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domenica 21 luglio 2013

L'ERA DEGLI AGRO-DOLLARI

Il mondo ha fame: benvenuti nell’era degli agro-dollari



Se ci chiediamo quale valuta sia servita per l’acquisto delle materie prime o per rafforzare i sistemi nel corso del secolo passato della storia umana, non possiamo che pensare ai petrodollari: non è sbagliato dire che niente ha plasmato il mondo moderno quanto i 2.300 miliardi di dollari l’anno per l’esportazione di energia. Vera e propria “valuta di riserva”: tutti dollari Usa, anche se ora emergono alternative come quella della Turchia, che ha cominciato a pagare in oro il petrolio dell’Iran, mettendo in forse lo status quo dei petrodollari. Ma se le nuove tecnologie per le rinnovabili e il gas soppianteranno il petrolio, segneranno anche la fine dei petrodollari? Prima o poi potrebbe cominciare l’era degli agro-dollari, se – come si comincia ad osservare – lo squilibrio più evidente che definirà il profilo del commercio globale nei prossimi anni non sarà più quello energetico, ma quello alimentare.
Il mondo avrà sempre più fame, ed è probabile che tutti i paesi metteranno in atto precise strategie per garantirsi l’approvvigionamento di cibo. In due Cina ragazzamodi: con misure protezionistiche – esempio: alte tasse sulle esportazioni – o stringendo accordi bilaterali per stabilizzare rifornimenti sicuri. Questo, aggiunge il blog “Zero Hedge” in un intervento ripreso da “Megachip”, potrebbe ovviamente andare contro il sistema di regole messo in piedi dal Wto e, al tempo stesso, potrebbe far nascere una nuova moneta di scambio: gli agro-dollari, appunto, più o meno come i petrodollari che apparvero nel 1970. Conseguenze che si annunciano storiche, anche se per ora l’export del cibo vale un trilione di dollari, contro i 2,3 trilioni dell’energia. «I grandi esportatori, soprattutto quelli che vogliono aumentare la loro produzione – sostiene “Zero Hedge”– potrebbero creare un surplus sostenibile da reinvestire nelle loro economie». Allo stesso modo, il fatto di essere un importatore al netto farà scattare una tassa sul consumo effettivo: se oggi il prezzo del petrolio fosse a 25 dollari al barile, le entrate fiscali farebbero un salto notevole.
A determinare il nuovo scenario, scrive “Zero Hedge”, saranno i prezzi del cibo in costante aumento, a causa di una offerta frammentata che risponde solo con ritardo ai segnali di una domanda sempre crescente. E in questo campo la Cina giocherà un ruolo dominante: non per la disponibilità di materie prime o per la sua supremazia nella manifattura ma, al contrario, per l’impennata del suo deficit di prodotti agricoli. La Cina sarà sempre più affamata: e proprio da quel deficit commerciale, gli Stati Uniti trarranno improvvisamente un enorme vantaggio, sia in termini di scambi commerciali che geopolitici. Stanno arrivando gli agro-dollari? Secondo Karim Bitar della multinazionale inglese Genus, specializzata in biotecnologie per il mercato agroalimentare, la Cina potrebbe dover rinunciare a diventare la nuova superpotenza orientata al consumo di Karim Bitarmassa, a meno che non trovi il modo di nutrire adeguatamente la sua sterminata classe media, in continuo aumento.
«Strutturalmente – spiega Bitar – la Cina ha un enorme svantaggio, in quanto raccoglie il 20% della popolazione mondiale, ma solo il 7% dei terreni coltivabili: esattamente il contrario del rapporto che esiste in Brasile». Questo obbliga il gigante asiatico a incentivare l’adozione della tecnicizzazione. Basta dare un’occhiata al loro mercato suino, che rappresenta il 50% della produzione e del consumo mondiale: in Cina, per la macellazione di circa 600 milioni di maiali l’anno – circa sei volte la domanda degli Usa – si utilizza un allevamento di circa 50 milioni di animali, mentre negli Usa se ne allevano appena 6 milioni, «quindi il ritardo di produttività tra i due paesi risulta enorme». Proprio per i suoi “svantaggi strutturali”, la Cina è molto più focalizzata sull’aumento dell’efficienza: Pechino punta alla produzione di carne di maiale integrata come strumento-chiave per ottimizzare l’economia.
Il governo cinese, aggiunge “Zero Hedge”, è un cliente importante per la sua chiarezza di visione sulla sicurezza alimentare: «Ha visto la primavera araba ed è consapevole delle forti implicazioni socio-politiche che possono causare i prezzi dei prodotti alimentari». Quello della carne di maiale potrebbe incidere fino al 25% sui prezzi al consumo, e diventare un grosso problema. «È per queste pressioni, che la Cina è molto attenta alla crisialimentare. È un terreno che scotta». Idem per il latte: Pechino sta cercando di adottare il modello statunitense, fondato su grandissimi allevamenti. Come gli indiani, anche i cinesi avranno sempre più bisogno di cibo, ma – a differenza di Usa, Canada, Brasile e della stessa Africa – dovranno aumentare la produttività senza disporre di superfici adeguate. Domanda: come si adatterà la Cina nel nuovo mondo in cui si trova per la sua posizione di svantaggio nella bilancia commerciale, in particolare verso gli Stati Uniti?  E Cina bambiniquale impatto avrà il riposizionamento del prezzo del cibo sull’economia mondiale?
