Non vi sono dubbi: è un gran bel gesto quello di papa Francesco che ha scelto quale meta del suo primo viaggio pastorale Lampedusa. Ovvero l’isola che non è solo confine geografico e amministrativo, ma anche quel confine umano, morale, politico che marca i limiti della nostra presunta civiltà. L’isola ove approdano gli Ahmed dagli occhi neri, le Dalila dai denti smaglianti e gli Alì dagli occhi azzurri, per dirla con la profezia di Pasolini. Quando riescono ad approdare, quando non vanno a raggiungere i quasi ventimila – bambini compresi – che nel corso degli ultimi venticinque anni hanno abbandonato le loro spoglie agli abissi del Mare Nostrum. Come Fleba il Fenicio di Eliot, cui “una corrente sottomarina spolpò le ossa in sussurri”.
Il papa va lì a piangere i morti, ha detto il suo sottosegretario. E anche questo ci piace, tanto quanto ci dispiace la sua prevedibile ostilità verso il matrimonio tra omosessuali e il diritto di decidere della propria gravidanza e del proprio congedo dalla vita. Ci piace poiché piangere i morti è rito universale, atto transreligioso e transculturale per eccellenza, che sottrae i non più vivi all’anonimato, all’insignificanza, all’oblio. Che restituisce dignità, come ha dichiarato Laura Bodrini, “alle migliaia di vittime della guerra a bassa intensità che da quindici anni si combatte nel Mediterraneo”.
Ma Francesco va lì anche a denunciare implicitamente la crudeltà del paradigma proibizionista, sempre più militarizzato, la sua dissennatezza, in fondo, il suo utilizzo strumentale a vantaggio di chi trae profitto dalla politica della paura, del disprezzo, dell’inferiorizzazione e de-umanizzazione degli altri.
Che a compiere questo gesto sia un pontefice è cosa importante, se non altro sul piano simbolico e per gli effetti che potrà avere sull’immaginario collettivo. Poiché vale a incrinare la rappresentazione di Lampedusa come isola dei dannati, luogo di ammasso di un’indistinta bolgia di pezzenti, per di più sempre pronti a ribellarsi, punto di coagulo del magma umano che minaccia di travolgerci. Una rappresentazione che perdura e si riproduce, malgrado gli sforzi ammirevoli di Giusi Nicolini, amministratrice e persona di grande valore e umanità.
Gesto inedito, quello di Bergoglio, che mette in luce la miseria della politica italiana, giacché mai un ministro, un capo di governo o di stato hanno avuto il coraggio di andare lì per piangere i morti, spegnere i gridi di allarme, sgonfiare la sindrome da assedio, esortare i vivi all’accoglienza, predisporre misure per renderla stabilmente possibile e dignitosa. Bensì il più delle volte per gridare all’emergenza e rafforzare le campagne contro l’invasione dei “clandestini”: detti così anche quando sono bambini, rifugiati o richiedenti asilo.
Certo, non si può e non sarebbe giusto affidare a un capo religioso ciò che spetta alla politica. Ma visto che fra le élite politiche, italiane ed europee, vi sono molti che amano cianciare di radici cristiane, il gesto di papa Francesco potrebbe, chissà, far vergognare qualcuno. Come scriveva nel novembre scorso la sindaca di Lampedusa e Linosa in un appello pubblico, in fondo la politica europea sull’immigrazione reputa “questo tributo di vite umane un modo per calmierare i flussi, se non un deterrente”. Eppure – aggiungeva – “se per queste persone il viaggio sui barconi è tuttora l’unica possibilità di sperare, io credo che la loro morte in mare debba essere per l’Europa motivo di vergogna e disonore”.
Annamaria Rivera, da il manifesto
(7 luglio 2013)
Il papa va lì a piangere i morti, ha detto il suo sottosegretario. E anche questo ci piace, tanto quanto ci dispiace la sua prevedibile ostilità verso il matrimonio tra omosessuali e il diritto di decidere della propria gravidanza e del proprio congedo dalla vita. Ci piace poiché piangere i morti è rito universale, atto transreligioso e transculturale per eccellenza, che sottrae i non più vivi all’anonimato, all’insignificanza, all’oblio. Che restituisce dignità, come ha dichiarato Laura Bodrini, “alle migliaia di vittime della guerra a bassa intensità che da quindici anni si combatte nel Mediterraneo”.
Ma Francesco va lì anche a denunciare implicitamente la crudeltà del paradigma proibizionista, sempre più militarizzato, la sua dissennatezza, in fondo, il suo utilizzo strumentale a vantaggio di chi trae profitto dalla politica della paura, del disprezzo, dell’inferiorizzazione e de-umanizzazione degli altri.
Che a compiere questo gesto sia un pontefice è cosa importante, se non altro sul piano simbolico e per gli effetti che potrà avere sull’immaginario collettivo. Poiché vale a incrinare la rappresentazione di Lampedusa come isola dei dannati, luogo di ammasso di un’indistinta bolgia di pezzenti, per di più sempre pronti a ribellarsi, punto di coagulo del magma umano che minaccia di travolgerci. Una rappresentazione che perdura e si riproduce, malgrado gli sforzi ammirevoli di Giusi Nicolini, amministratrice e persona di grande valore e umanità.
Gesto inedito, quello di Bergoglio, che mette in luce la miseria della politica italiana, giacché mai un ministro, un capo di governo o di stato hanno avuto il coraggio di andare lì per piangere i morti, spegnere i gridi di allarme, sgonfiare la sindrome da assedio, esortare i vivi all’accoglienza, predisporre misure per renderla stabilmente possibile e dignitosa. Bensì il più delle volte per gridare all’emergenza e rafforzare le campagne contro l’invasione dei “clandestini”: detti così anche quando sono bambini, rifugiati o richiedenti asilo.
Certo, non si può e non sarebbe giusto affidare a un capo religioso ciò che spetta alla politica. Ma visto che fra le élite politiche, italiane ed europee, vi sono molti che amano cianciare di radici cristiane, il gesto di papa Francesco potrebbe, chissà, far vergognare qualcuno. Come scriveva nel novembre scorso la sindaca di Lampedusa e Linosa in un appello pubblico, in fondo la politica europea sull’immigrazione reputa “questo tributo di vite umane un modo per calmierare i flussi, se non un deterrente”. Eppure – aggiungeva – “se per queste persone il viaggio sui barconi è tuttora l’unica possibilità di sperare, io credo che la loro morte in mare debba essere per l’Europa motivo di vergogna e disonore”.
Annamaria Rivera, da il manifesto
(7 luglio 2013)
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