domenica 1 settembre 2013
Cercasi acqua disperatamente
di Stefano Vergine, da L'Espresso, 30 agosto 2013
Non avere acqua a sufficienza per bere, coltivare i campi, allevare animali. Oppure averla, ma di una qualità talmente scarsa da causare malattie. È il futuro che attende 1,8 miliardi di persone, praticamente un quarto della popolazione mondiale. Un futuro nemmeno troppo lontano viste le stime dell'Unep: il Programma Ambiente delle Nazioni Unite prevede che tutto questo succederà nel 2025. Colpa in sostanza dell'aumento demografico, con la popolazione globale prevista in aumento dagli attuali sette miliardi di persone a dieci miliardi nel 2050. È quanto fotografa il rapporto "The Global Water Crisis", pubblicato dall'Università delle Nazioni Unite ed è quello a cui è dedicata la settimana mondiale dell'acqua, la World Water Week, come ogni anno in programma a Stoccolma, dall'1 al 6 settembre.
I fatti: nel 2025 la sola agricoltura richiederà altri mille chilometri cubi di acqua all'anno, l'equivalente di venti volte il fiume Nilo. Servirà per coltivare i campi, visto che crescerà la domanda di cibo. Oltre ad avere un pianeta più popolato, le previsioni dipingono infatti un mondo più ricco, dove le nuove classi medie che si stanno formando nei cosiddetti paesi emergenti vorranno consumare di più. Una tendenza già reale in Cina, dove negli ultimi vent'anni l'utilizzo di carne è più che raddoppiato. Se si pensa che la carne è il cibo in assoluto più bisognoso d'acqua (da quella per allevare gli animali a quella per preparare la carne), si capisce la portata del cambiamento. All'aumento della domanda di cibo si affiancherà l'incremento del fabbisogno energetico. In teoria con alcune tecnologie rinnovabili si potrebbe risolvere il problema, cioè creare più energia senza inquinare e sprecare ulteriore acqua. Le cose sembrano però andare in un'altra direzione.
Compagnie e governi di mezzo mondo ultimamente stanno concentrando le loro risorse sullo sviluppo degli idrocarburi non convenzionali. Il più famoso della categoria è lo shale gas, metano intrappolato nelle rocce argillose, grazie al quale gli Stati Uniti hanno rilanciato il proprio ruolo di potenza energetica globale. Il problema è che per estrarre questo gas bisogna fratturare il terreno e iniettarvi massicce quantità d'acqua mista a componenti chimici. Prodotti che, come già avvenuto in alcuni casi, possono inquinare le falde. Ad una domanda idrica in crescita si affianca poi un'offerta che gli esperti prevedono in calo, almeno stando alle condizioni attuali. Motivo? I cambiamenti climatici. L'innalzamento della temperatura terrestre, con conseguente scioglimento dei ghiacci, dovrebbe portare inizialmente ad una maggiore disponibilità d'acqua nell'emisfero settentrionale, mentre il resto del mondo, area mediterranea compresa, dovrà fare i conti con una riduzione delle risorse e periodi più frequenti di siccità. Per alcuni le conseguenze saranno devastanti, vedi la crisi verificatasi in Africa Orientale due anni fa, con oltre tredici milioni di persone coinvolte. A tutto questo va aggiunta una questione geografica immutabile, con cui è tuttavia necessario fare i conti. Come ha sottolineato il Barilla Food Center nel suo recente rapporto "Water economy", le risorse di acqua dolce sono distribuite in modo disomogeneo tra le regioni del pianeta: il 64,4 per cento è localizzato in tredici Paesi, con il Brasile che da solo può vantare il 15 per cento delle risorse totali d'acqua dolce.
L'Italia non è tra i paesi più fortunati, ma nemmeno tra quelli che rischiano maggiormente di soffrire. Significa che non dobbiamo preoccuparci? Al contrario. Buona parte dei prodotti che consumiamo arriva infatti dall'estero, spesso fuori dal Vecchio Continente. Ferro, plastica, legno. E poi il cibo. Se vogliamo capire quant'acqua è servita per la nostra bistecca non dovremo pensare solo a quella che l'animale ha bevuto nella stalla, ma anche a quella utilizzata per coltivare i cereali che lo hanno nutrito, quasi sempre coltivati fuori dalla Penisola. In un contesto di economia sempre più globalizzata, la dipendenza dalle riserve idriche di un altro paese può dunque rappresentare un rischio. Non a caso negli ultimi anni si è sviluppato il cosiddetto colonialismo idrico, cioè l'acquisto di riserve d'acque al di fuori del proprio territorio nazionale. Un fenomeno che va solitamente di pari passo con lo shopping di terreni agricoli, e che ad esso è spesso legato da una ragione specifica: i biocarburanti. La domanda energetica è prevista in crescita nei prossimi decenni, e parecchie nazioni del mondo hanno deciso di incentivare l'utilizzo dei carburanti biologici. Per questo, oltre che per coltivare alimenti, comprare terreni all'estero con relative provviste d'acqua è diventato uno degli investimenti prediletti da fondi di Stato e compagnie private. Il problema è che questi carburanti, pur avendo un impatto positivo in atmosfera rispetto alle fonti fossili, necessitano di grandi quantità idriche per crescere. Secondo l'Unesco, per produrre un litro di biocarburante servono infatti 2.500 litri d'acqua. Insomma la strada non sembra sostenibile. E alcuni paesi hanno già iniziato a lanciare l'allarme.
