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venerdì 20 settembre 2013

La fine interminabile del capitalismo



In "Capitalismo in-finito", Aldo Bonomi racconta l'ascesa e la caduta della borghesia diffusa del capitalismo molecolare e dei distretti industriali. Dagli anni Ottanta, le sue quattromila imprese sono cresciute grazie al decentramento produttivo e alla riduzione della società italiana al “ceto medio”. Questa è stata la storia (anche) del Nord-Est, e del suo "capitalismo molecolare". Nel tempo questo modello è diventato l'oggetto di uno dei "miti" della produttività all'italiana.

Oggi la crisi ha lasciato sul terreno una moltitudine di disoccupati e partite Iva che formano una sterminata massa di contoterzisti impoveriti. Diversi per status e per culture professionali dai precari maggioritari, ma come loro ridotti a un neo-proletariato definito anche da Bonomi “Quinto Stato”.

Che cos'è il Quinto Stato
Categoria altamente composita, cresciuta sull'onda della “terziarizzazione” dell'economia, il Quinto Stato raccoglie tre habitus diversi: quello del capitalismo personale; il lavoro della conoscenza, culturale e creativo; quello dei servizi alla persona e della logistica. Più che rappresentare un soggetto unico, e omogeneo, il Quinto Stato è il nome del processo che ha progressivamente precarizzato i rapporti di lavoro, svuotato i territori e i rapporti produttivi. Questo processo ha investito tanto i precari tradizionali, quanto il lavoro autonomo professionale che Sergio Bologna ha definito di “seconda generazione”. 

Bonomi non trascura la contraddizione interna al Quinto Stato, tra la lower middle class e il proletariato dei precari che non hanno nulla da spartire con i ricchi professionisti o gli attori della speculazione finanziaria. Tra di loro i legami sono tenui e, quando ci sono, il conflitto è aspro. In questo caso, parlare di “Quinto Stato” significa descrivere un orizzonte che contiene scandalose differenze di classe, ma anche una vita sociale aperta al conflitto.

La plasticità di una categoria che indica una condizione, e non solo un soggetto produttivo o contrattuale, impedisce di identificare il Quinto Stato solo in una classe creativa, un ceto professionale o imprenditoriale. Per noi il problema è emerso scrivendo "La furia dei cervelli", un libro lungamente analizzato in "Capitalismo in-finito". Oggi sappiamo che il Quinto Stato non allude solo allo status di una categoria professionale, ma incarna il futuro di un lavoro che sarà sempre più indipendente, intermittente e autonomo e già oggi indica la condizione di una vastissima porzione della forza-lavoro attiva, al di là delle nazionalità di riferimento.

Il Quinto Stato resta un motore della ricchezza, anche se viene disconosciuto dalle rappresentanze politiche, imprenditoriali o sindacali.

Questa è la situazione che sta emergendo in una crisi che ha già distrutto oltre un milione di posti di fissi in Italia, ma non ha certamente cancellato la capacità di vivere in maniera operosa. Il Quinto Stato si definisce in base ad una capacità comune agli esseri umani e alle possibilità di affermarla sui territori e nelle città, indicati da Bonomi come i luoghi dove elaborare un progetto di “green society” alternativo all'Europa dell'austerità.

Coalizioni
Il Quinto Stato oggi è un processo discontinuo la cui finalità resta ancora da comprendere. Ciò non toglie che esso abbia caratterizzato i processi produttivi e sociali degli ultimi trent'anni. Politicamente si è espresso nel sindacalismo territoriale della Lega Nord o nel blocco sociale berlusconiano. Il Movimento 5 Stelle, anch'esso può essere considerato un'espressione del Quinto Stato, si limita a sostituire l'identificazione con il Capo Beppe Grillo al legame ancestrale con un territorio o all'ambizione di governare il paese come una rete Mediaset. 

Questi limiti non dovrebbero tuttavia distogliere l'attenzione dal fatto che il Quinto Stato è anche un soggetto di riferimento per la politica. Bonomi sostiene che il suo futuro resta legato alla possibilità di costruire coalizioni tra le vittime e gli attori di un processo che ha cambiato radicalmente la società italiana. Per realizzarle è necessaria una forza politica (e non solo un partito o un movimento personale) che abbiamo visto risvegliarsi nel lavoro culturale o nella difesa dei beni comuni, con la difficoltà di produrre risultati tangibili.

E tuttavia è difficile capire come costruire tali coalizioni. In due anni abbiamo assistito ad una frammentazione politica che ha portato i movimenti anti-austerity a dividersi in parti più piccole di un atomo. E non sappiamo se e quanto i soggetti del "fare impresa" di cui parla Bonomi si sentano rappresentati dalla Confindustria di Giorgio Squinzi che, al fondo, propone un rilancio della manifattura; la ripresa degli investimenti sulle energie fossili. Due aspetti che ci sembrano molto lontani da un progetto di "green society" e di eco-sostenibilità.

Il lavoro autonomo, indipendente o precario è stato disarticolato dalla crisi, ha peggiorato la sua condizione socio-economica, non favorisce la sua partecipazione alla sfera pubblica.

Una miscela esplosiva
Il crash economico-finanziario è iniziato nel 2007-2008 e continuerà a lungo. Qui siamo. Ma non dobbiamo perdere l'abitudine allo sguardo lungo, e in profondità, sulla trasformazione. Quella del lavoro che coinvolge direttamente il rapporto con i "territori" e con le "istituzioni". A partire da questa triangolazione è possibile intravvedere un nuovo orizzonte per la "politica". Non è teoria, è pratica. Si afferma nella difesa dei "beni comuni", oppure nell'impegno per nuovi modelli di sviluppo estranei ai faraonici progetti delle "grandi opere". Per Bonomi si riconosce sempre meno nell'"antropologia economica delle 3C: Capannoni-Comunità-Campanile". 

