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martedì 16 luglio 2013

Caselli: “Mafie e politica, legami criminali”



Dalla sanità al commercio, dal turismo allo smaltimento rifiuti: le mani dei clan strangolano l’Italia. L’intreccio d’interessi della “borghesia mafiosa” è un sistema di potere oscuro, consolidato in 30 anni di esercizio, tanto al sud quanto al nord del Paese. Il procuratore capo di Torino interviene sulle relazioni pericolose di politici e imprenditori per compravendita di voti, appalti e riciclaggio.

di Rossella Guadagnini
La mafia? Non esiste. “Una bestemmia dura a morire che ha sostenuto, con diverse declinazioni, il patto di coabitazione di tutti i successivi contesti economici e istituzionali della nostra storia”. Parole che pesano, tanto più se a pronunciarle è il procuratore capo di Torino, Gian Carlo Caselli, in un’aula di tribunale. “Nessuna banda di gangster al mondo sopravvive oltre 40, 50 anni. Se le mafie infestano il nostro Paese vuol dire che sono anche altro”. E’ l’assunto della requisitoria al processo “Minotauro” contro le infiltrazioni della ’ndrangheta nel torinese, in corso nell’aula bunker del carcere delle Vallette. Le richieste di condanna sono di oltre 730 anni di carcere per 73 imputati, con una sola assoluzione. Un dibattimento destinato a lasciare il segno, come ha spiegato il pm Roberto Sparagna: "Nessuna sentenza, fino a oggi, ha dimostrato la presenza della 'ndrangheta in Piemonte".

L'indagine prima e il processo poi hanno messo in luce i confini dell'intreccio tra cosche e quella che è chiamata “borghesia mafiosa”, soffermandosi in particolare su affari e legami con le amministrazioni locali. Una disamina accurata di come funzionano i rapporti tra politica e 'ndrangheta laggiù al nord. Sono oltre 360 gli affiliati, secondo le stime della Procura, di importanza e peso diversi e di diverso colore politico. Un'ondata di piena, quella della malavita organizzata, che non ha incontrato resistenze. "Perché la magistratura è stata lasciata sola? – chiede il procuratore capo di Torino – Per ignoranza, miopia, impreparazione, sottovalutazione culturale oppure per un certo distacco snobistico del nord?".

E prosegue il suo affondo contro quella parte di politici "negazionisti" che hanno dimostrato “scarsissima sensibilità” nei confronti del fenomeno mafioso, ramificato in tutta Italia. Tanto da non poter essere nemmeno più considerato “un’emergenza, ma una realtà consolidata in trent’anni di esercizio”, malgrado i campanelli d'allarme, a cui “pochissimi hanno dato retta, soprattutto tra uomini di partito e amministratori, ma anche nel mondo dell’informazione". Le cosche operano nella Penisola mantenendo stretti legami con i clan d'origine, uno sviluppo descritto come "gemmazione". Le organizzazioni criminali si sono infiltrate nei diversi livelli dello Stato. L'allarme lanciato dalla Procura torinese è difficile da ignorare: Torino come Catanzaro, il Piemonte che assomiglia molto da vicino alla Sila e all'Aspromonte. Com’è potuto succedere?

Il 416 bis del codice penale per associazione mafiosa nel 1982: impossibile non sapere
C’era una volta il 416 bis del codice penale. Venne introdotto nel nostro ordinamento nel 1982 per sanzionare la mafia in quanto associazione, così da offrire uno strumento efficace di lotta. Prima di allora, pretendere di contrastare le cosche era – a detta di Giovanni Falcone – come “pretendere di fermare un carro-armato con una cerbottana”. L’associazione mafiosa consiste in un intreccio fra gangsterismo e “relazioni esterne”, spiega Caselli, un insieme di “coperture e complicità derivanti dal reticolo di interessi che i mafiosi sistematicamente cercano di tessere”. E’ la “vera spina dorsale del potere mafioso, che consente alla criminalità di gestire o controllare attività economiche, realizzare profitti o vantaggi ingiusti, influire sulle consultazioni elettorali”.

La presenza delle mafie oltre i confini del Mezzogiorno è nota a chiunque ne esamini anche solo superficialmente la storia. Risale sempre al 1982 l’intervista a Carlo Alberto dalla Chiesa di Giorgio Bocca (la Repubblica, 10 agosto), in cui il generale – che sarebbe stato assassinato un mese dopo – sostiene: “La mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi o commerciali e magari industriali. A me interessa conoscere questa ‘accumulazione primitiva’ del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte, che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi o ristoranti à la page. Ma ancor più mi interessa la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, imprese e commerci magari passati a mani insospettabili e corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere”.

