di Guglielmo Forges Davanzati
La gran parte dei commentatori sembra essere concorde sul fatto che, in materia di politica economica, questo Governo è sostanzialmente inerte e sopravvive grazie a continui rinvii, soprattutto in materia di tassazione. Si tratta di una valutazione in larga misura condivisibile che, tuttavia, nella gran parte dei casi, viene accreditata con argomenti che attengono alla dialettica politica interna alla maggioranza che lo sostiene. Al di là delle oggettive difficoltà che incontra un Esecutivo “di larghe intese”, può essere utile chiedersi perché il Governo Letta, pur volendo, non può agire. Per provare a fornire una risposta, occorre partire da un dato di fatto.
Dopo l’incontestabile fallimento delle politiche di austerità – sul piano dei fatti, ma anche sul piano teorico (si consideri il ripensamento del Fondo Monetario Internazionale e della gran parte degli economisti accademici in merito alla loro efficacia) – ben pochi economisti oggi negherebbero che in un fase di profonda recessione è opportuno mettere in campo politiche fiscali espansive. Realisticamente, immaginare che interventi “a costo zero” possano generare crescita è del tutto inverosimile. E’, tuttavia, ovvio che misure di stimolo alla crescita della domanda interna sono impraticabili per i vincoli di rigore posti in sede europea, per volontà tedesca. Occorre quindi chiedersi per quale ragione il Governo tedesco ha interesse a mantenere (e perpetuare) un’Europa a doppia velocità.
L’economia tedesca, ad oggi, costituisce circa il 23% del PIL dell’eurozona. Nel 2010 ha registrato il più alto tasso di crescita dalla sua riunificazione (+3.7%), nel 2011 il tasso di crescita si è attestato al 3% per poi declinare intorno all’1% nel 2012. Nell’ultimo triennio il reddito pro-capite è aumentato di circa il 3%, generando un aumento dei consumi privati e un aumento del gettito fiscale. La crescita economica tedesca è essenzialmente trainata dalle esportazioni e circa il 60% delle esportazioni tedesche è rivolto ai Paesi dell’eurozona. A fronte di ciò il resto dell’eurozona (i Paesi mediterranei, innanzitutto) fa registrare tassi di crescita negativi, consistenti aumenti della disoccupazione – e in particolare della disoccupazione giovanile – riduzione dei consumi e degli investimenti. Se la crescita economica tedesca è trainata dalle esportazioni, e se le imprese tedesche esportano prevalentemente nell’eurozona, ci si dovrebbe attendere che sia nell’interesse del capitale tedesco consentire agli altri Paesi membri dell’Unione Monetaria Europa di mettere in atto politiche che accrescano la loro domanda.
Evidentemente, la perseveranza tedesca nell’imporre politiche di rigore contrasta con questa ipotesi, e porta a considerare due fattori che rendono conveniente, al capitale tedesco, l’impoverimento del resto del continente.
1) Al ridursi della domanda estera, le imprese tedesche accrescono le loro esportazioni. Per quanto questo effetto possa apparire paradossale, lo si può spiegare in questo modo. L’aumento della pressione fiscale e la riduzione della spesa pubblica nei Paesi periferici, generando compressione dei mercati di sbocco interni per le imprese che lì operano (e, dunque, riducendone i profitti e accrescendone la probabilità di fallimento), consente alle imprese tedesche di acquisire, in quelle aree, quote di mercato crescenti. Si consideri, a riguardo, che, su fonte ISTAT, la Germania è il primo Paese da cui importiamo beni, per un valore circa pari a 62,4 miliardi di euro, e che l’incidenza dell’export sul PIL tedesco è passata, dal 2000 al 2011, dal 33,4 al 50,1%.
2) In considerazione dell’aumento della disoccupazione – soprattutto giovanile e intellettuale – nei Paesi periferici, le imprese tedesche hanno un’ulteriore ragione di convenienza nell’imporre in quei Paesi politiche recessive. L’attrazione di manodopera altamente qualificata, infatti, consente al capitale tedesco di accrescere la sua competitività su scala internazionale, mediante gli incrementi di produttività derivanti dall’occupazione di forza-lavoro dotata di elevato capitale umano.
Queste due considerazioni portano a ritenere che è solo producendo recessione nel resto d’Europa che il capitale tedesco può fare profitti.
In questo scenario, è del tutto evidente che il nostro Governo può far poco o nulla. Nella migliore delle ipotesi, può contrattare vincoli meno stringenti in ordine ai limiti oltre i quali non sono consentiti aumenti della spesa pubblica in rapporto al PIL. Ma, come mostrato dai recenti tentativi in tal senso del Presidente Letta, si tratta di importi assolutamente insufficienti per mettere in atto politiche fiscali espansive anticicliche di entità tali da prospettare il recupero di un percorso di crescita in Italia.
L’elevato potere contrattuale tedesco – che si sostanzia nell’imporre politiche che accentuano l’intensità della recessione nei Paesi periferici dell’eurozona – deriva essenzialmente dal fatto che questi Paesi temono la deflagrazione dell’Unione Monetaria Europea. E la temono con motivazioni da prendere seriamente in considerazione. Gli attacchi speculativi sui titoli del debito pubblico dei c.d. PIIGS si sono fermati essenzialmente a seguito degli interventi della BCE di acquisito di titoli emessi da questi Stati, e dell’annuncio del Governatore della BCE di procedere all’emissione di moneta “in misura illimitata” per frenare la speculazione. E’ opinione diffusa – e condivisibile – che qualora un Paese decidesse di tornare alla propria valuta, abbandonando l’euro, subirebbe nuovamente attacchi speculativi sui titoli che emette. In più, un’eventuale fuoriuscita dell’Italia dall’UME non comporterebbe altri vantaggi se non il potersi avvalere di svalutazioni competitive, il cui impatto sulle esportazioni è sostanzialmente imprevedibile, essendo invece prevedibile un aumento dell’inflazione importata (data la nostra non autosufficienza per l’approvvigionamento di materie prime) e, in assenza di indicizzazione, un ulteriore calo dei salari reali. Ma soprattutto l’abbandono dell’euro da parte italiana non avrebbe effetti sull’economia “reale”, lasciando inalterata una struttura produttiva fatta da imprese di piccole dimensioni, poco innovative e poco esposte alla concorrenza internazionale.
D’altra parte, il capitale tedesco ha ben poco da perdere dal ritorno al marco, anche nella peggiore delle ipotesi, ovvero anche se gli altri Paesi europei dovessero mettere in atto misure protezionistiche. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che una quota consistente delle esportazioni tedesche è già indirizzata altrove: la quota delle esportazioni tedesche intra-UE si è ridotta negli ultimi anni, a vantaggio di altre aree, Cina in primis. Stando così le cose, e considerando gli elevati margini di incertezza che aleggiano sulla tenuta dell’Unione Monetaria Europea, si può ragionevolmente concludere che la tenuta dell’Unione dipende, in larga misura, dalla capacità dell’industria tedesca di accrescere ulteriormente la propria quota di esportazioni in Paesi extra-UE, e che è semmai la Germania, non l’Italia, a poter ottenere i maggiori vantaggi dall’abbandono dell’euro. Rispetto alle dimensioni del problema, dibattere sull’efficacia di misure di “semplificazioni” e di “riforme strutturali” è, in larga misura, fuorviante: un Governo al quale vengono posti vincoli alla gestione della politica fiscale è, per definizione, un Governo condannato all’inerzia.
(12 luglio 2013)
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