La Confindustria, la Rete delle piccole imprese, l’Associazione delle Banche, l’Alleanza delle Cooperative, praticamente tutte le organizzazioni imprenditoriali italiane hanno chiesto al Parlamento la precarizzazione totale dei rapporti di lavoro fino al 31 dicembre 2016. Fino a quella data le imprese vorrebbero poter assumere con contratti a termine senza vincoli e quindi con la libertà assoluta di fare quel che si vuole dei lavoratori e i lorodiritti. Va aggiunto che contemporaneamente l’Assolombarda ha chiesto che per lo stesso periodo sia possibile applicare con deroghe, cioè non rispettare nei punti fondamentali, i contratti nazionali. Tutto questo è giustificato con l’appuntamento dell’Expo 2015 a Milano. L’Italia, secondo il sistema delle imprese, dovrebbe sfruttare al meglio quell’evento mondiale per creare occupazione al più basso costo possibile.
Questa campagna di concorrenza sleale al lavoro nero è l’ultimo frutto marcio di diverse piante cattive, da trenta anni amorosamente coltivate. La prima è la tesi che più il lavoro è flessibile e precario e più si crea occupazione. È questo il punto di vista classico della destra liberista in tutto il mondo. Secondo questa ideologia, se le aziende non assumono è perché la merce lavoro costa troppo. Se non si vuole che questa merce resti invenduta bisogna allora abbassarne il prezzo in salario e diritti, fino a che sia di nuovo conveniente acquistarla. Questo punto di vista ha orientato da trent’anni tutte le politiche del lavoro dei principali governi, compresi i nostri, ed è una delle cause fondamentali, assieme alla speculazione finanziaria, del perdurare e dell’aggravarsi della crisi.
Infatti il lavoro precario non si aggiunge al lavoro più tutelato, ma lo sostituisce. Così si creano dei margini di guadagno per le imprese che però durano e producono poco; perché sono accompagnati da un impoverimento generale dei lavoratori, con la conseguente caduta depressiva del potere d’acquisto e da una caduta generale della produttività, perché le imprese preferiscono assumere lavoratori low cost piuttosto che investire in innovazione. Alla fine del ciclo economico drogato dalla precarietà la situazione è peggiore che al suo inizio. Ma nonostante questo le classi dirigenti educate nei dogmi e negli interessi liberisti vanno avanti a coltivare la mala pianta della flessibilità. E se questa non produce frutti è perché non la si è ancora coltivata a sufficienza. E così ogni deregulation sul lavoro apre la via a quella successiva, e tutte non bastano mai.
La seconda pianta velenosa è il sistema economico delle grandi opere e dei grandi eventi. Dalle Olimpiadi di Torino, con il loro lascito di rovine materiali, debiti pubblici e disoccupazione di ritorno, alla Tav, al ponte di Messina, agli F-35 e ora all’Expo 2015 è sempre la stessa storia. Grandi investimenti per grandi opere civili o militari, giustificati nel nome dello sviluppo, dell’occupazione e dell’immagine internazionale del paese, che in realtà portano solo danni. Perché si fanno, allora? Perché non si cercano altre strade? Perché, come la precarietà del lavoro, le grandi opere producono lauti profitti a breve sia per gli imprenditori che ci investono, sia per i politici che le sostengono. Profitti materiali e di immagine, che sono sempre sempre pagati da tutto il paese. E qui troviamo la terza mala pianta. La campagna delle imprese per la precarizzazione del lavoro segue la scia di una conferenza congiunta del governo, del sindaco di Milano e del presidente della Lombardia, che assieme hanno esaltato la grande occasione della fiera del 2015. E il presidente della Repubblica si è subito affrettato a benedire, come con gli F -35.
Ancora una volta, di fronte ad una scelta vera si manifesta il pensiero unico di gran parte della classe dirigente politica, in tutte le sue articolazioni, comprese le “opposizioni di sua maestà” della Lega e di Sel. Tutti d’accordo, proprio là dove invece sarebbe indispensabile ricercare e costruire delle alternative. Ma questo non è solo un male dei politici. Quante volte, in questi mesi, abbiamo sentito le imprese manifatturiere accusare le banche, le piccole aziende litigare con le grandi, l’imprenditoria privata recriminare contro la cooperazione? Ora i loro rappresentanti sono tutti assieme a chiedere piena libertà di sfruttamento del lavoro. Cgil, Cisl e Uil oggi criticano, più o meno, la proposta delle imprese, ma sostanzialmente chiedono solo un tavolo dove evitare le esagerazioni. Ma se flessibilità e grandi opere sono cose buone, perché limitarle? E se invece sono cattive, perché continuare con esse?
La questione di fondo sta tutta qui, sta nella subalternità e nell’obbedienza della classe dirigente politica, imprenditoriale e sindacale, verso un modello liberista che viene presentato senza alternative, quanto più invece trovare un’alternativa ad esso diventa indispensabile. Flessibilità del lavoro a tutti i costi, politica delle grandi opere, classe dirigente incapace di qualsiasi vera rottura con il liberismo: questi sono tre mali profondi del paese, mali che aggravano la crisi e si manifestano ad ogni evento. Così l’Expo 2015, dedicata ad uno sviluppo sostenibile, diventa la fiera dello sfruttamento insostenibile del lavoro, diventa la vetrina mondiale della precarietà. Proviamo a farla fallire.
(Giorgio Cremaschi, “L’Expo del precariato”, da “Micromega” del 12 luglio 2013).
Nessun commento:
Posta un commento