“Valutazioni – commenta Caselli – che oggi vanno moltiplicate per chissà quanto. E’ inspiegabile che ci si stupisca davanti all’espansione della mafia nel Nord Italia. C’è solo da prenderne atto e cercare di contrastarla con gli strumenti di cui disponiamo. Guai, insomma, a stupirsi se l’acqua bagna. Piuttosto bisogna attrezzarsi e aprire l’ombrello”. Proprio a Torino, esattamente 30 anni fa, il 26 giugno 1983, la ‘ndrangheta uccise Bruno Caccia, procuratore capo della Repubblica. Dal 1970 al 1983, nella provincia, ci sono stati 44 omicidi, con 24 assassinati di origine calabrese, tutti nel segno della criminalità organizzata. Il Piemonte, inoltre, vanta un altro primato negativo: il primo consiglio comunale sciolto per ‘ndrangheta a Bardonecchia, nel 1995. E’ dunque “impossibile non sapere”. Ciò malgrado, osserva il magistrato, “le porte per l’ingresso della ‘ndrangheta al nord sono rimaste spalancate. Di fatto, se n’è favorito l’insediamento”.

Quando la mafia agisce in territori nuovi, non tradizionali, ha la capacità “dimimetizzarsi, per non essere avvertita come pericolo presente”. Per decenni i mafiosi sono riusciti in tal modo a estendere la loro presenza criminale in aree ben più ampie del Mezzogiorno e per espandersi hanno usato la “forza relazionale”, ossia la “costante ricerca di rapporti stretti con personaggi di rilievo in vari settori della pubblica amministrazione e della politica, del mondo degli affari e della finanza. Hanno esteso il riciclaggio (cioè l’avvelenamento sempre più profondo dell’economia) anche a nuovi territori, ulteriormente ampliando la propria area d’influenza”.

Le mafie nel Nord Italia rappresentano una presenza in costante crescita. La loro struttura è “rigorosamente familiare e presenta difficoltà di penetrazione dall’esterno, credito sociale, assenza di pentiti: quei pochi che ci sono, sono soggetti ad attacchi d’ogni tipo”. Nessun reato che crei allarme sociale e faccia “scendere la gente in strada”. Tanta droga, spazio per tutti: marocchini, albanesi, slavi, sudamericani. Per non dare nell’occhio, la violenza è usata come ultima arma; vengono prima l’intimidazione, la suggestione, la pressione e la corruzione, metodi che consentono un’espansione invisibile e perciò indisturbata. Una situazione che richiede “una magistratura sempre più attrezzata professionalmente e sempre più indipendente, proprio quello che tanti non vogliono”.

La “zona grigia” dei fiancheggiatori rende difficile distinguere il bianco dal nero

Punto di forza e di espansione progressiva è la “zona grigia” delle organizzazioni, proprio perché non si vede e perciò è particolarmente pericolosa. Diviene “sempre più difficile distinguere il bianco dal nero”, prosegue Caselli, in quanto dilaga il grigio, formato “da fiancheggiatori più o meno consapevoli del reale profilo criminale dei loro interlocutori”. Per realizzare i loro affari, i mafiosi hanno bisogno “di esperti: ragionieri, commercialisti, immobiliaristi, operatori finanziari e bancari, notai, avvocati, politici, amministratori, uomini delle istituzioni (magistrati compresi, purtroppo): la cosiddetta borghesia mafiosa”. Si fanno così sempre “più fitti gli intrecci con pezzi del mondo politico e dei ‘colletti bianchi’”. I transiti di “denaro sporco” nell’economia legale sono più intensi. E se la competizione nel mondo dell’impresa è sempre più dura, “un aiutino per mettere un piede davanti alla concorrenza può essere ben gradito, anche a costo di ritrovarsi qualche socio poco raccomandabile”.

Non c’è dunque solo la componente del “gangsterismo, fatto di estorsioni, usura, droga, rifiuti, e caporalato. Ma anche quella delle relazioni esterne, in cui giocano un ruolo chiave coperture, collusioni, complicità, affari e interessi”. Tutto ciò fa della mafia quello che è: un esteso sistema di potere. Per affrontarlo, sottolinea il procuratore capo di Torino, “il magistrato deve indagare in tutti gli ambienti, su tutti gli intrecci. Se risultano ‘relazioni esterne’ ha l’obbligo di evidenziarle tutte, anche quando non presentino profili di rilevanza penale. Proprio la presenza di rapporti, la descrizione delle ramificazioni, di tutte le ramificazioni delle organizzazioni criminali nel territorio, sono un elemento essenziale per riconoscere le caratteristiche specifiche della mafia nell’estendersi all’interno di una società”.

