di Enrico Grazzini
Sergio Marchionne minaccia di non investire più in Italia se non gli si daranno “regole certe”: perché allora non proporrre quelle “regole certe” che da sessant'anni vengono applicate in tutte le grandi aziende tedesche, e indubbiamente con grande successo? Suggerirei a Maurizio Landini e a Susanna Camusso di sparigliare le carte e di avanzare una proposta nuova, originale, radicalmente democratica, e nello stesso tempo concreta e fattibile: la democrazia industriale sul modello tedesco. Dal 1951 in Germania è stata introdotta la democrazia industriale: in tutte le medie e grandi fabbriche i lavoratori eleggono dal basso con voto segreto non solo il consiglio sindacale di fabbrica ma anche i loro rappresentanti all'interno del consiglio di sorveglianza. Il consiglio di sorveglianza ha grandi poteri: approva i bilanci, nomina il consiglio di gestione e i manager, detta le strategie, e decide nei casi di ristrutturazione, di acquisizione, di fusione e di delocalizzazione. Metà dei consiglieri nominati nel consiglio di sorveglianza sono eletti democraticamente dai lavoratori, mentre l'altra metà è nominata dagli azionisti privati e pubblici.
Alla Volkswagen, così come alla Mercedes e alla Opel, alla Siemens e in tutte le grandi e medie fabbriche tedesche è applicato il principio della partecipazione democratica dei lavoratori alle strategie e alla gestione delle aziende, e proprio questa partecipazione costituisce il principale fattore di successo della manifattura tedesca. E' infatti facile comprendere che i lavoratori sono più interessati al successo sostenibile dell'azienda rispetto agli azionisti e agli operatori finanziari che - come avviene nel modello anglosassone di capitalismo dominante anche in Europa - hanno mire prevalentemente o esclusivamente finanziarie e speculative, cioè di breve termine [1].
In Germania i lavoratori, iscritti non iscritti al sindacato, non solo eleggono il consiglio di fabbrica ma, grazie alla partecipazione paritaria nei board delle grandi aziende possono effettivamente influenzare le strategie e la gestione delle imprese: in questo modo non solo riescono a difendere più efficacemente che altrove l'occupazione e la qualità del lavoro, ma contribuiscono allo sviluppo di lungo periodo delle loro aziende, e contrastano la finanziarizzazione, disastrosa per le imprese. Tuttavia i lavoratori tedeschi non partecipano per nulla al capitale e all'utile delle imprese, e quindi conservano la loro autonomia come classe che ha interessi ben distinti da quelli del capitale.
Ovviamente la Mitbestimmung tedesca – che letteralmente significa co-determinazione, ma che in Italia è stata tradotta spregiativamente come cogestione – non è tutta rose e fiori. Può provocare fenomeni di corporativismo e di nazionalismo dei lavoratori tedeschi verso i lavoratori stranieri; inoltre nella Mitbestimmung è regolamentata non solo la rappresentanza democratica dei lavoratori ma anche la conflittualità. I lavoratori possono decidere gli scioperi solo con i referendum e, in pratica, solo con l'assenso dei sindacati. Tuttavia la regolamentazione non elimina affatto la conflittualità – come dimostrano numerosi grandi scioperi nel settore privato e pubblico –. Al di là dei limiti, la codeterminazione rappresenta un compromesso avanzato certamente favorevole ai lavoratori e costituisce anche il principale fattore di successo delle imprese tedesche. Non si tratta di un'utopia, perché in Germania la Mitbestimmung è praticata con buoni risultati da oltre sessant'anni, anche se i media nostrani non lo pubblicizzano mai.
Marchionne vuole regole certe per contrastare ogni forma di conflittualità e di autonomia del lavoro nelle aziende? La controproposta potrebbe essere non solo quella della democrazia sindacale ma anche quella della codeterminazione e della partecipazione aziendale, senza però ovviamente partecipare al capitale. E paradossale che la sinistra italiana non abbia mai concepito e avanzato una simile proposta, che tuttavia è certamente realistica, sulla scorta dell'esempio tedesco, e sarebbe anche estremamente efficace soprattutto in una situazione di crisi, quando gli scioperi incidono purtroppo ben poco perché le aziende possono facilmente spostare gli investimenti all'estero. Occorre prendere atto che nel contesto della globalizzazione la questione di come vengono governate le aziende non ha più solo una valenza sindacale ma diventa un tema prevalentemente politico. Il sindacato è certamente l'organizzazione più interessata a proporre la democrazia industriale alle forze politiche.