In cima alla classifica delle nazioni più a rischio c'è l'India, che entro il 2028 diventerà la più popolosa al mondo secondo l'Onu. Il problema, sostiene la Nasa, è che a causa di un uso insostenibile delle risorse idriche utilizzate in agricoltura, il gigante asiatico rischia di andare incontro ad una carenza d'acqua senza precedenti. Per la verità già oggi la situazione a livello globale non è delle migliori. Oltre 800 milioni di persone non hanno accesso all'acqua potabile, due miliardi e mezzo vivono senza strutture igienico-sanitarie di base, una persona su sei non raggiunge gli standard minimi fissati dall'Onu tra i 20 e i 50 litri di acqua dolce pro capite al giorno. Troppi? Quando si parla d'acqua non bisogna considerare solo i consumi reali, cioè quanta ne utilizziamo per lavarci, bere, fare le pulizie e cucinare. È necessario prendere in considerazione l'intero ciclo di vita di un bene acquistato. È la cosiddetta impronta idrica. Un esempio pratico aiuta a comprendere le dimensioni del fenomeno. Prendiamo ancora la carne. Il Barilla Food Center ha calcolato che con un menù giornaliero a base di carne, cioè mangiandola almeno una volta al giorno, un individuo consuma quotidianamente dai 4 ai 5 mila litri d'acqua. È l'equivalente di circa quaranta vasche da bagno piene. Secondo la Fao, il consumo medio pro capite di carne è piuttosto sproporzionato guardando il mappamondo: nei principali paesi sviluppati è di circa 90 chili all'anno, contro un consumo di 40 nell'Africa sub-sahariana e di sei nell'Asia orientale. Se tutti i cittadini del mondo adottassero le abitudini alimentari occidentali, ha calcolato l'Unesco, rispetto a oggi sarebbe necessario il 75 per cento dell'acqua in più. Semplicemente insostenibile.
Eppure le previsioni dicono che nei prossimi anni i consumi di carne aumenteranno. Che fare allora per diminuire i rischi di una crisi idrica? L'Italia ha un ruolo rilevante in questa partita. Siamo infatti il secondo paese al mondo per uso d'acqua, superati solo dagli Usa: ogni italiano ne utilizza in media 385 litri al giorno. Tra le proposte lanciate recentemente a Roma dall'Assemblea Nazionale Programmatica sulle Acque c'è quella di valorizzare il risparmio idrico con i "certificati blu", fornire incentivi per chi usa le acque reflue depurate, ridurre le perdite di rete portandole non oltre il 20 per cento (ora sono al 35). A livello internazionale le speranze maggiori sono invece riposte in alcuni sviluppi tecnologici. Nuovi strumenti per irrigare i campi utilizzando meno acqua, visto che l'agricoltura assorbe circa il 70 per cento delle risorse a livello mondiale. E poi i dissalatori, impianti che prelevano l'acqua di mare rendendola fruibile per usi domestici, sanitari e agricoli. Una tecnologia che risolverebbe buona parte del problema, peccato che necessiti di parecchia energia e i costi la rendano oggi difficilmente accessibile. In attesa che i prezzi scendano e i governi traducano in atti concreti le proposte, che cosa può fare il singolo cittadino?
I calcoli del Barilla Food Center suggeriscono che con pochi accorgimenti si potrebbero raggiungere risultati determinanti. «Ogni giorno», si legge nel rapporto "Water economy", «la quantità di acqua utilizzata pro capite per il consumo domestico ammonta al 3,6 per cento del totale; un altro 4,4 per cento rappresenta la quantità d'acqua necessaria a produrre i beni industriali che utilizziamo, come carta, vestiti, cotone. Ma la vera miniera è nascosta nel cibo: ognuno di noi ne consuma ogni giorno una quantità pari al 92 per cento del totale, che può variare sensibilmente in base a cosa mangiamo, come lo produciamo e agli sprechi che facciamo». Tradotto: più dei rubinetti lasciati aperti e del lavaggio auto, conta quello che mangiamo. Per comprendere l'impronta idrica di un alimento bisogna ripercorrere tutta la catena di produzione. Si arriva così a scoprire che, in media globale, un pomodoro equivale a tredici litri d'acqua, una mela a settanta, un pezzo di formaggio a cinquecento, un hamburger a 2.400 litri. Risultato? Se al nostro menù carnivoro, cioè quello che prevede di mangiare carne almeno una volta al giorno, sostituissimo un menù più sostenibile, fatto di dieta vegetariana per cinque giorni e carne e pesce per i restanti due, la nostra impronta idrica si dimezzerebbe. Risparmieremmo circa 2.500 litri d'acqua al giorno. Non poco.Con tutta quell'acqua si produce il cibo sufficiente a soddisfare il fabbisogno calorico giornaliero di una persona.
(30 agosto 2013)
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