Inaugurando per l’ennesima volta lo stabilimento Sevel in Abruzzo, Sergio Marchionne ha dichiarato che quegli investimenti saranno gli ultimi in Italia, se resterà ancora in vigore la Costituzione e ancor di più se ci sarà chi la fa applicare. Il criptofascismo dell’amministratore delegato Fiat non è una novità, ma in questo caso la minaccia contiene anche una bugia perché la sua azienda e già impegnata in un nuovo investimento nel nostro paese, l’acquisto del controllo sul “Corriere della Sera”. Immaginate la Ford all’assalto del “New York Times”, o la Peugeot che vuol controllare “Le Monde”, o la Volkswagen che spende per la “Frankfurter Zeitung”… Solo da noi questo avviene senza scandalo, e con il servilismo del governo e di chi lo sostiene. Ma perché una multinazionale dell’auto prevalentemente americana considera strategico il controllo della Rcs?
Così ha infatti affermato Sergio Marchionne e immagino lo stesso concetto abbia sostenuto John Elkann nel lungo colloquio telefonico con il presidente della Repubblica. Perché la Chrysler Fiat, che già controlla “La Stampa”, considera strategico costruire in Italia un impero editoriale, quando anche Mirafiori va in malora per assenza di investimenti? Il regime politico informativo bipartisan che ci governa questa domanda non se l’è posta né tantomeno l’ha posta, e questo la dice lunga sullo stato comatoso della nostra democrazia. Rappresentato da un Giorgio Napolitano che interviene su tutto tranne che su ciò su cui dovrebbe, nonostante le pie illusioni di Della Valle. La Fiat vuole il “Corriere” perché vuole partecipare in prima persona alla ristrutturazione del potere economico e politico che il governo delle larghe intese sta amministrando. Proprio perché investe sempre meno nella produzione industriale e nella ricerca, la Fiat spende più soldi per fare affari e finanza assieme e dentro il potere politico.
Già negli anni ‘90 la famiglia Agnelli voleva abbandonare l’auto e iniziò a costruire una seconda azienda che spaziava dai telefoni alle banche al turismo. Questa operazione fallì e la Fiat fu salvata dalle banche e dai contribuenti, ma intanto anni e soldi erano stati buttati e l’azienda aveva perso un giro strategico rispetto ai concorrenti nella innovazione industriale. Il grandissimo venditore di fumo italo-svizzero-canadese fu capace di rilanciare gli affari della famiglia nel mondo, usando ovunque gli accordi con il potere politico. Tutto questo al prezzo di una devastante ristrutturazione in Italia, con la chiusura di tanti stabilimenti soprattutto nel Mezzogiorno e con decine di migliaia di lavoratori in cassa integrazione senza alcuna vera prospettiva di rientro allavoro. E soprattutto senza nuovi prodotti in arrivo, per i quali non si fanno investimenti, con o senza le sentenze della Corte Costituzionale. Del resto lo stesso Marchionne ha più volte detto: non è il momento. Al contrario della Volkswagen che proprio ora investe, e non sui giornali!
Più la Fiat deindustrializza, più la proprietà fa affari nei salotti buoni del poteredel nostro paese. Più gente perde il posto di lavoro, più potere mediatico si acquista. D’altra parte perché la Fiat dovrebbe fare qualcosa di diverso quando tutto il palazzo la sostiene? Il vescovo di Nola e la presidente della Camera sono stati accusati di estremismo dall’azienda e da Brunetta. Anche il senatore ex segretario Fiom, Airaudo, ha chiesto di superare gli opposti estremismi delle due parti. È il momento della pace, titola la “Repubblica”, mentre Landini chiede all’azienda di superare il passato. Pace su che, per fare che? La Fiat continua a lasciare a casa la gente e a sfruttare per due coloro che ha la bontà di far lavorare. Dal punto di vista industriale l’azienda non ha futuro, ma gli affari per la proprietà vanno al meglio e si comprano i giornali. E Letta tace e Napolitano acconsente. SeBerlusconi è il simbolo del disastro delle classi dirigenti passate, Marchionne lo è di quelle attuali. Che non trovano nulla da dire sul fatto che un industriale automobilistico chiuda le fabbriche e compri i giornali. Vergogna.
(Giorgio Cremaschi, “Gli affari di Marchionne e il disastro dell’Italia”, da “Micromega” del 9 luglio 2013).
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