Per questo non è accettabile “la richiesta – rivolta spesso alle toghe – di indicare soltanto con molti omissis la rete di relazioni intrecciate dalla criminalità nel tessuto politico e sociale della comunità. Sarebbe un grave errore”, a detta di Caselli, in quanto “il silenzio si trasformerebbe in omertà e non contribuirebbe a bonificare il tessuto sociale”. Insomma, occorre uno sguardo d’insieme, capace di esplorare anche il lato nascosto del pianeta-mafia, quello fuori scena, tenuto sommerso, nascosto. Ricondurre “i frammenti in un quadro organico e non parcellizzato, consentendo così di decifrarli e capirli meglio, che è poi il metodo Falcone”.

“Il dilagare del grigio – precisa ancora il procuratore capo – rende l’intervento della magistratura inquirente e giudicante molto difficile. Sempre più sfumata diventa la linea di demarcazione fra lecito ed illecito all’interno delle attività economiche, finanziarie, produttive. Sempre più impegnativo il compito della magistratura nel contrasto del crimine organizzato”. Per fare questo non bastano le toghe che perseguono i delitti, non bastano gli investigatori: “c’è bisogno che la classe politica e dirigente del Paese si schieri, operando nella medesima direzione per togliere spazi alla criminalità”.

“La mafia c’è perché c’è mercato per i suoi servizi, ci sono tante persone che traggono vantaggi dalla sua esistenza che non hanno nessun interesse a denunziare nulla. Persone come politici e amministratori che la legge penale non può punire in quanto la loro colpa è l’opportunismo, una colpa che espone alla ricattabilità”.

Mafie e politica: ecco come funziona

Il dato emergente dai rapporti accertati tra esponenti della ‘ndrangheta e dell’apparato pubblico in Piemonte è che “l’appoggio fornito dai primi a ‘uomini delle istituzioni’ è comunque finalizzato a chiedere, in futuro, il conto di tale appoggio”. Ad esempio, a proposito di un incontro con un personaggio in vista, un indagato dice in un’intercettazione: “ve lo faccio incontrare... gli date una mano poi fate quello che volete a Castellamonte... Facciamo quello vogliamo compare ... facciamo quello che vogliamo”.

“Fino a qualche tempo fa – spiega Caselli – le mafie avvicinavano se non addirittura sottomettevano gli esponenti politici che potevano risultare preziosi per raggiungere certi obiettivi come appalti, traffici vari, speculazioni soprattutto immobiliari. Da qualche tempo, le mafie hanno ritenuto più conveniente inserire loro uomini direttamente negli organismi politici e amministrativi rilevanti per le loro attività criminali”.

Il comportamento degli ‘ndranghetisti nella fase di scelta del partito da appoggiare in caso di votazioni, consiste di regola nel “non inserire mai nella discussione idee politiche o programmatiche proprie di uno degli schieramenti”. Quanto ai politici, viene invece adottato un atteggiamento di accettazione o rifiuto, a seconda del mero calcolo di interesse e peso numerico. “Nessuna traccia di una presa di posizione sul versante dei principi, ma uno sconfortante contesto di tolleranza. Per certuni può essere più semplice assicurarsi il sostegno della malavita, piuttosto che competere lealmente con gli avversari al momento delle elezioni. Ciò vale per qualunque confronto elettorale: europee, provinciali o comunali, non fa differenza”.

“Quando i collegi elettorali sono piccoli è più facile che una minoranza organizzata riesca a controllare un numero di elettori significativo, sufficiente per distorcere il processo democratico. L’inserimento negli organismi elettivi è già di per sé pericoloso e inquinante, ma produce a sua volta effetti perversi”, quali assunzioni clientelari, affidamento di lavori, forniture e servizi a imprese collegate. L’area della presenza mafiosa si allarga via via, fino a stravolgere il mercato del lavoro e quello degli appalti. “Così la ‘ndrangheta ha conquistato soggettività politica e ruolo imprenditoriale. Una nuova dimensione che bisogna essere capaci di cogliere nelle pieghe della società”.

Gli investimenti delle cosche: sanità, turismo, distribuzione commerciale, smaltimento rifiuti 
Abbandonati i sequestri di persona, ma non i traffici di droga, la ‘ndrangheta – pur continuando a controllare l’intero ciclo dell’edilizia – ha investito nei settori più disparati: sanità, turismo, distribuzione commerciale, smaltimento rifiuti, oltre ad altri più tradizionali come gioco d’azzardo, traffico d’armi, controllo dei grandi flussi di denaro pubblico. Per fare tutto questo “ha bisogno di appoggi, nella politica e nell’amministrazione. Sa come cercarli e li trova. Un soggetto moderno, insomma, inserito progressivamente nei salotti buoni. E’ in questo modo che si fanno affari e si determinano le scelte sul territorio”.