L'ideologia ufficiale del sindacato italiano, e in particolare della CGIL, è storicamente conflittuale e non partecipativa. Ma in una situazione di estrema debolezza del movimento operaio, la conflittualità, che pure è necessaria e sacrosanta, è spesso purtroppo inefficace. Per influire effettivamente sulle scelte aziendali occorre partecipare agli organi decisionali delle imprese.
Proponendo la democrazia industriale la Cgil potrebbe tra l'altro tentare di recuperare le proposte della Cisl di partecipazione nelle imprese. Il progetto partecipativo della Cisl all'utile aziendale (o al capitale delle imprese) ha infatti una forte connotazione di corporativismo, di aziendalismo, e di subordinazione dei lavoratori. Secondo i progetti della CISL, i lavoratori conterebbero poco o nulla nel consiglio d'amministrazione delle aziende ma subordinerebbero il loro salario agli utili aziendali, in una logica corporativa.
La FIOM-Cgil sarebbe debole se opponesse alla visione di “partecipazione subordinata” della Cisl solamente una strategia di di conflittualità a livello aziendale e/o di negoziazione e di compromesso a livello nazionale. Sarebbe invece preferibile proporre una ben più efficace partecipazione dal basso dei lavoratori, e quindi anche dei sindacati, nei consigli d'amministrazione delle imprese (in Germania i lavoratori eleggono i loro rappresentanti nel board delle aziende, ma anche i sindacati hanno diritto di rappresentanza).
E' chiaro che non è facile raggiungere l'obiettivo della democrazia industriale. Non solo la Fiat ma anche la Confindustria (e il governo di centrosinistra) sono attualmente assolutamente contrarie al modello tedesco di governo delle imprese. Vogliono le mani libere da ogni tipo di condizionamento. Ma la sinistra non dovrebbe soggiacere ad una sorta di subalternità culturale verso la confindustria e l'ideologia liberista che pervade i governi di centrodestra e di centrosinistra. La cultura della democrazia è infatti non solo eticamente preferibile ma è anche economicamente più efficace per i lavoratori e per le aziende. Rappresenta la migliore difesa per l'occupazione dei lavoratori e un fattore di innovazione e sviluppo delle imprese.
La codeterminazione alla tedesca ha un altro pregio: costituisce infatti un argine importante e spesso decisivo per la difesa della base industriale nazionale di fronte ai capitali esteri che approfittano della crisi per strappare le migliori aziende italiane ai prezzi più bassi. La sinistra dovrebbe iniziare a proporre la democrazia industriale soprattutto nelle aziende a partecipazione statale e negli enti pubblici: ma anche nel campo privato, nelle situazioni di grave crisi – come quelle della Fiat, dell'Ilva, della Indesit e di tante altre aziende italiane – la democrazia industriale dovrebbe far parte delle proposte in discussione.
Perché, di fronte ai diktat di Marchionne, Landini e Camusso non potrebbero proporre la codeterminazione? Per Marchionne non sarebbe facile giustificare il rifiuto di governare le aziende in modo analogo a quello dei concorrenti tedeschi di maggiore successo. E per una volta finalmente anche in Italia si discuterebbe di una delle caratteristiche migliori del modello tedesco. Non è tra l'altro un caso che la democrazia industriale si accompagni in Germania a meccanismi elettorali strettamente proporzionali, all'autonomia federale dei Lander e a un parlamentarismo molto efficiente, opposto al presidenzialismo autoritario che invece si vuole introdurre in Italia.
[1] Vedi European Trade Union Institution, ETUI, il centro di ricerca dei sindacati europei, The Sustainable Company; a New Approach to Corporate Governance, a cura di Sigurt Vitols e Norbert Kluge. In questo testo si sostiene che la partecipazione dei lavoratori rappresenta un ottimo antidoto alla logica finanziaria di breve periodo che domina nelle imprese.
(15 luglio 2013)
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