L’Italia di oggi è governata da lontano. Non abbiamo una politica estera nostra, non abbiamo il potere di decidere sui destini della nostra economia, non possiamo neanche decidere il bilancio dello Stato perché esso è stato già stabilito quando Monti ha firmato quegli impegni all’inizio del suo governo. Si potrebbe dire che siamo un paese a sovranità controllata, come si diceva dei paesi-satellite dell’Urss ai tempi di Breznev. Solo che in quel caso si trattava di un’élite sclerotizzata, quasi monumentalizzata, immobile. Le nostre élite sono più duttili. Nel caso italiano, tuttavia, c’è una contraddizione latente tra le potenzialità, anche economiche e tecnologiche, del nostro paese, e la condizione di minorità politica alla quale siamo ridotti. Il governo Letta? È il tappabuchi di una situazione che deve ancora maturare, e che trascende le persone attualmente al governo.
Mentre fino a cinquant’anni fa la distinzione dei ruoli era chiara – c’erano i governanti e c’era il potere economico – ora il potere economico non si fida più tanto dei governanti, e quindi pone direttamente i suoi esponenti ai vertici degli Stati, o delle bancheche governano gli Stati. Non si tratta più di un comitato d’affari per conto di terzi, ma di gestione diretta. Questa è una svolta preoccupante, che nessuno osa dichiarare tale. Attrezzarsi forse è necessario. Il potere è inevitabilmente elitistico. Non sarebbe potere se non fosse nelle mani di pochi organizzati. Le élite, poi, sono di vario tipo. Ci sono élite che si guadagnano sul campo il diritto di essere tali. Ci sono élite che invece usurpano questo ruolo, e poi ci sono élite che si ricambiano l’una con l’altra, o che subentrano l’una all’altra. Noi non siamo, ovviamente, in grado di prevedere queste svolte dellastoria. È toccato a noi, che ormai ci troviamo nel XXI secolo, assistere alla nascita di élite diversissime da quelle che conoscevamo.
La compenetrazione tra potere visibile e potere remoto, in Italia trova alla fine il suo imprevisto inveramento nella pervasiva corruzione della politica, sospinta gagliardamente sul terreno “affaristico”. In Italia tutto questo è davvero plateale. Credo che il principio di John Stuart Mill, secondo il quale il vero egoismo è l’altruismo, dovrebbe regolare le élite più intelligenti. Invece le élite più grossolane, meno preparate, per esempio quelle che hanno avuto l’egemonia in Italia per tanto tempo, hanno uno sguardo corto. Per loro l’affarismo è una scorciatoia verso ilpotere, ma si sbagliano. Perché in questo modo sono destinate a soccombere dinanzi ad altre, più abili, e che probabilmente sapranno gestire meglio quel potere che esse credevano di possedere per sempre.
Dove avviene la formazione culturale delle élite? In quali luoghi di studio e addestramento? Ormai il potere economico si crea esso stesso i propri luoghi di formazione, totalmente al riparo da ogni controllo. La ciclica operazione di votare serve a dare l’impressione al demo, al popolo, di contare. E in parte questo avviene indubbiamente, ma con dei condizionamenti: leggi elettorali, manipolazioni del consenso, formazione dell’opinione pubblica, grande stampa, televisione e così via. Le élite “prestano” il potere a un uomo solo e poi glielo “tolgono”, o fanno togliere, quando questi ha raggiunto gli obiettivi che loro volevano? I vari uomini forti sono strumenti di consenso. Perché il leader carismatico è necessario per galvanizzare il consenso. È il più bravo, per così dire. Però è costantemente a rischio. Il problema è che la storia non è programmabile. Le rivoluzioni non scoppiano perché qualcuno decide di scatenarle. Scoppiano perché sono incontenibili in determinati momenti. E per qualche tempo introducono modifiche profonde. Possono anche fallire, ma lasciano il segno.
(Luciano Canfora, estratti delle dichiarazioni rilasciate a Gabriele Catania per l’intervista pubblicata da “Linkiesta” e ripresa da “Megachip” il 15 luglio 2013).
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