti e due smettiamo di spendere contemporaneamente, ovviamente entrambi smetteremo di ricevere il nostro reddito. Ed è quello che è successo dopo la crisi finanziaria del 2008». Molte persone improvvisamente hanno ridotto la spesa, o per una loro scelta o perché a questo li hanno costretti i loro creditori. «Contemporaneamente, troppe persone non sono state più in grado di spendere o di spendere di più». Risultato: «Un crollo dei redditi, che ha causato uno sfascio anche nel mondo del lavoro, creando la depressione che continua ancora oggi». Perché è crollata la spesa? «Soprattutto a causa dello scoppio della bolla immobiliare e di una sovraesposizione del debito del settore privato». Disastri ai quali in Europa si aggiunge l’altra tragedia: l’impossibilità di dare ossigeno alla “ripresa” finanziando posti di lavoro con la spesa pubblica. “La tua spesa è il mio reddito”: vale anche per la spesa pubblica, che è il nostro vero guadagno – a patto che lo Stato sia libero, e il suo debito pubblico sia denominato in moneta sovrana, quindi sempre ripagabile.
E’ tempo di invertire completamente la rotta, dice Krugman, e fare esattamente il contrario di quello che si è fatto finora. «Cosa possiamo fare per diminuire la disoccupazione? La risposta è che questo è il tempo di una spesa pubblica superiore al normale, per sostenere l’economiafino a quando il settore privato sarà disposto a spendere di nuovo». Punto cruciale: nelle condizioni attuali, il governo non è in concorrenza con il settore privato, perché «la spesa pubblica non sottrae risorse destinate ad un uso privato» ma, all’opposto, «permette alle risorse disoccupate di lavorare». Quindi: «L’indebitamento pubblico non si sostituisce agli investimenti privati, ma mobilita fondi che altrimenti resterebbero inutilizzati». E’ semplicemente suicida tagliare i deficit per uscire dalla depressione: è il momento più sbagliato per le politiche di rigore. «Quello che è successo ora – conclude Krugman – è che chi finora ha sostenuto l’austerità, ha perso la sua foglia di fico intellettuale». Se il disastro del neoliberismo è sotto gli occhi di tutti, ora sono stati smascherati anche i suoi cantori di Harvard. Chi ha impugnato la scure «è rimasto nudo», e adesso «si vede tutto il suo pregiudizio, l’opportunismo e l’interesse di classe che ha sempre potuto tenere nascosto». Forse, questa rivelazione «ci darà la possibilità di cominciare a fare qualcosa per combattere veramente questa depressione che stiamo vivendo».
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