Il prezzo del cibo, sostiene “Zero Hedge”, sembra destinato ad aumentare: perché la domanda è destinata a crescere più rapidamente di quanto l’offerta sia in grado di assorbire. I motivi sono ben noti: cresce la popolazione del pianeta, esplode l’urbanizzazione, sale la domanda di consumi. «In termini di evoluzione economica – aggiunge il blog – l’aumento dei prezzi alimentari viene dopo l’impennata dei prezzi dell’energia, in quanto l’industrializzazione sfocia in una crescita dei consumi: i paesi ad alto reddito consumano circa il 30% di calorie più delle nazioni a basso reddito, ma la differenza di valore è circa otto volte». Soluzioni all’orizzonte? «Si sta seguendo un processo analogo a quello dell’industria energetica», che ha investito molto in termini di efficienza e innovazione, con aree di eccellenza come quelle del “gas shale” (ricavato dalle argille) e delle fonti rinnovabili. Sarà lo stesso anche per il cibo?
Le differenze sono rilevanti: rispetto all’energia, il comparto agroalimentare è molto più frammentato, dispone di meno infrastrutture e meno capitali. Inoltre, «cambiare le abitudini alimentari è molto più difficile che cambiare una fonte energetica». E inoltre, l’alimentazione è indispensabile: le famiglie in crisi ridurranno altri generi di consumo, ma continueranno ad acquistare alimenti. «Ma basta uno sguardo superficiale alla storia del passato – aggiunge “Zero Hedge” – per capire che l’aumento del prezzo del cibo può diventare una polveriera». Probabilmente, si sottovaluta l’impatto economico dei prezzi alimentari su tutto l’Occidente: «La spesa per comprare cibo può sembrare un fenomeno gestibile perché oggi non è altissima in proporzione al totale del reddito personale, ma solo fino a spesaquando si disporrà di un paraurti». Cioè, finché la gente disporrà di un minimo di risparmi personali. «E’ dopo che arriveranno i problemi».
In percentuale, la spesa alimentare incide sui consumi delle famiglie solo del 14% negli Stati Uniti, contro il 20% per la maggior parte delle grandi nazioni europee e del Giappone. Ma sale al 40% in Cina e al 45% in India. Naturalmente, con l’aumento dei salari, la percentuale della spesa per il cibo sul totale dei consumi diminuisce, ma questo avviene solo fino a quando il salario basta a coprire tutti i consumi. Attualmente, precisa “Zero Hedge”, in India e Cina si consumano circa 2.300 e 2.900 calorie pro capite al giorno, rispetto a una media di circa 3.400. «Se in quei due paesi si mangiasse come in Occidente, la produzione alimentare dovrebbe aumentare del 12%. E se tutto il resto del mondo raggiungesse questo livello allora si salirebbe al 50%». Sul piano geopolitico, ci sono differenze enormi: servono terreni fertili, acqua e un buon clima. Ma non basta: ci vogliono anche organizzazione e capitali. L’Africa, ad esempio, dispone del 60% delle terre incolte del pianeta: potrebbe produrre un miracolo economico, ma razionalizzare l’agricoltura africana richiederà decenni.
Se il cibo sarà la grande scommessa del futuro dell’Africa, negli ultimi dieci anni la Cina è passata da un surplus a un deficit di carne, verdure e cereali. Con significative eccedenze di soia, mais, carne e semi oleosi, Brasile e Argentina guidano il continente latinoamericano nel commercio alimentare, con l’unico handicap dell’export via mare. Quanto all’Europa, ben 17 membri dell’Unione Europea (su 27) sono in deficit nella bilancia alimentare: il maggior importatore è il Regno Unito, seguito da Germania e Italia, mentre Olanda e Francia guidano le esportazioni grazie alle loro industrie di trasformazione. Anche questo incide nel declino europeo: crisi finanziaria, ridotto potere d’acquisto e scarsissima sovranità alimentare. L’Europa importa carne, frutta, verdura e mais, mentre le sue esportazioni si basano sull’alcol e in particolare sui vini.
Peggio di noi sta solo il Giappone, costretto ad importare di tutto, mentre gli Usa e il Canada continueranno a dominare alcune risorse-chiave come soia e mais, foraggi, grano e semi oleosi. Se sommiamo a questa relativa autosufficienza anche la potenziale autonomia energetica prevista nel medio termine, conclude “Zero Hedge”, scopriamo che forse il futuro degli Usa sarà più roseo di quello del resto dell’Occidente e della stessa Asia. «Qualcuno farà  grandi guadagni con un aumento significativo dei prezzi degli alimenti: in termini reali, dovrebbero essere Brasile, Stati Uniti e Canada, mentre Giappone, Corea del Sud e Regno Unito si troverebbero davanti importanti sfide». In primo piano, la Cina: il suo surplus si è rapidamente trasformato in deficit. «Cosa succederà se la classe media cinese dovesse crescere molto, come ci si aspetta?». Questo è il punto debole, insiste il blog: il valore che abbiamo dato al cibo fino ad oggi è destinato a cambiare, così come il sistema della distribuzione agroalimentare e il flusso finanziario ad esso collegato

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