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martedì 16 luglio 2013

Ostaggi della Germania: la nostra crisi è il loro business

Un governo inerte che vive solo di rinvii, soprattutto in materia di economia e tassazione: persino il Fmi ammette che la politica di rigore è suicida, ma nessuno osa contrastare il diktat della Germania. Che, per fare profitto, ha bisogno esattamente di questo: indebolire di proposito il Sud Europa, per imporre il suo export demolendo la concorrenza industriale stritolata dalla crisi e “rubando” manodopera specializzata. Queste, spiega Guglielmo Forges Davanzati su “Micromega”, sono le ragioni per le quali «il governo tedesco ha interesse a mantenere (e perpetuare) un’Europa a doppia velocità». L’economia tedesca costituisce oggi il 23% del Pil dell’Eurozona. La crescita economica tedesca è essenzialmente trainata dalle esportazioni: e circa il 60% dell’export tedesco è rivolto ai paesi dell’Eurozona. «A fronte di ciò, il resto dell’Eurozona (i paesi mediterranei, innanzitutto) fa registrare tassi di crescita negativi, consistenti aumenti della disoccupazione – e in particolare della disoccupazione giovanile – riduzione dei consumi e degli investimenti». E nessuno ferma la Germania, perché temono che salterebbe in aria l’euro.
Se la crescita economica tedesca è trainata dalle esportazioni, e se le imprese tedesche esportano prevalentemente nell’Eurozona, «ci si Letta e Merkeldovrebbe attendere che sia nell’interesse del capitale tedesco consentire agli altri paesi membri dell’Unione Monetaria Europea di mettere in atto politiche che accrescano la loro domanda». Invece, avviene esattamente il contrario: evidentemente, la perseveranza tedesca nell’imporre politiche di rigore «porta a considerare due fattori che rendono conveniente, al capitale tedesco, l’impoverimento del resto del continente: lo sfascio delle industrie del Sud Europa favorisce comunque la penetrazione della concorrenza tedesca, sia in termini di vendita del “made in Germany” che in termini di acquisizione a basso costo di personale specializzato, ormai a disposizione dell’industria di Berlino.
Primo aspetto, la concorrenza: al ridursi della domanda estera, infatti, le imprese tedesche accrescono le loro esportazioni. «Per quanto questo effetto possa apparire paradossale, lo si può spiegare in questo modo: l’aumento della pressione fiscale e la riduzione della spesa pubblica nei paesi periferici, generando compressione dei mercati di sbocco interni per le imprese che lì operano (e dunque riducendone i profitti e accrescendone la probabilità di fallimento), consente alle imprese tedesche di acquisire, in quelle aree, quote di mercato crescenti». E’ l’Istat a rivelare che proprio la Germania è il primo paese da cui importiamo beni, per un valore circa pari a 62,4 miliardi di euro. Lo conferma l’incidenza dell’export sul Pil tedesco,Bmw, Mercedes e Audiletteralmente schizzato alle stelle nel giro di appena dieci anni, passando dal 33,4% del 2000 al 50,1% del 2011.
Secondo fronte, il lavoro: «In considerazione dell’aumento della disoccupazione soprattutto giovanile e intellettuale nei paesi periferici, le imprese tedesche hanno un’ulteriore ragione di convenienza nell’imporre in quei paesi politiche recessive: l’attrazione di manodopera altamente qualificata, infatti, consente al capitale tedesco di accrescere la sua competitività su scala internazionale, mediante gli incrementi di produttività derivanti dall’occupazione di forza-lavoro dotata di elevato capitale umano». Vantaggio competitivo sui prodotti e sulla forza lavoro: «Queste due considerazioni – aggiunge Davanzati – portano a ritenere che è solo producendo recessione nel resto d’Europa che il capitale tedesco può fare profitti». In questo scenario, «è del tutto evidente che il nostro governo può far poco o nulla». Nella migliore delle ipotesi, «può contrattare vincoli meno stringenti in ordine ai limiti oltre i quali non sono consentiti aumenti della spesa pubblica in rapporto al Pil». Ma, come mostrato dai recenti tentativi di Letta, «si tratta di importi assolutamente insufficienti per mettere in atto politiche fiscali espansive anticicliche, di entità tali da prospettare il recupero di un percorso di crescita in Italia».
Lo strapotere concesso alla Germania, continua Davanzati, nasce dalla paura di veder crollare l’Eurozona, nel caso in cui Berlino non la trovasse più così conveniente e decidesse di abbandonarla: «L’elevato potere contrattuale tedesco – che si sostanzia nell’imporre politiche che accentuano l’intensità della recessione nei paesi periferici dell’Eurozona – deriva essenzialmente dal fatto che questi paesi temono la deflagrazione dell’Unione Monetaria Europea». E la temono con motivazioni da prendere seriamente in considerazione: «Gli attacchi speculativi sui titoli del debito pubblico dei cosiddetti Piigs si sono fermati essenzialmente a seguito degli interventi della Bce di acquisito di titoli emessi da questi Stati, e dell’annuncio del governatore della Bce di procedere all’emissione di moneta “in misura illimitata” per frenare la speculazione». Aggiunge Davanzati: è opinione diffusa che, qualora un paese decidesse di tornare alla propria valuta,Draghiabbandonando l’euro, subirebbe nuovamente attacchi speculativi sui titoli che emette.
In più, si teme che un’eventuale fuoriuscita dell’Italia dall’Eurozona possa sì portare vantaggi immediati in termini di svalutazione competitiva a favore dell’export, con l’incognita però dell’inflazione, cioè lo spauracchio con cui l’élite neoliberista di Bruxelles ha terrorizzato gli Stati, amputandoli della facoltà di emissione di moneta. Chi teme l’uscita dall’euro paventa il rischio che la svalutazione della lira possa provocare un ulteriore calo dei salari reali, data anche la nostra non autosufficienza per l’approvvigionamento di materie prime. Per contro, invece, «il capitale tedesco ha ben poco da perdere dal ritorno al marco», anche se gli altri paesi europei «dovessero mettere in atto misure protezionistiche», vista la versatilità dell’export tedesco, sempre più rivolto verso est, fino alla Cina. In altre parole, l’attuale governo italiano può solo sperare che sia la Germania – e non l’Italia – a trovare conveniente, domani, l’abbandono dell’euro. A meno che, ovviamente, la crisi non costringa l’Europa (e la Germania) a una resa dei conti politica, a partire dalle elezioni europee del 2014.

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