«Faccio parte di un generazione formata da moltissimi individui che vogliono più dei propri avi, pur essendo meno (o per nulla) in grado di accontentarsi di poco». Giovani che spesso «vogliono ottenere troppo senza sforzarsi molto», ma allo stesso tempo «hanno meno mezzi a livello caratteriale per ottenere ciò che vogliono». Più che “bamboccioni” troppo viziati durante l’infanzia e l’adolescenza, sono ragazzi che «hanno la sfortuna di vivere in un momento storico in cui le maggiorate esigenze non combaciano con un’economia che non può crescere all’infinito». Fine corsa: il sistema «non può dare le stesse possibilità di guadagno e di gratificazione dei decenni passati». Così Andrea Bertaglio tratteggia la sua “generazione decrescente”, quella che – per la prima volta – sa che non potrà avere a disposizione più risorse di quella che l’ha preceduta. Ormai è ufficiale: la Grande Crisi non fa sconti. Ma proprio la sua durezza suggerisce una soluzione: imparare a consumare meno (e meglio) per vivere un’altra vita, lontano dalla solitudine della pulsione consumistica.
«Di primo acchito si è portati a credere che la decrescita sia una teoria economica, provocatoria o bizzarra a seconda dei punti di vista, che si propone velleitariamente di rovesciare il caposaldo su cui si fondano le attività produttive nelle società industriali», scrive Maurizio Pallante nell’introduzione all’ultimo libro di Bertaglio, reporter e saggista impegnato nel Movimento per la Decrescita Felice. Volume che, a partire dall’esperienza di vita dell’autore e dai problemi esistenziali dei giovani alla soglia dell’età matura, che la decrescita «non si limita a essere una critica radicale a un sistema economico e produttivo entrato in una recessione così profonda da assumere i connotati di unacrisi di civiltà, ma costituisce il quadro di riferimento di un sistema di valori in grado di indicare la prospettiva di un futuro più desiderabile». Punto di partenza: l’analisi della frustrazione di fronte al modello che “usa e getta”, indifferentemente, merci e persone.
E’ il “tutto e subito” presentato come fattore di progresso, e l’esclusione dalla possibilità di avere un lavoro regolare che consenta di ottenere in modo autonomo non “il sempre di più”, ma ormai “il necessario” per vivere. Il problema comincia «quando tutti i messaggi che ricevi ti spingono a identificare il senso della vita con l’avere sempre di più», ma purtroppo tu «non sei in condizione di realizzare questo obiettivo, perché non riesci a trovare un impiego o devi accontentarti di un lavoro precario, dequalificato e sottopagato». I modelli vincenti non premiano il merito ma la prepotenza sociale. Il punto di rottura arriva quando i padri ti dicono di aver fatto più dei loro genitori, e partendo da condizioni ben più difficili da quelle in cui, grazie al loro lavoro, ti hanno fatto crescere. Così, «alla frustrazione di non riuscire a essere indipendenti si somma la distruzione dell’autostima». In tanti provano a fuggire dalla realtà, magari con lo “sballo” quotidiano per sopportare le delusioni. Rapporti superficiali, di cui fanno le spese anche i sentimenti: l’amore, che «si riduce a rapporti occasionali senza domani», e l’amicizia, che spesso è solo un elenco di nomi su Facebook.
Negli ultimi decenni, «la diffusione dei modelli di consumo a ogni aspetto dell’esistenza e una invadente mercificazione dei processi della vita ci hanno portato a prediligere quei rapporti umani che hanno per noi una sorta di riscontro economico finale», scrive Bertaglio. «E allora, ha ancora senso chiedersi come sia possibile che un aumento esponenziale di divorzi, una diffusione senza precedenti della sensazione di solitudine, un individualismo disarmante, l’incapacità di comunicare o qualunque altro fenomeno di questo tipo (con i conseguenti abusi di droghe, alcol o psicofarmaci) possa caratterizzare gran parte del mondo degli under 40?». Non bisogna essere sociologi, dice Pallante, per capire che queste parole rispecchiano la realtà drammatica delle giovani generazioni. «Parole molto più autentiche rispetto a quelle di chi le pronuncia facendole seguire da vuote promesse di risoluzione di questo dramma». Il teorico italiano della decrescita non ha dubbi: «L’economia finalizzata alla crescita della produzione di merci è ormai giunta al suo capolinea e non consente più di soddisfare con le compensazioni consumistiche offerte alle generazioni passate il vuoto spirituale che ha creato tra gli esseri umani».