Significativi i termini in cui si esprime un indagato: “ (bisogna) far sì ché la gente dice: Ah, con te .... ma le strade si fanno... i lavori si fanno... gli appalti vanno avanti... l'università... le cose si fanno..; questo principio... puoi farlo su un gruppo che è fedele. Anzitutto prendiamo uno e (lo) mettiamo in Comune, l'altro lo mettiamo nel Consiglio, l'altro (lo) mettiamo in una Pro-loco e l'altro lo mettiamo in un'altra cosa, magari arriviamo che di lì... ci ritroviamo solo i nostri”.

“Facciamo squadra e controlliamo tutto”. E’ la moderna strategia degli uomini dei clan, un programma di occupazione del territorio, attuato grazie all’intreccio tra forza politica e forza intimidatrice della ’ndrangheta. Il lato oscuro del pianeta mafia è rappresentato da “un groviglio perverso di favori scambiati, interessi comuni, collusioni, coperture complicità – rammenta Caselli – ma chi paga il prezzo? Lo pagano i cittadini e i consumatori, in quanto abbiamo organismi elettivi disonesti, la regolarità mercati viene stravolta, oltre a dover vivere in un ambiente pervaso di corruzione e intimidazione fino alla violenza”.

La presenza dello Stato è indispensabile, ora in aula la discussione sul voto di scambio 
Il procuratore capo di Torino, infine, mette in guardia contro “il sentimento di distacco dallo Stato come strumento di regolamentazione della vita della Nazione”, dove trovano spazio “le mafie per sostituirsi allo Stato”. L’attuale grande crisi della liquidità economica permette al crimine organizzato “di entrare nei gangli della macchina economica. Manipolando e alterando la libera concorrenza, le mafie perseguono l’obiettivo di dimostrare agli imprenditori che stare con la mafia conviene”. Perché spesso si determina un regime di monopolio commerciale, con l’uso della forza e grazie all’azzeramento delle relazioni sindacali. Il ritorno “di una forte della presenza dello Stato, certo non con delega esclusiva alle Forze dell’Ordine e alla magistratura, è dunque auspicabile”, conclude Caselli. Auspicabile da subito e da subito necessario, si potrebbe aggiungere con un barlume di buon senso.

Nei giorni scorsi, il sindaco del comune di Monasterace (Reggio Calabria), Maria Carmela Lanzetta, in una lettera alla presidente della Camera. Laura Boldrini, ha rassegnato le sue dimissioni: “Sono delusa dalla politica – scrive – da chi potrebbe fare molto e pensa solo alle strategie invece che ai problemi della gente. Non si può andare avanti così, schiacciati tra le parole vuote delle istituzioni e la ‘ndrangheta”. Occorrono azioni, non parole. Occorrono decisioni, leggi, gesti significativi.

Intanto, in Commissione Giustizia della Camera, ha fatto un primo passo in avanti la questione del voto di scambio tra politica e mafia, regolamentata dal 416 ter del codice penale, reato del ’92 uscito dalla penna di Falcone, ora ripensato con l’estensione della perseguibilità dello scambio elettorale politico-mafioso, non solo in quanto passaggio di denaro, ma anche di favori, incarichi, appalti e informazioni. Secondo il presidente di Libera, don Luigi Ciotti, l’accoglimento delle richieste dei 250 “braccialetti bianchi”, rappresentanti di forze politiche diverse, è una “risposta concreta alla domanda di giustizia e d’impegno della società civile contro la corruzione. Ma la strada è appena imboccata. Niente scherzi o giochetti nel voto a Montecitorio, al via da lunedì 15 luglio”.

Importante, infatti, è vigilare affinché nella discussione in aula l’impianto della norma non venga in tutti i modi ‘annacquato’ al fine di evitare che possa funzionare davvero. Sono state accolte anche le proposte riguardanti la modifica del 416 bis per disciplinare meglio il cosiddetto concorso esterno: si è approvato, infatti, il principio che punisce chi promette denaro e altra utilità e il mafioso in concorso con il politico, precisa il relatore Stefano Dambruoso. Ma sul tappeto ci sono anche altri temi sensibili: come mai, ad esempio, il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, non ha ancora assegnato le deleghe al vice ministro Filippo Bubbico, in particolare quella che dà il controllo sulla commissione pentiti di mafia e testimoni? E, ancora, come mai rischia di non essere approvata entro agosto, secondo quanto stabilito, la legge istitutiva della commissione Antimafia con poteri più forti riguardo alla stragi politico-mafiose?

Le cosche del nuovo millennio hanno cambiato aspetto: non hanno più il volto terribile dell’assassino, ma quello più rassicurante in apparenza, talvolta perfino ‘politicamente corretto’, dell’amministratore, dell’imprenditore, del politico di turno. “Non si può governare innocentemente” ha detto Louis Antoine de Saint-Just, politico francese e rivoluzionario, nel processo contro Luigi XVI. Ed è vero. Ma non si può nemmeno governare barbaramente. A essere in gioco, a questo punto, è una questione di civiltà, oltre che di legalità.

(15 luglio 2013)


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