I dati resi noti recentemente da Confindustria sulla drastica riduzione degli investimenti esteri in Italia (ridottisi in un anno di circa il 70%) hanno indotto molti commentatori a imputare questo fenomeno all’eccessivo carico burocratico che graverebbe sulle imprese che operano in Italia, suggerendo provvedimenti di semplificazione.
Si tratterebbe di mettere a punto dispositivi che riducano i passaggi burocratici ai quali un’impresa deve sottostare per svolgere la sua attività. In prima approssimazione, l’idea è appealing, dal momento che sembrerebbe di trovarsi di fronte all’ennesima formula magica di provvedimenti “a costo zero” che generano crescita, attraverso l’ingresso di nuove imprese in Italia.
Tuttavia, come evidenziato da un’ampia letteratura teorica ed empirica, le decisioni di localizzazione delle grandi imprese – per quanto attiene alle parti del processo produttivo che richiedono un uso intensivo di manodopera altamente qualificata – sono fondamentalmente determinate dalle “economie di agglomerazione” che esse possono sfruttare laddove già esiste una forte concentrazione industriale. In altri termini, il capitale tende a localizzarsi in Paesi nei quali si concentrano le attività di ricerca e sviluppo, attirando dalle aree periferiche forza-lavoro con elevato capitale umano e localizzando le produzioni a bassa intensità tecnologica nelle aree con salari più bassi, minore tassazione, maggiore flessibilità contrattuale, minore tassazione.
Ma anche assumendo che la semplificazione degli oneri burocratici sia un fattore di attrazione degli investimenti, non è chiaro, fin qui, a quali passaggi burocratici si fa riferimento. Va ricordato che, in molti casi, si tratta di oneri burocratici finalizzati a verificare che l’esercizio dell’attività di impresa non generi esternalità negative, ovvero non produca danni sociali i cui costi non vengono sostenuti dall’impresa stessa (a titolo puramente esemplificativo, la produzione di inquinamento). Semplificazione, in questa accezione, significa niente altro che maggiore libertà d’impresa, ovvero minori vincoli posti al suo agire, anche se questi vincoli esistono perché esistono diritti che le imprese sono tenute a rispettare.
La retorica delle semplificazioni si basa su una visione puramente ideologica e di segno marcatamente liberista: come scriveva Friedman negli anni settanta, la sola responsabilità sociale delle imprese consiste nell’aumentare i loro profitti, dal momento che maggiori profitti comporterebbero maggiori investimenti, maggiore crescita economica e riduzione del tasso di disoccupazione.
Anche ammesso che questi nessi funzionino, occorre rilevare che – declinata questa tesi nell’attuale contesto italiano – un aumento degli investimenti dovrebbe derivare sic et simpliciter da minore burocrazia, dunque da un ulteriore dimagrimento del settore pubblico. Se, infatti, appare pressoché indiscutibile che gli oneri burocratici (non solo sulle imprese) sono in Italia notevolmente elevati, occorre chiedersi se una “riforma” dell’apparato burocratico non si traduca in licenziamenti nella Pubblica Amministrazione. E, a seguire, occorre chiedersi se i benefici di (eventuali) maggiori investimenti eccedano o meno i costi di una (eventuale) riduzione del tasso di occupazione nel settore pubblico. D’altra parte, se anche provvedimenti di semplificazione non hanno effetti sull’occupazione, per quanto fin qui sperimentato, non hanno alcun effetto macroeconomico significativo: sia sufficiente, a riguardo, ricordare il decreto semplificazioni del Governo Monti (febbraio 2012), i cui risultati sono, ad oggi, sostanzialmente invisibili.
Ci si può anche chiedere se sia la semplificazione dell’attività di impresa la sola strategia efficace per generare crescita o, se, per quanto in prima approssimazione possa sembrare paradossale, non lo sia invece la sua “complicazione”, sotto forma di una normativa più stringente.
Lungo la linea delle riforme “a costo zero”, si può immaginare un percorso alternativo a quello delineato dal Governo, mediante politiche di redistribuzione del reddito a vantaggio del lavoro dipendente. Fra queste, la fissazione ope legis di salari minimi, combinata con una legislazione più restrittiva sui licenziamenti. Queste misure possono avere effetti positivi sui flussi di innovazione e, per questa via, sul tasso di crescita, per due ragioni.
1) Sul piano microeconomico, un aumento esogeno dei costi di produzione ridurrebbe temporaneamente i margini di profitto delle imprese. Al fine di ripristinarli, le imprese non avrebbero altra soluzione se non far crescere la produttività del lavoro e, per far questo, accrescere l’accumulazione di capitale tecnico. E’ un effetto che può generarsi con la massima intensità se le imprese non sono poste nella condizione di aumentare i prezzi nella stessa misura con qui aumentano i salari monetari.
2) Sul piano macroeconomico, un aumento dei salari comporta un aumento dei consumi e, per le imprese nel loro complesso, un aumento dei profitti monetari. Ciò determina, a seguire, la disponibilità di maggiori fondi interni per il finanziamento degli investimenti, il che costituisce quantomeno una condizione permissiva per generare flussi di innovazione. In più, se l’aumento della domanda aggregata migliora le aspettative imprenditoriali, ciò si traduce in una effettiva crescita del tasso di accumulazione.
L’aumento dei salari non comporta oneri aggiuntivi per la finanza pubblica e dovrebbe comportare maggiori innovazioni prodotte da imprese italiane. E’ un’operazione “a costo zero” che, tuttavia, contro le tesi dominanti, non semplifica l’attività d’impresa ma, proprio per questo, ha potenziali effetti positivi sul tasso di crescita.
Si possono nutrire molti dubbi sul fatto che sia possibile riattivare un sentiero di crescita senza spendere un euro, o quasi, ma – anche ammesso che lo si possa fare – non necessariamente occorre immaginare provvedimenti a costo zero che, almeno in via diretta, favoriscano solo le imprese. Con l’aggravante che il tentativo di attrarre investimenti è finalizzato essenzialmente ad accrescere l’attività di ricerca e sviluppo (che, non a caso, è svolta essenzialmente dalle imprese estere che operano in Italia), alla quale le nostre imprese, nella gran parte dei casi, hanno ormai rinunciato.
(3 luglio 2013)
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