Questo è il punto: le vie della crescita sono finite, e il disorientamento – acuito dalla pubblicità bugiarda – colpisce senza pietà soprattutto i giovani, “condannati” a restare consumatori mancati, quindi doppiamente frustrati. La recessione comporta una riduzione dei posti di lavoro, del reddito e dei consumi. Ma siamo sicuri, si domanda Bertaglio, che questo provochi un peggioramento inevitabile della qualità della vita? «La crescita dei consumi indica un miglioramento se si passa da un pasto al giorno a tre, ma non è più così se invece si traduce nel passare da un cellulare all’anno, già all’età di tredici anni, a un nuovo telefono ogni sei mesi». Dietro alla più innocua tastiera si nasconde la guerra a spese dei poveri che si combatte in Congo per le miniere di coltan, il minerale non rinnovabile che costituisce un componente indispensabile per tutta l’elettronica di consumo. Una filiera tossica: emissioni, inquinanti, rifiuti. Tutti fattori che comportano un progressivo peggioramento della biosfera.
La crisi del modello della crescita, aggiunge Pallante, apre prospettive nuove, con vantaggi insospettabili. Per esempio, quelli garantiti dall’innovazione tecnologica finalizzate a ridurre il prelievo di risorse a parità di produzione, a ridurre le varie forme di inquinamento ambientale, a far durare di più gli oggetti, a recuperare i materiali contenuti negli oggetti dismessi. Si chiama: decrescita selettiva della produzione e del consumo di merci. Una prospettiva nuova, che aiuta a capire che “il più” non è sempre sinonimo di “meglio”, così come la parola “meno” non significa per forza “peggio”. Proprio la grande depressione che stiamo vivendo «consente di aprire una nuova fase di progresso nella storia umana», obbligando tutti – a partire dai giovani – a rivedere gli stili di vita. Andrea Bertaglio ci crede: meno competizione e più cooperazione. Meglio cominciare subito, dal basso, senza attendere che il mercato globale impazzito si dia delle regole sane.
Non tutti riescono a sottrarsi all’incantesimo della crescita, aggiunge Pallante, ma cresce il numero dei ragazzi che hanno iniziato il loro cammino di liberazione, a partire dalle loro scelte di vita. «Si stanno emancipando dalla necessità di consumare, dal bisogno di riempire delle borse di oggetti perché incapaci di riempire il vuoto che si è creato dentro di loro». Giovani che «stanno riscoprendo i saperi e il saper fare con cui le generazioni precedenti erano in grado di soddisfare alcuni bisogni vitali, autoproducendo molte delle cose necessarie per vivere». Basta non vivere questa scelta come una chiusura in nicchie di alterità, bensì come l’applicazione dell’indicazione gandhiana: «Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo». Avvertenza: «La salvezza individuale non esiste». Andrea Bertaglio ne è consapevole: «Ormai siamo in molti a non avere più un Dio, né un ideale o un’ideologia in cui credere, e le conquiste fatte a livello sociale e politico, l’emancipazione raggiunta dalle generazioni precedenti, rischiano in questo momento di essere sprecate da un livello di immoralità, volgarità, superficialità e stupidità che in certi momenti fanno rimpiangere epoche passate e notoriamente più austere di quella attuale».
(Il libro: Andrea Bertaglio, “Generazione decrescente”, Età dell’Acquario Edizioni, 176 pagine, 12 euro).
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