La crisi ha trasformato la percezione del territorio. Spesso ci soffermiamo sugli aspetti mortiferi, legati alla desertificazione industriale, all'abbandono di migliaia di famiglie sul lastrico, con o senza cassa integrazione. In molti casi, l'unico centro resta quello degli ipermercati.

Il territorio è diventato una gabbia senza uscita. Esiste anche la percezione del suo allungamento e della sua dispersione. Il Nord Est, ad esempio, è ormai una macro-area che comprende almeno un paio di nazioni europee. E altri esempi di delocalizzazione si potrebbero fare.

Bonomi propone invece un'altra idea di territorio: Non piú una sommatoria di contesti locali governati secondo uno schema piramidale centro-periferia, ma piuttosto un intreccio in fieri di piattaforme territoriali di interconnessione tra società locali e flussi.

La sua attenzione va ad un capitalismo
"flessibile in cui cresce l’importanza delle componenti immateriali, delle tecnologie informatiche, di un capitale umano fatto di saperi formali di diversa natura e intensità". 

Nel territorio come piattaforma si affermano nuove logiche di organizzazione sociale fuori dalle matrici comunitarie e localistiche tradizionali, con l’estendersi dello spazio di riferimento dello sviluppo oltre la dimensione locale e l’agglomerarsi di grandi piattaforme produttive. Seguirebbe una riorganizzazione politico-istituzionale

"di poteri e funzioni dello Stato centrale e dei livelli istituzionali locali o sopranazionali e il passaggio dallo Stato soggetto allo Stato funzione”.

Oggi questa riorganizzazione è guidata dalle politiche di austerità e dalla loro idea di territorio, di capitalismo e di riorganizzazione istituzionale. Bonomi segnala come i "governi dei tecnici" abbiano gravemente danneggiato la "neo-borghesia" del capitalismo molecolare (più tasse) come i lavoratori precarizzati (con la riforma Fornero del lavoro e delle pensioni). Entrambi si trovano impigliati nelle reti di un capitalismo sbrindellato. La crisi è stata aggravata dall'intreccio fatale del fallimento del post-fordismo all'italiana con quello delle politiche dell'austerità.

Questa è una miscela esplosiva.

Il mutualismo
Lo strumento per riprendere l'iniziativa in questa cornice potrebbe essere il mutualismo. La proposta è presente anche nel libro di Bonomi. La lunga storia di questo concetto ha portato la sinistra a intenderlo come una forma di solidarietà tra i poveri. Il mutualismo è invece lo strumento utile per creare coalizioni democratiche che abbiano lo scopo di garantire il mutuo soccorso, regimi di auto-governo e nuove istituzioni territoriali. Sono queste le basi, solidali e non individualistiche, per una riforma universale del Welfare che tuteli le potenzialità della persona e non la sua appartenenza a corporazioni, sindacati o classi sociali. 

Questa prospettiva resta purtroppo una prerogativa di minoranze attive e viene ignorata dalla maggioranza del Quinto Stato, sempre più passivo, rancoroso e impoverito. Ciò non toglie che, per chi fosse interessato a “fare politica”, il mutualismo rappresenti un'opzione concreta, oltre che una radicale alternativa all'austerità. E non può essere altrimenti perché il mutualismo esprime l'esigenza di costruire una società dove milioni di persone continueranno a vivere e a lavorare in maniera indipendente e dovranno difendere la propria autonomia contro tutte le forme di sfruttamento e ricatto.

Tra i principi costituenti del mutualismo c'è la secolare tradizione civica italiana che ha sempre ragionato sul municipalismo e il suo rapporto con i territori e con le persone che li vivono e li attraversano. Nella tradizione del mutualismo c'è anche l'idea di un'Europa intesa come uno spazio dove affermare la libertà, la solidarietà e la giustizia sociale. Infine c'è la pretesa di incidere sulle scelte politiche a livello locale. Collegare questi livelli nella stessa cornice potrebbe servire ad affrontare il problema della rappresentanza, oltre che a riattivare la partecipazione.

Una scommessa altissima
A sinistra quando si parla di "politica" si evocano sempre principi intramontabili che difficilmente scaldano il cuore. Oppure ci si dedica alle alchimie dei "soggetti politici" e dei cartelli elettorali, un bricolage che non porta mai a nulla. Sarebbe invece preferibile partire da ciò che si muove sui territori. 

A partire da questa base si può configurare un campo, oggi allo stato a dir poco fluido, composto da coalizioni tra associazionismo civico e promozione sociale con le diverse anime che compongono il Quinto Stato: lavoratori indipendenti, auto e piccola impresa e molti altri segmenti sparsi nella sterminata provincia italiana, sospesi tra sottoccupazione e assenza di retribuzione. Vista dall'alto, al di fuori delle dinamiche presenti sui territori e nelle reti, questa resta una prospettiva difficile. Ripartiamo invece dal basso e restiamo alle cose, lì dove nascono i rapporti tra le persone, i territori e le istituzioni.

In Italia esiste una domanda di riappropriazione dei flussi economici, della tutela e della valorizzazione socio-culturale dei territori. Si continuano a costruire reti tra spazi e soggetti sociali, economici, istituzionali capaci di produrre ricchezza e buone forme di vita, invece che sfruttamento e passioni tristi.

La loro è una scommessa altissima, anche perché manca una visione condivisa della società. Corrono il rischio di perderci nella difesa testimoniale e minoritaria del localismo, di identità posticce, rassegnandoci all'aggravarsi delle differenze di classe e della povertà. 

(18 settembre 2013)

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