Alcuni anni fa, quando la Fed intraprese un ciclo di «allentamento monetario», i leader di alcuni mercati emergenti espressero critiche. Vedevano l'acquisto di titoli a lunga scadenza come una svalutazione competitiva del dollaro e temevano che condizioni monetarie favorevoli negli Usa avrebbero dato il via a un massiccio afflusso di «hot money», provocando il rialzo dei loro tassi.
Si preoccupavano che questo fenomeno, oltre a ridurre la competitività del loro export, li avrebbe esposti ai contraccolpi della brusca interruzione dei flussi di capitale quando gli Usa avessero invertito il corso. A prima vista, questi timori sembrano essere stati fondati. Il solo annuncio che la Fed possa ridimensionare le operazioni non convenzionali ha portato alla fuga di capitali dagli emergenti.
Ma questa ricostruzione fa perdere di vista la ragione per cui negli ultimi anni c'è stato un afflusso di capitali verso gli emergenti. Il colpevole è l'euro. L'allentamento quantitativo negli Usa non può essere il responsabile di queste fluttuazioni: il deficit estero americano non è cambiato molto negli ultimi anni. In condizioni che rasentano una trappola della liquidità l'adozione di misure di politica monetaria non convenzionali tende ad avere un effetto modesto sulle condizioni finanziarie e sulla domanda.
I modelli dicono che se una politica monetaria espansiva ha un impatto reale sull'economia non dovrebbe avere grandi conseguenze sul saldo delle partite correnti: qualsiasi effetto positivo sulle esportazioni dovrebbe essere compensato da un aumento delle importazioni dovuto alla crescita della domanda interna. Così è accaduto negli Usa. L'effetto dell'allentamento quantitativo sui mercati emergenti è stato grossomodo neutro. Ma l'austerità in Europa ha avuto un profondo impatto sul saldo delle partite correnti dell'eurozona, che è passato da un deficit di quasi 100 miliardi di dollari nel 2008 a un surplus di quasi 300 miliardi nell'anno in corso. La ragione: l'interruzione dei flussi di capitale verso i membri meridionali dell'area, che ha costretto questi paesi a intervenire sulle partite correnti, portandole dal deficit combinato di 300 miliardi di dollari di tre anni fa all'attuale piccolo surplus.
Siccome i paesi del nord non hanno aumentato la loro domanda, nell'eurozona si riscontra il più forte surplus nelle partite correnti a livello mondiale, superiore persino a quello della Cina. Questa straordinaria fluttuazione di quasi 400 miliardi di dollari nel saldo delle partite correnti dell'eurozona non è il risultato di una «svalutazione competitiva»: l'euro è forte. La vera causa del forte surplus commerciale è stata una domanda interna così debole che negli ultimi cinque anni si è avuto un ristagno delle importazioni (con un tasso di crescita annuale media dello 0,25%). La causa della situazione attuale è l'austerità. La debolezza della domanda europea è la ragione per cui i saldi delle partite correnti dei mercati emergenti sono peggiorati.
I leader dei mercati emergenti avrebbero dovuto criticare l'austerità europea, non l'allentamento quantitativo Usa. I propositi del presidente della Fed Ben Bernanke di «ridimensionare» l'allentamento quantitativo possono essere stati la causa immediata dell'accesso di instabilità, ma la vulnerabilità di base dei mercati emergenti è di matrice europea. L'instabilità dei mercati ci pone ancora una volta di fronte al paradosso della parsimonia. Man mano che i capitali abbandonano i mercati emergenti, questi saranno costretti ad adottare misure di austerità e portare i conti in attivo, analogamente a quel che avviene oggi alla periferia dell'eurozona.
Ma a quel punto chi potrà, e vorrà, trovarsi in deficit? Vengono in mente due delle tre maggiori economie mondiali: la Cina, vista la forza del suo bilancio, e l'eurozona, grazie allo status dell'euro come valuta di riserva. Ma entrambe sembrano intenzionate a presentare forti surplus (i maggiori al mondo). Di conseguenza, a meno che gli Usa non riprendano il ruolo di consumatore in extremis, l'ultima ondata di agitazione del mercato finanziario indebolirà ancora l'economia mondiale. E qualsiasi ripresa globale subirà prevedibilmente un'altra scossa.
(traduzione di Elisa Comito)
(10 settembre 2013)
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